Pensieri di Gianni Cuperlo sulla vita politica e Alfredo Reichlin

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Gianni Cuperlo
Fonte: facebook

di Gianni Cuperlo 09 dicembre 2014

Oggi pomeriggio (09 dicembre) alla Sala Zuccari del Senato c’è stata la presentazione dell’ultimo libro di Alfredo Reichlin (Riprendiamoci la vita. Lettera ai nipoti, Editori Riuniti). Avevo avuto la possibilità di leggerne le bozze e sono stato tra quelli che oggi hanno detto qualcosa prima dell’intervento dell’autore. Con me c’erano, Emma Fattorini, Claudio Sardo, Franco Cassano, Luigi Zanda e Ernesto Galli della Loggia. Ho sistemato gli appunti e mi faceva piacere appiccicarli qui di seguito (come al solito).

“Reichlin è stato uno tra i dirigenti più autorevoli della sinistra italiana. Però, se ci troviamo a commentare uno scritto come questo non è solo per la sua biografia ma perché ha saputo evitare due rischi dell’età. Il “rimpianto” (l’idea di essersi lasciati alle spalle una stagione migliore ma irrimediabilmente perduta) / e l’estraneità verso un mondo rispetto al quale ci si sente separati in casa.

Queste due insidie lui le ha aggirate grazie a una grande curiosità intellettuale / penso di averlo capito in questi anni, quando con qualche frequenza ci siamo incrociati…a me capita di chiamarlo per un commento di giornata (che poi ha spesso il respiro corto delle nostre discussioni o piccole beghe..) / Alfredo ascolta, non si sottrae, ma tempo un paio di minuti ti ferma e con eleganza ti fa capire che sei concentrato su delle banalità / poi ti porta inesorabilmente a ragionare della politica (la democrazia, il lavoro, la natura del capitalismo….).

Ecco, questo volume racchiude molto di questo spirito: nel senso che non si limita a criticare un mondo che a un comunista borghese di 90 anni potrebbe anche non piacere (e tutto sommato avrebbe i suoi buoni motivi) / Ancora una volta Alfredo non ci parla di quello che c’è stato ma di quello che sarà. Insomma non è un libro di ricordi, è un libro di idee.

E siccome noi viviamo una stagione curiosa dove una certa carenza di idee porta sempre più spesso ad abbassare l’età di chi scrive libri di memorie, ecco il fatto che un uomo non più giovane ci regali un saggio di storia e politica a me pare il primo merito che è giusto riconoscere.

Ora, in un altro libro che Alfredo ha pubblicato qualche anno fa (quello sì, un libro anche di ricordi) lui muoveva da una premessa severa. Che era, più o meno, questa: “La sinistra non è più di moda” (anche se aggiungeva “nonostante un deposito di valori e culture). Siccome io penso che avesse ragione, ho letto questa lettera un po’ come lo svolgimento del tema. Diciamo il modo per chiedersi come è potuto accadere. Ma soprattutto al 7° anno della crisi più grave del secolo, come si reagisce? Su quali fondamenta si ricostruisce?

Ora, so bene che il Pd non è più solo un partito di sinistra. E vedo la portata di quel 40,8 per cento del voto di maggio. Quello che mi interroga è un’altra cosa. / E’ il fatto che questa crisi ha messo in discussione l’impianto di una destra che, bene o male, ha guidato le sorti di una parte larga del mondo (comunque dell’Occidente) negli ultimi 30 anni. Eppure nonostante questo la sinistra fatica….talvolta perde….da ultimo è successo a Obama nel voto di medio termine.

Allora, la domanda si può riassumere così: in questa contraddizione (la destra perde ma noi non torniamo a vincere, almeno sul terreno culturale) quanto pesa avere alle spalle vent’anni nei quali noi abbiamo abbassato drasticamente la soglia delle nostre ambizioni? Cioè quanto pesa avere rinunciato all’idea che la politica debba indicare risposte, soluzioni, propositi…ma non possa ridursi soltanto a un buon programma di governo?

Provo a dirlo meglio: di fronte a una crisi come questa, è giusto dire cosa bisogna fare per sostenere i redditi bassi, estendere gli ammortizzatori, non ammazzare le imprese in carenza di credito…ma è ragionevole che la sola domanda che la politica si fa su un collasso di queste dimensioni sia “quando finirà? Quando torneremo come prima?”. Mentre molto meno ci si pone l’altra questione che è quale sia l’alternativa possibile al modello che ci ha portati dove siamo oggi.

Penso che questo sia stato uno dei nostri limiti: la difficoltà di restituire alla politica una “sfida del pensiero”. E insisto, di un pensiero sul mondo. E’ un andare a farfalle? Non credo. Penso che, in fondo, i grandi partiti hanno sempre coltivato questa ambizione… e credo che sia stata questa miscela di un pensiero che si faceva forza organizzata e consenso a dare senso storico al concetto di sinistra.

Personalmente, ho letto quest’ultimo scritto anche come la consapevolezza che non basterà una chiave organizzativa a risolvere il nodo (insomma non saranno le primarie a ridarci quel radicamento che – se guardiamo a Roma – sembra mancare in modo clamoroso).

Quel nodo ha molte ragioni, ma forse la principale è che abbiamo tardato a capire la novità di un capitalismo in parte diverso dai precedenti (che si portava dentro una diversa forma del potere, non solo sul piano dell’economia).

Ed è esattamente questa la ragione per la quale servirebbero oggi altre parole e linguaggi in grado di definire quella cornice dentro la quale i programmi acquistano una rotta / Perché – e il nodo alla fine è qui – un partito non può essere solo il sindacato di una griglia, più o meno ampia, di soggetti o di interessi).

Il punto è da dove può ripartire una politica capace di mobilitare un popolo / (anni fa ti avevo sentito dire quella bella frase sul fatto che la sinistra storicamente non ha trovato un popolo ma lo ha creato).

Ecco forse buona parte della nostra subalternità viene da lì. Da quella rinuncia. Ed è come se ci trovassimo a pagare il conto proprio quando i titoli da declinare per una ripartenza ci sarebbero. Ne cito un paio.

L’identità e il ruolo dello Stato (se parliamo del rilancio dell’economia o del contrasto a un livello di diseguaglianza che l’Ocse oggi descrive come il più marcato degli ultimi 30 anni) / E ancora la natura dell’economia in un’era dove il rendimento privato del capitale non è più in asse con la redditività della produzione di beni….che poi è il punto di caduta di Piketty / Oppure la sfera dei diritti umani come sola utopia universalistica che ci è concessa dopo il grande tramonto ideologico (se mai c’è stato).

Ora, se di questo si tratta (cioè una serie di problemi che incrociano economia, rappresentanza, democrazia) siamo davanti a una questione che certamente interroga la classe dirigente. Ma è qualcosa che richiederebbe anche un nuovo protagonismo di milioni di donne e uomini (e qui il limite del PD è evidente).

Quello che non si può fare è aggirare l’ostacolo. Oppure immaginare che si possa tornare al ‘mondo di prima’.
Nel senso che siamo arrivati a un passaggio cruciale e tutto politico.

Ora senza enfasi, si può dire che in gioco è la qualità della democrazia in Europa.

E la domanda è questa: ma noi stiamo andando verso una cittadinanza forte, con una distribuzione dei poteri più equilibrata, oppure l’Italia (insieme ad altri) deve accettare una cittadinanza debole, che al posto del cittadino mette un individuo isolato e costretto allo scambio tra una qualche sicurezza e la rinuncia ad alcuni suoi diritti fondamentali? (Almeno in parte il braccio di ferro sulle riforme strutturali che l’Europa ci chiede risiede in questo).
Penso abbia ragione chi dice che non è un tema tra i tanti. Ma è il tema storico che condizionerà tutto il futuro. Nostro e di altri.
E questo testo di Alfredo (ancora una volta è una traccia per orientarsi al meglio, anche dove la strada si fa parecchio più oscura). Fosse solo per questa ragione, penso che noi non possiamo che ringraziarlo.”

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