La vicenda umana, politica e professionale, di Campos Venuti si può sintetizzare in questa definizione: un intellettuale tecnico di carattere organico. Nel senso gramsciano per cui “il modo di essere del nuovo intellettuale [non consiste] nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore….” E questo all’insegna di una precisa visione del mondo, una cultura politica, una appartenenza sociale definita. Un intellettuale pratico di altissimo valore. Un ingegnere sociale. Questo è stato Campos. Sino ad elevarsi indiscutibilmente come il padre dell’urbanistica riformista.
Una vera e propria leva di intellettuali organici è stato il miracolo dell’esperienza del comunismo emiliano negli anni sessanta. Un partito i cui quadri sono tutti di estrazione popolare ma che si apre a giovani intellettuali tecnici, li accoglie nel proprio seno. Li plasma, li forgia nella sensibilità culturale, facendosi plasmare dalle loro idee. Li mette alla prova dell’amministrazione ed elabora un progetto riformista di governo. Nei ’60 prende corpo e si realizza un’idea generale di sviluppo della società locale e regionale. Chi legga oggi i materiali di quella stagione collettiva di analisi e ricerca che culminò nei progetti di piano del CRPE relativi all’area padana (poi recepiti dall’istituenda Regione), nel piano urbanistico del ’69 e nelle pionieristiche esperienze di pianificazione intercomunale, non può non restare affascinato dalla precisione e dalla profondità dell’analisi empirica delle tendenze, dalla modernità degli strumenti, dall’ampiezza della visione. La materia grigia di inaudita densità che ha strutturato il modello emiliano. Una stagione di tale livello da non trovare più ripetizione. Una magia culturale e politica che ha composto in forma irreversibile certi caratteri fisico-morfologici e sociali di Bologna e della regione. Caratteri socialisti, quali ancora si ritrovano, pure con tutte le perversioni del tempo e degli effetti contro-intuitivi nella preservazione della collina, nella tutela dei centri storici, nella pianificazione intercomunale e negli assetti funzionali della piattaforma tecnologica produttiva, nei quartieri di nuova edilizia economico-popolare, concepiti e realizzati come entità sociali organiche (con servizi, scuole, biblioteche, centri di vita civica….). Un’idea complessiva della città e del territorio. Una pratica di piano di tipo socialista, sebbene flessibile e partecipata. La visione e la concretizzazione di una via sociale dello sviluppo del capitalismo e delle forze produttive. Il nostro ‘modello renano’. Di quella stagione Campos è stato l’interprete più completo e autorevole.
Il chiodo fisso di tutta la sua elaborazione e del suo ingaggio politico-amministrativo è stato la lotta alla rendita fondiaria e al monopolio speculativo. La linea portante della politica economica del Pci che trova alla metà dei settanta il suo sbocco elettorale nazionale, dando alla sinistra italiana, forgiatasi storicamente in ambito rurale, un precipuo carattere urbano. La lotta alla rendita urbana è il proseguo naturale della lotta alla rendita agraria: perfetto sincronismo per una popolazione composta di operai contadini inurbati. Del resto Campos aveva messo alla prova le sue armi analitiche fin da giovane esercitandosi nello studio della proprietà fondiaria (vaticana) nell’agro romano. Così come Zangheri si era formato nello studio del mondo mezzadrile e bracciantile.
Questa intellettualità organica politicamente ingaggiata è un tratto dei ’60 e dei ’70. A Bologna non c’è solo Campos (un ebreo romano d’importazione) e con Lui Zangheri, ci sono i Cervellati (seppure con una sua renitente inclinazione culturalista) e gli allievi di Fortunati, i Bellettini e i Bergonzini, i Tassinari e attorno a loro il fior fiore degli specialismi a vario titolo impegnati nella governance pianificatoria, come classe amministrante, diretta, come consulenti stabili, come quadri tecnici dell’amministrazione. Architetti, ingegneri, agronomi, geografi (si pensi a Toschi e a Gambi), sociologi, demografi ecc. Il progetto e il profilo architettonico dei piani edilizi non sono disegnati da archistar ma dall’ufficio tecnico dove operano fior di specialisti (come il compianto Mattioli). Il partito e l’amministrazione sono fusi e l’intellettuale organico è il medium. Un partito che però non è congrega di potere e veicolo di interessi, bensì organizzatore di rappresentanza popolare, scuola di quadri indirizzati alla cosa puibblica, luogo di confronto, integratore sociale.
Poi fra gli ’80 e i ’90 questa stagione è definitivamente tramontata. Con l’acqua sporca (che qui era invero limitata) viene buttato via anche il bambino. Paradossalmente un partito che.si apre alle classi medie scolarizzate cessa di avvalersi e di riprodurre intelletuali organici. Le esternalizzazioni decompongono le strutture di intelligence delle amministrazioni, che finiscono per avvalersi di prestazioni di mercato dove di organico non c’è nulla prevalendo il rapporto committente esecutore. Tutto passa per il mercato e le figure chiave di ogni amministrazione diventano i manager di cultura aziendale e gli amministrativisti. Per chi rimane e non si rassegna è una frustrazione. Vox clamantis in deserto. Ma non è qui il luogo per approfondire.
C’è stato un periodo, circa una decina d’anni fa, nel quale siamo stati quasi amici. Gli piacevano i miei editoriali sul Domani. Avere la stima di Bubi non era facile. Era arguto, ironico, con un eloquio diretto e tagliente. Scabroso. Portato alla critica. E giustamente aveva una certa considerazione di sé. Nella sua casa di Castiglione concepimmo di scrivere un libro in comune, ma poi non se ne fece nulla. Però mi concesse un onore nel quale disperavo: mi chiamo a presentare agli Ambasciatori la sua lunga intervista sulla città e l’urbanistica concessa all’editrice Laterza. Lui grande e rinomato, carico di meritate onorificenze, io un nullatenente. Io venivo da un brutto periodo e lui era afflitto da vari malanni. Camminava sorreggendosi a una zannetta. Nondimeno lo sguardo, l’eloquio e il pensiero scorreva vivo come sempre. In quella sede discutemmo animatamente sulla teoria della rendita in Marx, che per lui era l’anello mancante del suo pensiero, e per me, invece, il tratto permanente non dichiarato della teoria del capitale. Un vecchio signore che tornava con furore sul background culturale formativo della giovinezza. Perché Campos era un marxista, un materialista storico.
Poi per un certo periodo non ci siamo più visti. E mi rammarico di non essere andato a trovarlo. Forse gli avrebbe fatto piacere. Il periodo più bello della vita è l’età di mezzo, quando si vive coi contemporanei. Non solo i coetanei, ma chi viene prima e chi dopo. Se se ne ha contezza, e non si vive ripiegati su di sé, è la magia della compresenza delle storie, l’interpenetrazione del tempo. La grande colpa dei quarantenni attuali, zotici, incolti, egolatri con master, totalmente disorganici, è di avere fatto strame di questo miracolo. Immaginate Campos e Dozza quando nel ’60 si avvia la loro collaborazione in giunta. Lui architetto trentaquattrenne pieno di idee ed energia, che ha fatto la resistenza a 17 anni, il vecchio Dozza, già sessantenne, il fornaio comunista di Via Orfeo che ha girato mezzo mondo in esilio e che torna per fare la guerra partigiana e partecipare, a quarantaquattro anni, alla liberazione della città della quale sarà sindaco. Gli aneddoti nei quali Campos si perdeva a ricordare quella vita in comune erano innumerevoli. E lo faceva con la maestria istrionica del grande affabulatore. Io avevo undici anni, la vita era dura, la città brulicante ma ancora ferita. Piena di nebbia. A Palazzo D’Accursio, la ‘cmouna’ regnavano gli Dei di una nuova religione. Lo sentivamo.
Addio Campos