Fonte: facebook
di Alfredo Morganti – 20 febbraio 2015
Come se non bastassero le correnti, le minicorrenti, i clan, le congreghe e persino qualche sniper, dal 18 febbraio nel PD ci sono pure i cattorenziani. Un nome che è già un programma. Dentro ci stanno Fioroni, Delrio, Guerini, Rughetti, Richetti and so on. A stilare il manifesto programmatico è pronto persino Andrea Romano (ex quasi di tutto, che è diventato cattorenziano, evidentemente, un paio di minuti fa, dopo aver messo il turbo). ‘Repubblica’ racconta che potrebbe essere della partita anche qualche veltroniano come Verini. Siete sorpresi? Io no. Io non mi aspetto che nel PD sorgano correnti ‘di sinistra’ o cheguevariane. Anzi. Mi sembra che l’andamento lento ma inesorabile sia quello di un contenitore sempre più grande, sempre più incolore, di gente ambiziosa abbarbicata attorno al Capo, almeno sinché non cadrà in disgrazia. Un partito trasparente, ma nel senso che lo guardi in controluce e non vedi niente, come la carta velina. Un partito dove mulinano correnti e personalismi come un ghirigoro o un gorgo, si mischiano, si danno bordone l’un l’altra ma poi si combattono cruentamente quando si spalanca davanti alla vista una poltrona in velluto rosso.
Questa è la prova provata che un partito ‘unito’ attorno al Capo non è affatto ‘unito’, ma sgretolato in mille ambizioni e interessi diversi. Brame tutto meno che ideologiche (e magari lo fossero!). Direi di più: l’uomo solo al comando produce un inevitabile ‘ricompattamento’ attorno alla sua ‘potenza’, ma non garantisce un’effettiva unità interna. Proprio perché il leaderismo ammazza i partiti, non li salva. I partiti, dico, come progetto collettivo. Li trasforma in un complesso di altrettanti piccoli leader, agevola l’estensione della ideologia personalistica in ogni anfratto anche locale, moltiplica come uno specchio l’immagine del leader stesso, il suo atteggiamento volitivo, amplifica la ‘individualizzazione’ dei ruoli dirigenti, accresce il tasso di competitività interna, riduce la ‘solidarietà’ a mobile solidarietà di interessi, atomizza i militanti in tanti fedeli a questo o a quel ‘capetto’. Più che dividere e imperare, il turbo-leaderismo sgretola e schiaccia quel poco che resta del ‘corpo’ del partito. Lo sminuzza. Lo ‘apre’ all’invasione aliena dei passanti nel giorno delle primarie.
Il ‘partito aperto’ diventa, così, il partito che ‘non c’è’, come l’isola. O meglio, che ‘c’è’ nella forma dell’aggregato provvisorio di atomi, dove il legame atomico è molto aleatorio, e dipende dalle fortune del partito stesso, dalla sua capacità di offrire ‘sbocchi’ istituzionali alla fame di carriera politica. Ora, in molti sembrano stare bene in questa macchina, anche quelli che dicono ‘non c’è alternativa’ (o forse tanto più). Altri manifestano disagio, ma sembrano lontani dall’idea di cambiare vettura. Altri restano in un limbo pedonale, perché sono scesi dal mezzo e procedono a piedi, lentamente, faticosamente, senza ambire a toccare chissà quale traguardo futuro, ma solo a testimoniare un’indignazione e una rabbia politica non più reprimibili. Questo è il panorama desolante di chi si è già scisso silenziosamente. Di chi sta per farlo. Di chi soffre di gastrite politica. Costoro meritano attenzione, oppure sono fossili che debbono essere lasciati a se stessi? Il mondo a chi appartiene, agli Andrea Romano e alla loro flessibilità da politics act, oppure a chi mette passione e intelligenza sul piatto della bilancia, ma deve cortesemente scansarsi, perché ormai tutto è roba d’altri, più svegli e più cinici? La domanda non è rivolta a Renzi, ma alla minoranza PD. Sia chiaro