Fonte: Rimini Sparita
Url fonte: https://riminisparita.it
di Grazia Nardi – 27 luglio 2014
Non c’è dubbio che sul denaro sia stato detto tutto ma è anche certo che la percezione dello stesso dipenda da tante variabili, così come la sua definizione.
Quella legata al ceto sociale, ad esempio, distingue il “denaro” di chi lo identifica con un capitale, un insieme di beni, dai “soldi”, definizione più comune tra quelli che ci devono fare i conti con cadenza ricorrente, che devono dividerli, “fè i muccet”: tanto per l’affitto, tanto per il vitto, le bollette….
Non a caso nei proverbi il termine “denaro” si accosta a grandi prospettive, come: “il denaro non fa la felicità” mentre i “soldi” diventano un parametro per “pesare” le persone “t’an vèl du sòld”… o per definire le disuguaglianze sociali “i sóld i f’andè l’aqua d’in só”… o, paradossalmente, il contrario della ricchezza: “an’ho un sóld da sbàt sa cl’elt”.
C’era un’espressione ricorrente, un tempo, nei ceti più modesti. Chi si sentiva appellare con “signor”, definizione oggi sicuramente e propriamente generalizzata, rispondeva con: “e’ signor l’è mòrt in crósa.”.. Non era spregio per la divinità.. ma Sgnor con la S maiuscola era il re dei Cieli, con la s minuscola era quello ricco su questa terra. “Nu guerda ma lor, lor je sgnor” ovvero loro hanno i soldi, le possibilità… E le donne che prestavano servizio presso le famiglie ricche o comunque benestanti chiamavano la datrice, “la mia signora”.
Dunque non si era “signori” per nascita. E non, con questo, che mancasse il senso della dignità e della fierezza, racchiuso in altro modo di dire “e’ padro u’ l’a e’ chen”..ma non di meno il mondo si divideva in sgnor e purett.. almeno fino all’arrivo, con gli anni 60, del supercitato boom economico.
E, all’inizio, la resa non fu incondizionata, il ricordo o, meglio, la paura della povertà era sempre là sullo sfondo tanto che, tra le esigenze primarie, c’era quella di tenere “qualcosa da parte” perché “un si sa mai.. s’ut capita un spein” …
Ma degli anni 50, da bambina, ricordo che pur essendo in vigore le lire.. quella parola non la usava nessuno. C’era un senso di separatezza dalla ricchezza o dall’agiatezza che si esprimevano in lire, quasi un “non oso”… come se citare “le lire” significasse dare troppa confidenza a degli estranei..
Così le cento lire diventavano “zent scud”, le mille lire erano “i mèl frènc”, ad ogni richiesta di spesa ci si sentiva rispondere “in gnè i baiocc”, “non ci sono i flucchi” .. retaggi di antiche signorie, eserciti, domìni di epoche in cui era ancora diffuso il baratto e lo scambio tra cibo e lavoro.
E solo ai bambini la risposta negativa veniva ingentilita con un “non ci sono i dindini” accompagnato con il gesto del pollice sfregato contro l’indice.
In un unico caso le lire venivano in auge, quando la cifra era veramente alta, l’acquisto importante, inderogabile: la “mubelia”.. ovvero il mobilio, l’arredo, seppur essenziale, della casa, il motorino del capofamiglia necessario per le lunghe trasferte sul lavoro…In questi casi i soldi diventavano dei “buoni”.. “cla roba l’a me còsta un oç, ho spes dies bòn da mélla!”.
Del resto era il 1939 quando si cantava “se potessi avere mille lire al mese, senza esagerare sarei certo di trovare tutta la felicità”.
Nei primi anni 50 con mille lire, poco più dei 50 centesimi attuali, poteva fare la spesa giornaliera una famiglia, come la mia, di quattro persone, considerando che un chilo di pane costava 150 £, le uova 25 lire l’una, un chilo di patate 30 £, un litro di vino 120, 45 £ mezzo litro di latte e con 200-300 lire si poteva prendere carne sia pure sotto forma di fettine sottilissime da impanare o pesce fresco.
Oggi non diamo alcun peso, del resto non ce l’hanno, alle monetine di bronzo. All’epoca ogni soldo aveva un valore. Non c’era spillatico. Non sarà un caso che il portamonete era chiamato “e’ scarslein”.
A proposito d monetine, ricordo che, nei momenti più critici, la mamma mi mandava alla bottega, con quella del delfino, ad acquistare 5 lire di conserva, quanto bastava per il sugo del giorno, davanti allo sguardo sconsolato del bottegaio che, per quella cifra, passava la spatola di legno nel bidone di latta per poi “sporcare” il foglio di carta oleata.
Ma, come già detto in altre occasioni, in quel tempo, a compensazione, c’era l’abilità delle nostre mamme che riuscivano a cucinare anche “al spuntaturi di azident”. Erbe passate in padella con l’aglio, da gustare con la piada, così lo stracchino, tra i formaggi meno costosi, che “filava” quando, sempre in mezzo alla piada, veniva riscaldato sulla piana della stufa. E la pasta e fagioli che veniva inzuppata con pezzi di pane raffermo (la stuveda) e patate, tante patate, che arricchivano le modestissime quantità di spezzatino, le frittate con ogni sorta di verdura, il fegato con la cipolla, zampette, testa ed interiora dei polli combinate “alla cacciatora”, la frutta di scarto recuperata grazie alla cottura nel forno. Aquadezza (o birela) rimediata in casa, con l’uva “trovata” nei campi.
Ogni strada veniva battuta per ovviare alla mancanza di denaro. Così si cercava nei cantieri la legna da bruciare nella stufa, si raccoglievano le erbe in periferia convinti che “la roba clè ti chemp l’è di dio e di sènt”, le poveracce ed i cannelli in riva al mare.
Il riciclaggio più che una conquista ambientale rappresentava una necessità. Le vecchie ed infeltrite (inassedi) maglie di lana, cardate, finivano nell’imbottitura dei materassi in sostituzione del crine o, disfatte, venivano usate per confezionare calze “bustezzi”, la carta utile ad avviare e ravvivare il fuoco della stufa, i mozziconi del sapone andavano in bollitura nella pentola con gli strofinacci unti o con i pannolini (al pezi) delle donne. Gli indumenti più importanti, giacche e cappotti si tramandavano da parente in parente o trasferiti da amici o dai “signori” presso cui mamme e nonne si recavano come “donne di servizio”. Ed il pane era sacro: fresco in tavola quando era finito quello del giorno prima, raffermo nella zuppa del latte, grattugiato nell’impanatura, secco (un trocul) veniva dato ai bambini più piccoli che lo sfregavano sulle gengive “quand i fèva i dent”.