Solo nel 2013 quasi 4 milioni di persone nel mondo hanno perso il posto di lavoro. I disoccupati a livello globale hanno raggiunto quota 199,8 milioni. Lo dice il rapporto dell’Ilo, International labour organisation, “World of Work 2014”, secondo cui il numero dei disoccupati è di 30,6 milioni unità in più rispetto all’inizio della crisi economica. Ma per il vero sviluppo economico, concludono, bisogna puntare sulla qualità del lavoro e sulla riduzione del lavoro precario.
L’aumento della disoccupazione nel 2013 si spiegherebbe con l’incapacità dei singoli Paesi di creare posti di lavoro sufficienti ad assorbire tutti i nuovi arrivati sul mercato, si legge nel rapporto. C’è una differenza, però, tra Paesi sviluppati e in via di sviluppo. Nei primi il tasso dei senza lavoro è cresciuto dal 5,8 all’8,5 per cento; nei secondi dal 5,4 al 5,8 per cento. Questo perché, si legge nel rapporto, «nelle economie sviluppate che tendono ad avere sistemi di assistenza sociale per chi cerca un lavoro, la disoccupazione cresce tipicamente al deteriorarsi dell’economia. Dall’altro lato, in molti Paesi in via di sviluppo, soprattutto in quelli che hanno bassi livelli di protezione sociale, tende a esserci una relazione molto debole tra la crescita economica e la disoccupazione». Non è un caso che in diversi paesi in via di sviluppo sono ancora 839 milioni i lavoratori che guadagnano meno di 2 dollari al giorno e rimangono in condizioni di povertà.
Tra il 1980 e il 2011, il reddito pro capite nei Paesi in via di sviluppo è cresciuto mediamente del 3,3 per cento l’anno – molto più rapidamente dell’1,5 per cento registrato nelle economie avanzate. Questo processo di convergenza tra primo e terzo mondo si è amplificato a partire dalla fine degli anni 2000, soprattutto dopo l’inizio della crisi economica. Secondo l’Ilo, i Paesi che hanno investito nella qualità dell’occupazione e livello di vita hanno registrato i maggiori progressi (il reddito pro capite è aumentato del 3,5 per cento) rispetto a quelli che hanno prestato meno attenzione alla qualità dell’occupazione (il reddito pro capite non ha superato il 2,4 per cento). Allo stesso modo, i Paesi che sono riusciti a ridurre più fortemente il lavoro precario durante i primi anni 2000 hanno registrato una crescita economica significativa a partire dal 2007. In questi Paesi, la crescita pro capite è stata quasi del 3 per cento annuo tra il 2007 e il 2012, praticamente un punto percentuale in più rispetto ai Paesi che hanno registrato i minori progressi nella riduzione del lavoro precario.
Rimangono ancora differenze importanti nella qualità del lavoro. Nei Paesi in via di sviluppo, oltre la metà dei lavoratori (circa 1,5 miliardi di persone) ha un lavoro precario: lavoratori con minori possibilità di avere un contratto di lavoro formale, di essere coperti dalla sicurezza sociale — pensione di vecchiaia e cure mediche — o di disporre di un reddito regolare. Tendono ad essere intrappolati nel circolo vizioso dei lavori poco produttivi, pagati male e con limitate possibilità di investire nella salute delle proprie famiglie e nell’istruzione, il che mina le prospettive di sviluppo e di crescita, non solo per loro stessi, ma anche per le generazioni future. In Asia del Sud e in Africa sub-sahariana, oltre i tre quarti dei lavoratori sono precari; e le donne sono più colpite rispetto agli uomini.
Nei prossimi cinque anni sul mercato del lavoro ci saranno 213 milioni di nuovi ingressi, e di questi 200 milioni solo nei Paesi in via di sviluppo. Riusciranno a trovare un lavoro? Qui si pone il problema dei giovani senza lavoro, si legge nel rapporto: «Attualmente, nei paesi in via di sviluppo, il tasso di disoccupazione giovanile supera il 12 per cento — che corrisponde a più di tre volte il tasso di disoccupazione degli adulti. A livello regionale, i tassi più alti di disoccupazione giovanile si registrano in Medio Oriente e in Nord Africa, dove quasi un terzo dei giovani in età lavorativa non riesce a trovare lavoro». La situazione è particolarmente grave per le giovani donne che, in queste regioni, raggiungono tassi di disoccupazione vicini al 45 per cento. La sfida dell’occupazione è anche qualitativa: il livello di istruzione cresce rapidamente nella maggior parte dei Paesi in via di sviluppo, per cui aumenta la distanza tra le competenze acquisite a scuola e la natura dei posti di lavoro disponibili.
La mancanza di posti di lavoro di qualità è un fattore determinante dell’emigrazione, soprattutto per i giovani diplomati nei Paesi in via di sviluppo. La differenza dei salari tra Paesi di origine e Paesi di destinazione è generalmente di 1 a 10. Nel 2013, oltre 230 milioni di persone vivevano in un Paese diverso da quello in cui erano nati, segnando un aumento di circa 57 milioni dal 2000; l’Asia del Sud rappresenta circa la metà di questo aumento.
«Non ci può essere sviluppo sostenibile senza progressi nell’agenda dell’occupazione e del lavoro dignitoso», scrivono dall’Ilo. «Se si mettono in atto politiche ed istituzioni capaci di creare più numerosi posti di lavoro e di migliore qualità, verrà facilitato anche il processo di sviluppo. Reciprocamente, non può essere sostenibile una crescita economica che sia fondata su condizioni di lavoro scarse e senza sicurezza, su salari ridotti, sull’aumento della povertà da lavoro e sulle disuguaglianze. Il lavoro, i diritti, la protezione sociale e il dialogo sociale non influiscono solo sulla crescita economica ma sono anche parte integrante dello sviluppo».