Prima che il gallo canti – il carcere
“Il carcere” è un lungo racconto autobiografico di Cesare Pavese pubblicato nel ’49, ben dieci anni dopo la stesura.
È una storia d’introspezione, ombre, fantasmi personali: è una sorta di manifesto letterario e di vita dello scrittore: racconta del confino, ma è la stessa incapacità di comunicare a tenere prigioniero il protagonista.
La letteratura al confino. Carlo Levi e Cesare Pavese
“Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi è il romanzo esemplare nella narrazione della vita dell’intellettuale antifascista confinato per volere di Mussolini e della polizia fascista in un comune del sud del Paese.
Le due opere sono state pubblicate nello stesso periodo (nel 1945 Levi, nel 1948 Pavese) e per lo stesso editore, quel Giulio Einaudi con il quale avevano condiviso la formazione intellettuale e la condanna per antifascismo.
Entrambi gli autori appartengono all’ambiente intellettuale torinese, vennero accusati di attività antifascista e, dopo un breve soggiorno in carcere, nell’agosto del 1935 vengono condannati a tre anni di confino, Pavese a Brancaleone Calabro e Levi prima a Grassano, poi ad Aliano, in Lucania. Vi resteranno poco meno di un anno, ottenendo la libertà in seguito ai provvedimenti di grazia emessi dal regime per celebrare la proclamazione dell’Impero.
L’impegno politico, tuttavia, fu differente: Carlo Levi, fin dalla giovinezza, aveva partecipato all’attività politica di Gobetti, per poi aderire al movimento antifascista “Giustizia e Libertà” – fondato a Parigi nel 1929 da Carlo Rosselli, Emilio Lussu, Alberto Tarchiani – del quale sarebbe poi divenuto a Torino uno dei principali attivisti; mentre Pavese aveva frequentato i gruppi antifascisti torinesi, ma il suo impegno non fu mai direttamente militante.
Levi riferisce delle condizioni di miseria e asservimento dei contadini lucani; scrive in prima persona, infatti il protagonista è lo stesso autore. L’esperienza del confino, drammatica ed estraniante, viene vissuta come opportunità di conoscenza e di denuncia sociale. Il mondo chiuso di Aliano (che l’autore, fedele alla denominazione della gente del luogo, chiama Galiano) è simbolico della distanza tra due Italie: quella della “civiltà” che sembra essersi fermata nel suo sviluppo, là dove finisce la ferrovia, a Eboli appunto e quello emarginato e asservito in cui si stenta a sopravvivere tra miseria, fame e malattie. Levi stabilisce un contatto diretto con la gente del posto, grazie alle sue conoscenze mediche e questo gli permette di conoscere le pratiche della magia e del rito, che interpreta come risposta alla miseria. Nei mesi di permanenza in Lucania, si crea un legame forte di compassione ma anche di affetto con quelli che l’autore definisce i “suoi contadini”. L’idea centrale del libro si basa sulla scoperta del mondo contadino come passato arcaico individuale e collettivo, in cui lo spazio e il tempo mantengono una sacralità che il mondo borghese ha perso. “Il carcere” di Pavese è indirettamente autobiografico. Il protagonista è l’ingegner Stefano, un personaggio di fantasia e i riferimenti al contesto storico-politico, alle motivazioni della condanna al confino, sono rari, generici e non influenti. L’attenzione dell’autore, piuttosto che alla realtà umana che lo circonda, è rivolta all’introspezione del protagonista, unico personaggio tratteggiato in profondità. Nella solitudine trova la condizione che più lo appaga, ad esempio nel rifiuto di incontrare l’altro confinato, anticipa così il difficile rapporto con l’impegno politico che verrà ampiamente rappresentato nel romanzo “La casa in collina”. I due romanzi saranno pubblicati insieme con il titolo “Prima che il gallo canti” che, nel richiamo alle parole che Cristo rivolse a Pietro prima del tradimento, allude alla paura e all’incapacità dell’uomo di fronte alle proprie responsabilità.
Il Carcere
Il breve romanzo racconta l’esperienza del confino, fisica ma ancor di più esistenziale, che porta l’autore a descrivere Brancaleone, il paesino della Calabria in cui è confinato, la descrizione paesaggistica, speculare agli stati d’animo, è importante:
“Per qualche giorno Stefano studiò le siepi di fichidindia e lo scolorito orizzonte marino come strane realtà di cui, che fossero invisibili pareti di una cella, era il lato più naturale. “
Stefano,l’ingeniere, l’alter ego di Pavese, pare trovare pace nei ritmi lenti del paese e nel ritrovarsi negli stessi luoghi ogni giorno – fare una passeggiata come sostare nella locanda, ma traspare la solitudine e la desolazione del protagonista. Lo stile della lingua passa senza scossoni, da una forma descrittiva all’introspezione psicologica, dall’introspezione ai dialoghi, scritti in modo semplicissimo, proprio per rendere realisticamente al massimo l’ambiente e i personaggi:
“Stefano seduto davanti al sole della soglia ascoltava la sua libertà, parendogli di uscire ogni mattina dal carcere. Entravano avventori all’osteria, che talvolta lo disturbavano. A ore diverse passava in bicicletta il maresciallo dei carabinieri.
L’immobile strada, che si faceva a poco a poco meridiana, passava da sé davanti a Stefano: non c’era bisogno di seguirla. Stefano aveva sempre con sé un libro e lo teneva aperto innanzi e ogni tanto leggeva.
Gli faceva piacere salutare e venir salutato da visi noti. La guardia di finanza, che prendeva il caffè al banco, gli dava il buon giorno, cortese.
– Siete un uomo sedentario, – diceva con qualche ironia. – Vi si vede sempre seduto, al tavolino o sullo scoglio. Il mondo per voi non è grande.
– Ho anch’io la mia consegna, – rispondeva Stefano. – E vengo da lontano.
La guardia rideva. – Mi hanno detto del caso vostro. Il maresciallo è un uomo puntiglioso ma capisce con chi ha da fare. Vi lascia perfino sedere all’osteria, dove non dovreste.” (Cesare Pavese, Prima che il gallo canti – Il carcere, Einaudi, 1949)
Stefano è coinvolto nella vita di paese: gioca a carte all’osteria, va a caccia con Vincenzo, ma sente tutto come estraneo, precario, e sono sempre e solo gli “altri” a prendere l’iniziativa.
Proprio con Gaetano Fenoaltea, Stefano si rende conto di essersi sbagliato sui conti del paese. Quel paese non era un Eden immacolato: sotto la coltre dell’innocenza, i maschi nascondono torbidi atti e passioni, nel lungo racconto si fa strada il problema della frustrazione sessuale. Gli uomini del paese, Gaetano, Giannino, Pierino, molte volte gli chiederanno se avesse bisogno di una donna, ma Stefano rifuggirà sempre l’argomento. Alla fine del racconto, Gaetano aveva mantenuto “la promessa”: avevano preso una donna, Annetta, e la tenevano a casa del sarto. Quella donna era a disposizione loro e di altri due: Stefano passerà solo qualche minuto in stanza con Annetta, senza farci niente, solo per non scontentare Gaetano. Nel racconto dell’episodio i maschi sono volgari, sudicioni, desolanti:
“La ragazza – bella la conosceva Antonino – voleva quaranta lire: bisognava quotarsi – ci state, ingegnere? Stefano gli diede la moneta per troncare il discorso …Stefano fumava la pipa un mattino all’osteria e vide entrare guardinghi Gaetano e il meccanico. Vedendo il viso asciutto di Beppe, pensò a Giannino che aveva fatto con lui l’ultimo viaggio. Gaetano serio gli toccava la spalla: – Venite, ingegnere –. Allora ricordò.
Il sarto un ometto rosso, li accolse con mille cautele nella bottega. – Sta mangiando, – gli disse. – Ingegnere riverito. Nessuno vi ha visti? Sta mangiando. Ha passato la notte con Antonino.
La porticina di legno del retro non voleva aprirsi. Stefano disse: – Andiamocene pure. Non vogliamo disturbare – e spense la pipa.
Ma entrarono tutti e entrò anche lui. La stanzettina aveva il soffitto obliquo, e la donna sedeva su un materasso disfatto, senza camicetta sì che mostrava le spalle, e mangiava con il cucchiaio da una scodella. Levò gli occhi placidi in viso a tutti, tenendosi la scodella tra la sottana tra le ginocchia. I suoi piedi non toccavano terra, tanto che pareva una bambina grassa.
Hai appetito eh? – disse il sarto, con una curiosa vocetta raschiante.
– La donna fece un sorriso sciocco, indifferente e poi quasi beato.
Gaetano le andò vicino e le prese la guancia tra le dita. La donna con malumore si svincolò e, deposta la scodella a terra si posò le mani sulle ginocchia fissando in attesa. Forse credendo di sorridere, i tre uomini. Stefano disse: – non bisogna interrompere i pasti. Ora andiamo.
Fuori respirò l’aria fredda e smarrita.
Quando volete, ingegnere, – gli disse subito Gaetano alla spalla.”
Quindi l’incontro molto pavesiano con la donna:
“Ripartita la piccola donna che Stefano non aveva toccato, pur chiudendosi con lei qualche minuto per non essere scortese verso Gaetano – a Stefano accadde un fatto che la sua fantasia interpretò infantilmente come un oscuro compenso della Provvidenza. Trovò sul suo tavolo, rientrando la sera, un mazzetto di fiori rossi, ignoti, in un bicchiere e accanto un piatto, sotto un altro piatto capovolto, di carne arrostita. La stanza era rifatta e spazzata. La valigia sul tavolino nudo, fino fino all’orlo di biancheria lavata.
Nei pochi istanti che era stato nel covo, Stefano senza sedersi sul materasso aveva chiesto alla donna se era stanca, le aveva dato da fumare e, pur sapendo di farlo solamente per disgusto, s’era astenuto da lei. Le aveva detto: – vengo solo a salutarti – sorridendo per non offenderla: e l’aveva guardata fumare, così piccola e grassa, i capelli viziosi sulle spalle, il reggiseno rosa e innocente, dal ricamo consunto.
E adesso, in quella riconciliazione che Elena gli proponeva col mazzetto di fiori, Stefano vide un’ingenua promessa di pace, un assurdo compenso che più che da Elena gli veniva dalla sorte, per la sua buona azione. Naturalmente Annetta l’aveva rispettata per semplice disappetenza, ma Stefano non fece in tempo a sorridere della sua ipocrita ingenuità, che lo prese un terrore…”
Elena e Concia le donne del romanzo
Stefano ha una vera e propria storia con Elena, l’unica persona che viene raccontata in profondità, gli altri personaggi vengono descritti come figurine, ombre. Elena è una donna matura, vedova, remissiva, spaventata da quel che la gente dice e tuttavia molto sentimentale. Si lega subito a Stefano, mentre per lui è una sorta di ripiego, non riesce mai a sentirla accanto, a viverla propriamente come donna. Vorrebbe che lei arrivasse la notte e andasse via all’alba, senza dire nulla, vorrebbe che fosse solo un corpo senza storia.
“Elena non parlava molto. Ma guardava Stefano cercando di sorridergli con uno struggimento che la sua età rendeva materno. Stefano avrebbe voluto che venisse al mattino e gli entrasse nel letto come una moglie, ma se ne andasse come un sogno che non chiede parole né compromessi. I piccoli indugi d’Elena, l’esitazione delle sue parole, la sua semplice presenza, gli davano un disagio colpevole. Accadevano nella stanza chiusa laconici colloqui.
Una sera Elena era appena entrata, e Stefano per starsene solo, più tardi, a fumare in cortile, le diceva che forse tra un’ora sarebbe venuto qualcuno – Elena spaventata e imbronciata voleva andarsene subito e Stefano la tratteneva carezzandola – si sentì un passo e un respiro dietro i battenti serrati e una voce chiamò.
– Il maresciallo, – disse Elena.
– Non credo. Lasciamoci vedere: non c’è nulla di male.
– No! – disse Elena atterrita.
– Chi è? – gridò Stefano.
Era Giannino. – Un momento, – disse Stefano.
– Non importa, ingegnere. Domani vado a caccia. Venite anche voi?
Quando Giannino se ne andò, Stefano si volse. Elena era in piedi tra il letto e il muro, nella luce cruda con gli occhi perduti.
– Spegni la luce, – balbettò.
– È andato…
– Spegni la luce!
Stefano spense e le venne incontro.
– Vado via, – disse Elena, – non tornerò mai più.
Stefano si sentì male al cuore. – Perché? – Balbettò. – Non mi vuoi bene? – La raggiunse attraverso il letto e le prese una mano.
Elena divincolò le dita, serrandogliele convulsa. – Volevi aprire, – mormorò, – volevi aprire. Tu mi vuoi male -. Stefano le prese il braccio e la fece piegare sul letto. Si baciarono.” (Cesare Pavese, Prima che il gallo canti – Il carcere, Einaudi, 1949)
Stefano ha bisogno dell’amore di Elena ma si tratta di un amore a senso unico. L’uomo è incapace di ricambiarlo e ripetutamente sfugge alla donna. Nella sua fantasia si invaghisce di una serva giovane e selvaggia, Concia, che definisce “bella come una capra”, lo confessa agli altri uomini del romanzo, risultando ancora più distante da loro e bizzarro proprio perché attratto da questa animalità di cui gli altri pure sono parte e che cercano di fuggire.
“Non voleva parlare, e parlava. L’orgasmo degli altri gli dava un’importanza che lo faceva parlare. Sentiva di confondersi con loro, di essere sciocco come loro. Sorrise.
– …Non c’era…
– Ma chi è?
– Non lo so. Con licenza parlando, credo faccia la serva. È bella come una capra. Qualcosa tra la statua e la capra.
Tacque, sotto le domande incrociate. Provarono a dirgli dei nomi, rispose che non ne sapeva nulla. Ma dalle descrizioni che gli fecero, riportò l’impressione che si chiamasse Concia. Se era questa, gli dissero, veniva dalla montagna ed era proprio una capra, pronta a tutti i caproni. Ma non vedevano la bellezza.
– Quando sembrano donne, non vi piacciono? – Chiese Vincenzo, e tutti si misero a ridere.
– Ma Concia è venuta alla festa, – disse un giovane bruno, – l’ho veduta girare dietro la chiesa con due o tre ragazzini. Ingegnere, la vostra bellezza serve ai ragazzini.
– Chi vuoi che la voglia? Ha servito anche al vecchio Spanò che l’aveva a servizio, – disse Gaetano guardando Stefano.
Stefano lasciò cadere il discorso. Quel senso di solitudine fisica che l’aveva accompagnato tutto il giorno fra la calca festaiola e il cielo strano di lassù, rieccolo ancora. Per tutto il giorno Stefano s’era isolato come fuori del tempo, soffermandosi a guardare le viuzze aperte nel cielo. Perché Giannino gli aveva detto ridendo: “Andate, andate con Fenoaltea. Vi divertirete”? “(Cesare Pavese, Prima che il gallo canti – Il carcere, Einaudi, 1949).
Quando giunse il momento della partenza, Stefano riordinò in men che non si dica la sua valigia: c’è tempo per un ultimo saluto a Elena, che lui ha allontanato, forse per paura, forse per proteggerla.
“Le disse che le pagava la stanza, perché tornava a casa, e che il resto, nulla avrebbe potuto pagarlo. Elena con la sua voce roca balbettò imbarazzata: – Non si vuole bene per essere pagati.
“Volevo dire la pulizia” – pensò Stefano, ma tacque e le prese la mano.”
La casa in collina – Pavese, “un codardo” in fuga dalla storia o scrittore universale?
Questa notte ho riletto Pavese che ha scritto nel 1948 le pagine più umane, commoventi e di lucidità accecante sulla guerra civile, nel libro “La casa in collina”. Riporto un brano che è anche l’esame di coscienza di Pavese e la testimonianza della solitudine e fragilità della condizione umana.
Se passeggio nei boschi, se a ogni sospetto di rastrellatori mi rifugio nelle forre, se a volte discuto coi partigiani di passaggio (…), non è che non veda come la guerra non è un gioco, questa guerra che è giunta fin qui, che prende alla gola anche il nostro passato. Non so se Cate, Fonso, Dino, e tutti gli altri, torneranno. Certe volte lo spero, e mi fa paura. Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitato sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.
Ci sono giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco, un nodo d’erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi. Può sempre succedere. (…) Parte del giorno la passo in cucina, nell’enorme cucina dal battuto di terra, dove mia madre, mia sorella, le donne di casa, preparano conserve. Mio padre va e viene in cantina… A volte penso se una rappresaglia, un capriccio, un destino folgorasse la casa e ne facesse quattro muri diroccati e anneriti. A molta gente è già toccato. Che farebbe mio padre, che cosa direbbero le donne? Il loro tono è «La smettessero un po’», e per loro la guerriglia, tutta quanta questa guerra, sono risse di ragazzi, di quelle che seguivano un tempo alle feste del santo patrono. Se i partigiani requisiscono farina o bestiame, mio padre dice: «Non è giusto. Non hanno diritto. Lo chiedano piuttosto in regalo». «Chi ha diritto?» gli faccio. «Lascia che tutto sia finito e si vedrà», dice lui.
Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: «E dei caduti che facciamo? perché sono morti?». Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi par e che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.”
Un capolavoro. La scrittura di Pavese nella sua essenzialità sa essere allo stesso tempo particolare (perché descrive un particolare periodo storico) e universale. Universale perché i sentimenti di Corrado, che pure emergono dal magma di situazioni contingenti, sono in realtà i sentimenti di ognuno di noi quando l’anima si misura con le situazioni “stranianti” della vita. Può essere la guerra (che io non ho mai vissuto), ma anche la malattia, l’amore, la paternità. Insomma tutte le situazioni nelle quali ci ritroviamo circondati da macerie.
La guerra è egoismo. La guerra è male. Ma resta una consapevolezza che forse è il pensiero più orribile. La guerra è certa. Pieno di vergogna. Pieno di vita. Pieno di morte. Pavese qui annuncia la consapevolezza umana di non poter fare nulla di fronte alla guerra.
Un capolavoro universale. Proprio oggi che vediamo da ormai nove mesi, la guerra in Ucraina e al di là delle sciocchezze che ascoltiamo ogni giorno sui mass media e dai governanti, abbiamo acquisito la consapevolezza umana di non poter fare nulla di fronte alla guerra. La guerra è male.
La casa in collina – Trama
Cesare Pavese pubblica il romanzo La casa in collina nel 1948 insieme con Il carcere nel volume unico Prima che il gallo canti. Se Il carcere risale al periodo tra il 1938 e il 1939 e rievoca l’esperienza del confino dell’autore a Brancaleone Calabro tra il 1935 e il 1936, La casa in collina indaga le conseguenze psicologiche e sociali del secondo conflitto mondiale e della Resistenza, cui Pavese stesso non partecipa, rifugiandosi, come il protagonista, in campagna. In entrambe le opere la narrazione è dunque fortemente intrisa di elementi autobiografici, che fanno trasparire alcune costanti della poetica di Pavese: il legame disarmonico tra l’intellettuale e la realtà, il rapporto complesso con il mondo rurale delle Langhe contrapposto a quello della città.
Nel romanzo vengono narrate le vicende di un professore, di nome Corrado, che si rifugia sulle colline torinesi, cercando di sfuggire ai continui bombardamenti che costantemente mettono in ginocchio la città. L’uomo vive in compagnia di due donne, premurose nei suoi confronti: Elvira, zitella quarantenne “accollata e ossuta”, segretamente innamorata del professore, che vive nella speranza che tutte le sue attenzioni vengano un giorno ricambiate con un po’ di affetto e la madre anziana “che nella mole e negli acciacchi portava qualcosa di calmo, di terrestre, e si poteva immaginarla sotto le bombe come appunto apparirebbe una collina oscurata”. Corrado non ricambia le attenzioni di Elvira e cerca di sfuggirle.
In una delle sue quotidiane passeggiate in collina, accompagnato dal cane Belbo, Corrado giunge all’osteria Le Fontane, che scopre essere gestita da un suo amore del passato, Cate, che ha un figlio, Corrado (chiamato da tutti Dino), che, per motivi anagrafici, potrebbe essere suo figlio. Corrado infatti anni addietro aveva interrotto la relazione con Cate per scansare le responsabilità di un rapporto maturo.
Corrado si unisce al gruppo dell’osteria e, pur non scoprendo mai la verità circa la paternità di Dino, inizia a trascorrere molto tempo con lui (in maniera simile a quanto accadrà tra Anguilla e Cinto ne “La Luna e i falò”). Nel frattempo il protagonista si interroga anche sulla relazione con Cate, un amore incompiuto e non estinto, ma di fatto non fa nulla per riallacciare davvero il loro legame. Cate è, a mio avviso, il personaggio più riuscito di Pavese. Forte, determinata, incontrovertibilmente bella, sia nello sguardo di Corrado, che nelle le parole di Pavese:
“…Appena Cate usci di nuovo nel cortile, le andai incontro. Lei non si era accorta di nulla. Forse credeva che volessi riparlare dell’Elvira e mi fece gli occhiacci e si fermò.
– Si chiama Corrado, – le dissi.
Mi guardò interdetta.
– È il mio nome, – le dissi.
Lei volse il capo, in quel suo modo baldanzoso. Guardò quegli altri, ai tavolini, nell’ombra. Sussurro’ spaventata: – Va’ via, che ci vedono.
Mi volsi anch’io, per venirle a fianco. S’incamminò e disse scherzando: – Non lo sapevi ch’è il suo nome?
– Perché gliel’hai messo?
Alzò le spalle e non rispose.
– Quanti anni ha Dino? – e la fermai.
Mi strinse il braccio e disse: – Dopo. Sii buono.
Chiacchierarono a lungo di guerra e di allarmi, quella sera…. Io m’ero seduto vicino alla vecchia, e tacevo, sbirciavo il profilo di Cate. Mi pareva quella notte che l’avevo ritrovata, che le parlavo e non sapevo chi era. Ogni volta più cieco, ero stato. Un mese mi c’era voluto per capire che Dino vuol dire Corrado. Com’era la faccia di Dino? Chiudevo gli occhi e non riuscivo a rivederla.
Mi alzai di botto, per camminare nel cortile. – Mi accompagni là dietro? – disse Cate, e si alzò subito. M’incamminai con un senso di nausea. Da quel momento la mia vita rovinava. Ero come in rifugio quando le volte traballano. «Potevo fare tante cose», uno grida tra sé.
Andavamo nel buio. Cate taceva nel silenzio. Mi prese a braccetto incespicando e saltando leggera e disse piano: – Tienmi dritta -. L’afferrai. Ci fermammo.
– Corrado, – mi disse. – Ho fatto male a dare a Dino questo nome. Ma vedi che non conta. Non lo chiamiamo mai così.
– Allora perché gliel’hai dato?
– Ti volevo ancora bene. Tu non lo sai che ti ho voluto bene?
«A quest’ora, – pensai, – me l’avrebbe già detto». – Se mi vuoi bene, – dissi brusco e strinsi il braccio, – di chi è figlio Corrado?
Si liberò, senza parlare. Era robusta, più di me. – Stai tranquillo, — mi disse, – non avere paura. Non sei tu che l’hai fatto.
Ci guardammo nel buio. Mi sentivo spossato, sudato. Lei nella voce aveva avuto un’ombra di sarcasmo.
– Cos’hai detto? – mi fece, sollecita.
– Niente, – risposi, – niente. Se mi vuoi bene…
– Non te ne voglio più, Corrado.
– Se gli hai dato il mio nome, come hai potuto fare subito l’amore con un altro, quell’inverno?
Nell’ombra dominai la mia voce, mi umiliai, mi sentii generoso. Parlavo alla Cate di un tempo, alla ragazza disperata.
– Tu l’hai fatto l’amore con me, – disse tranquilla, – e di me t’importava un bel niente.
Era un’altra questione, ma che cosa potevo risponderle? Glielo dissi. Lei disse che si può far l’amore e pensare a tutt’altro. – Tu lo sai, – ripetè, – non vuoi bene a nessuno eppure avrai fatto l’amore con tante.
Di nuovo dissi, rassegnato, che da un pezzo non pensavo a queste cose.
Tornò a dirmi: – L’hai fatto.
— Cate, – m’irritai, – dimmi almeno chi è stato.
Di nuovo sorrise, di nuovo non volle saperne. – Ti ho già raccontato la mia vita di questi anni. Ho sempre faticato e battuto la testa. I primi tempi è stato brutto. Ma avevo Dino, non potevo pensare a sciocchezze. Mi ricordavo di quello che mi hai detto una volta, che la vita ha valore solamente se si vive per qualcosa o per qualcuno…
Anche questo le avevo insegnato. La frase era mia. «Se ti chiede per chi vivi tu, – mi gridai, – cosa rispondi?»
– Allora, non mi detesti, – balbettai sorridendo, – qualcosa di buono tra noi c’è stato? Puoi pensare a quei tempi senza cattiveria?
– A quei tempi tu non eri cattivo.
– Adesso sì? – dissi stupito. – Adesso ti faccio ribrezzo?
– Adesso soffri e mi fai pena, – disse seria. – Vivi solo col cane. Mi fai pena.
La guardai interdetto. – Non sono più buono, Cate? Anche con te, non sono buono più che allora?
– Non so, – disse Cate, – sei buono cosi, senza voglia. Lasci fare e non dài confidenza. Non hai nessuno, non ti arrabbi nemmeno.
– Mi sono arrabbiato per Dino, – dissi.
– Non vuoi bene a nessuno.
– Devo baciarti, Cate?
– Stupido, – disse, sempre calma, – non è questo che dico. Se io avessi voluto, mi avresti baciata da un pezzo. Tacque un momento, poi riprese: – Sei come un ragazzo, un ragazzo superbo. Di quei ragazzi che gli tocca una disgrazia, gli manca qualcosa, ma loro non vogliono che sia detta, che si sappia che soffrono. Per questo fai pena. Quando parli con gli altri sei sempre cattivo, maligno. Tu hai paura, Corrado.
– Sarà la guerra, saranno le bombe.
– No, sei tu, – disse Cate. – Tu vivi così. Adesso hai avuto paura per Dino. Paura che fosse tuo figlio.
Dal cortile ci chiamarono. Chiamavano Cate.
– Torniamo, – disse Cate sommessa. – Stai tranquillo. Nessuno ti disturba la pace.
M’aveva preso per il braccio e la fermai. – Cate, – le dissi, – se fosse vera la cosa di Dino, ti voglio sposare.
Mi guardò, senza ridere né turbarsi.
– Dino è mio figlio, – disse piano. – Andiamo via.
Passai così un’altra notte come la prima quando l’avevo ritrovata. Stavolta l’Elvira era a letto da un pezzo. Adesso che stavo giorno e notte in collina, lei sapeva di avermi al sicuro e mi lasciava sbizzarrire. Mi burlava soltanto perché, con tutti i miei muschi e i miei studi campestri, non conoscevo per nome i suoi fiori del giardino, e di certi scarlatti, carnosi, osceni, non seppi dirle proprio nulla. Le ridevano gli occhi parlandone.
– I cattivi pensieri notturni, – le dissi, – diventano fiori. Non c’è nome che basti. Anche la scienza a un certo punto si ferma -. Lei rideva, abbracciandosi i gomiti, lusingata del mio gioco. Ci pensai quella notte perché nel mazzo sopra il tavolo c’era qualcuno di quei fiori. Mi chiesi se Cate vedendoli avrebbe apprezzato lo scherzo. Forse si, ma non detto in quel modo, non truccato così. Una cosa quella sera avevo scoperto, un’altra prova ch’ero stato scemo e cieco anche stavolta: Cate era seria era padrona, Cate capiva come e meglio di me. Con lei il tono d’un tempo, baldanzoso e villano, non serviva più a nulla. Ci pensai tutta la notte, e di notte nell’insonnia il suo sarcasmo ingigantiva. In questo trovavo una pace. Se Cate diceva che Dino era suo, non potevo non fidarmi.
Ci pensai fino all’alba…”
Nel frattempo lo scenario bellico si trasforma: l’arresto di Mussolini e l’armistizio provocano un “formicolio” e un’instabilità, in precedenza sconosciuti anche tra gli avventori dell’osteria. Corrado sente traballare il mondo su cui era basata tutta la sua vita, che pure gli incuteva terrore e rancore.
La situazione però precipita quando l’8 settembre 1943 giunge l’annuncio dell’armistizio che porta solo ad incursioni, a rastrellamenti e alle deportazioni dei tedeschi, con l’appoggio dei fascisti. In una retata dei all’osteria, i nazisti arrestano Cate e gli altri amici di Corrado, che, di ritorno da Torino, riesce fortunosamente a salvarsi assieme a Dino. I due protagonisti, in varie peripezie, trovano rifugio nuovamente presso Elvira e sua madre e poi in un collegio a Chieri. Dopo un breve periodo le loro strade si divideranno: Dino, con l’entusiasmo e gli ideali tipici dei giovani, si unisce, nonostante la sua giovane età, alla lotta partigiana in collina; Corrado decide di tornare al paese natale e alla sua “casa in collina” con il suo fedele amico a quattro zampe, Belbo.
Il personaggio di Corrado appare, soprattutto in queste ultime pagine, come l’alter ego dello scrittore, che, attraverso La casa in collina, analizza sé stesso, i propri incubi e le proprie paure. Osserva l’insensata sofferenza della guerra, senza prenderne parte attivamente e senza trovare una giustificazione alle morti che il conflitto sta causando. Corrado,da un lato, comprende la dolorosa condizione umana, ma dall’altro si rammarica della propria impotenza e dell’impossibilità di fermare la sofferenza collettiva. Il destino del protagonista può essere interpretato anche in chiave universale: diventa simbolo dell’uomo moderno e dell’insensatezza della morte, emblematizzata dai cadaveri sulla strada, che diventano per Corrado simboli della colpa e della vergogna.
Il romanzo venne accolto con favore dalla critica, Emilio Cecchi “…sembra ormai una profezia a buon mercato che di questo passo egli dovrà arrivare assai lontano” e così pure altri critici prevedevano per Pavese, che non aveva ancora 40 anni, un ruolo da protagonista nella letteratura italiana.
Infatti Pavese il 19 gennaio del ’49, sul diario annotava:
“Recens. di Cecchi, recens. di De Robertis, recens. di Cajumi. Sei consacrato dai grandi cerimonieri. Ti dicono: hai 40 anni e ce l’hai fatta, sei il migliore della tua generazione, passerai alla storia, sei bizzarro e autentico…. Sognavi altro a vent’anni? (1)
Ebbene? Non dirò «tutto qui e adesso?». Sapevo quel che volevo e so quel che vale ora che l’ho. Non volevo soltanto questo. Volevo continuare, andar oltre, mangiarmi / un’altra generazione, diventare perenne come una collina. Quindi niente delusione. Soltanto una conferma. Da domani (salva sempre la salute) si continua imperterriti. Non dirò si comincia, perchè nessuno comincia mai. C’è sempre un passato, una prima volta anche in questo. Domani darò dentro, come ieri. Però, che sicurezza di naso, che coincidenza di volontà e di destino! Che sia qui il valore e non nelle opere?”
Pochi giorni prima, peraltro, lo scrittore scriveva una considerazione che anticipava le future polemiche per la sua mancata partecipazione attiva al movimento antifascista:
“Il fesso che hai sentito stasera (“tutti cerchiamo il nostro comodo, i partigiani idem, gli idealisti sono fessi, mi importa tanto di morire e che domani si stia bene”) è te stesso nei momenti di prudenza. Se tu l’avessi confutato in passato (id est, agito), forse ora non ci staresti più (Leone Ginzburg (2)). Tragedia. Eppure tra cent’anni crederà in te. No, crederà nel conformismo d’allora.” (Il mestiere di vivere, 11 gennaio, 1949)
Se le recensioni dei critici di professione furono positive, da subito venne a galla il giudizio sfavorevole verso il protagonista che ha evitato la partecipazione attiva alla guerra a fianco dei partigiani, con il passare del tempo compaiono di frequente insinuazioni o accuse per la mancata partecipazione di Pavese alla Resistenza.
Riporto questo intervento di Gabriele Pedullà su il Sole 24 ore (13 gennaio 2021)
CESARE PAVESE, “UN CODARDO” IN FUGA DALLA STORIA
“La casa in collina” presenta una costruzione sofisticata in cui le verità dell’autore si intrecciano con le menzogne del protagonista al punto che non si distinguono più le une dalle altre.
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Note
1) accenna alle recensioni a “Prima che il gallo canti” di Emilio Cecchi sull’”Europeo” (16 gennaio, “Poi di giorno in giorno, Milano 1954), di Giuseppe De Robertis sul ”Tempo” (15-22 gennaio) e di Arrigo Cajumi sulla “Nuova Stampa” (19 gennaio “Il selvatico Pavese);
2) il riferimento è alla morte di Leone.
Cesare Pavese era un vigliacco. Il primo a rendersene conto fu lui stesso, e le note del suo diario abbondano di commenti in tal senso. Il sentimento di inadeguatezza virile, che nello scrittore piemontese possiede sempre una precisa connotazione sessuale, si fece però ancora più acuto nel dopoguerra. Molti di coloro che Pavese frequentava erano andati partigiani; qualcuno dei suoi amici più cari, Leone Ginzburg e Giaime Pintor, non era più tornato. Solo lui pareva non fosse stato all’altezza del momento. “Non hai combattuto. Non combatterai mai. Conti qualcosa per qualcuno?”.
Un codardo e, moralmente, un traditore.
Dei tanti modi in cui si può espiare una colpa, Pavese scelse il più indiretto. Condannato dal regime al confino, costretto a nascondersi per evitare potenziali ritorsioni dei tedeschi, con la tessera del Partito Comunista in tasca, a guerra finita aveva tutte le carte in regola per recitare la parte dell’eroe. Se ciò non avvenne fu solo perché lui stesso si impegnò a sabotare questa eventualità, facendo sapere a tutti, con interviste, comunicati-stampa e recensioni “interne” alla casa editrice, che il protagonista del romanzo della sua consacrazione letteraria – un codardo e, moralmente, un traditore – era l’autore stesso.
Il Corrado de La casa in collina (il libro che, assieme a Il carcere, forma il dittico di Prima che il gallo canti) è infatti un uomo incapace di trasporto emotivo, che, quando la vita gli offre una seconda chance, facendogli rincontrare una ragazza con cui otto anni prima ha avuto una relazione, Cate, e scoprire che il di lei figlio, Dino, potrebbe essere il frutto dei loro amorazzi di allora, si sottrae: esattamente come evita di lasciarsi coinvolgere dagli amici di Cate, impegnati nella lotta contro i fascisti, per poi finire imboscato nella casa di campagna dei vecchi genitori, in una regressione all’infanzia su cui il libro si chiude mentre, attorno, l’Italia intera brucia. Una fuga dalla Storia simile a quella dello stesso Pavese.
L’invito a trattare La casa in collina come una sorta di confessione a cuore aperto, ha segnato profondamente tutte le letture successive. Nel 1949 proprio la morale del disimpegno espressa da Corrado fece addirittura del romanzo un avvenimento della guerra fredda culturale. I critici «borghesi» come Emilio Cecchi e Giuseppe De Robertis, che non avevano poche colpe da farsi perdonare, dichiararono il proprio entusiasmo per le pagine conclusive, dove Corrado si confronta con lo scandalo supremo della violenza, rievocando la scoperta casuale dei cadaveri di alcuni militi fascisti caduti in un’imboscata. Per quanto comunista, Pavese aveva dunque saputo comprendere le ragioni dei nemici: cosa di cui non erano capaci i narratori della Resistenza.
I critici marxisti
I critici marxisti riservarono invece alle lettere e alle conversazioni private le proprie perplessità. Di fronte ai rimproveri degli amici, Pavese fece allora ricorso a due strategie difensive assai diverse, ma non incompatibili tra loro. Con alcuni rivendicò semplicemente il diritto dello scrittore di mettere in scena la «tragedia» e di non tacere gli elementi meno conciliati di una guerra civile; ma con altri protestò che non andavano confuse le sue idee con quelle di un personaggio preoccupato solamente di costruirsi un «alibi» manipolando i propri lettori.
L’ultimo indizio è prezioso. La casa in collina si finge infatti il memoriale in prima persona del protagonista, composto nel novembre del 1944 per prepararsi a rispondere delle proprie azioni con i suoi stessi amici, se mai dovessero tornare dalla deportazione in Germania. E più lo si legge con attenzione, più ci si rende conto di quanto il racconto di Corrado assomigli all’autodifesa – palesemente inattendibile – di un «uomo del sottosuolo» alla Dostoevskij: che denuncia le proprie abiezioni per meglio guadagnarsi la fiducia del lettore, e magari strappare, nel finale, un giudizio di non colpevolezza.
Un’assoluzione generale
Perché, per esempio, tanti plateali errori di cronologia nel testo di Corrado? Solo una distrazione di Pavese? Il fatto che la storia privata del protagonista ruoti attorno alla sua incapacità di ricordare la data che gli permetterebbe di stabilire se Dino gli sia davvero figlio (Cate infatti non gli risponde, e lui non ricorda in quale mese si sono lasciati) porta ad escluderlo. Piuttosto, quando la sequenza degli eventi si fa così imprecisa, senza un chiaro rapporto di cause e di effetti vengono a cadere anche le responsabilità per quanto si è fatto o non fatto, in un’assoluzione generale. Esattamente ciò che si augura Corrado.
E dunque? Per come il romanzo è concepito, tutte le ipotesi rimangono aperte. Il fascino de La casa in collina dipende anzi proprio da questa ambiguità: davanti alla vista del sangue Corrado ha davvero sperimentato uno shock etico e tutto il suo memoriale è davvero soltanto uno stratagemma per occultare le proprie colpe. Che così a lungo i critici abbiano scommesso sulla buona fede del personaggio, optando per la prima ipotesi, la dice lunga sulle passioni politiche del dopoguerra ma torna soprattutto a lode di chi ha saputo escogitare una costruzione tanto sofisticata, dove le verità dell’autore si intrecciano con le menzogne del personaggio al punto che non è più possibile distinguere con sicurezza le une dalle altre. Se qualcuno cercasse ancora la prova che Pavese è stato – almeno una volta nella sua vita – non solo un grande prosatore ma un supremo artefice di macchine narrative, proprio questo congedo così inafferrabile dovrebbe bastare a dargliene conferma.
L’accusa più diretta a Pavese per la sua mancata partecipazione alla Resistenza , è quella scritta da un illustre intellettuale torinese, Angelo D’Orsi, nella introduzione a “Il taccuino segreto” che finisce per trasformare lo scrittore piemontese in un lagnoso bambinone:
“…soprattutto il sangue e la morte dei soldati repubblichini, caduti nell’imboscata dell’11 novembre ’44, a cui assiste e di cui darà conto in una pagina divenuta famosa grazie anche a una sua banalizzazione, de “La casa in collina” – testimoniano un rovello irresolubile, e ci restituiscono l’immagine di una sconfitta che diventa riscatto nazionale. Di tutto ciò egli è spettatore distratto, ma interiormente coinvolto, altrettanti capi d’accusa che egli in fondo muove a sé stesso.”
“Quanto sono stato ingenuo!”
Le accuse di Angelo D’Orsi a Cesare Pavese sono grossolane e strumentali, cioè servono “all’intellettuale” per dimostrare una propria teoria sul fascismo e l’antifascismo, servendosi di Pavese solo come di un’occasione polemica.
Dopo il periodo di fortuna se non addirittura di celebrazione di cui Pavese è stato oggetto nei primissimi anni del dopoguerra, allo scrittore piemontese sono state applicate le più strambe etichette parodiche e vere e proprie ostilità.
Ma già all’uscita della Casa in Collina, Pavese, in una lettera del 17 gennaio del 1949 al critico Emilio Cecchi, con sincerità si sfoga sui “fermenti politici” con cui era stato accolto il libro:
“Un’ultima cosa. L’inevitabile piano politico su cui la discussione del mio libro sta precipitando, mi fa rivelare la sua discrezione. Vorrei che tutti avessero la sua mano, e non vedermi adoperato per dimostrare che ormai tra fascisti e patrioti c’è parità morale. Quest’è un po’ forte. Ma la perenne, quotidiana scoperta che si fa qui in Italia è «Quanto sono stato ingenuo!»”
Concludo con il il testo che scrisse Norberto Bobbio – amico di Cesare Pavese dagli anni del liceo “Massimo D’Azeglio”, poco prima di morire nel 2009:
“Non mi sono mai considerato un uomo importante. Ho sempre guardato in alto e non in basso. Mi considero soprattutto un uomo fortunato. Fortunato per la famiglia in cui sono nato… fortunato perché ho trascorso indenne il corso della terribile storia del XX secolo, indenne quando molti amici hanno sofferto prigionia e tortura, l’occupazione tedesca e la guerra civile. Dimentichiamo, ma non confondiamo, chi è stato dalla parte giusta e chi da quella ingiusta, anche se chi è stato dalla parte giusta ha commesso ingiustizie.”
Il libro di Pavese viene accolto con accenti più o meno espliciti, di biasimo da parte dei paladini della liturgia comunista: con molta retorica e qualche ingenuità viene rimproverato a Pavese di avere scritto un libro autobiografico, teso a giustificare e assolvere il protagonista per la viltà di non avere partecipato in modo attivo alla guerra partigiana. Ora basta riflettere un poco e approfondire la conoscenza per sapere che la guerre sono fatte dai giovani. I giovani fecero la Resistenza, è vero che erano organizzati da persone più mature, ma erano militari in carriera o politici che avevano vissuto nella clandestinità e/o partecipato alla guerra di Spagna. Pavese è nato nel 1908, nel 1944 aveva 36 anni e inoltre era un intellettuale, era stato esonerato dal fare il militare e quindi che cosa ci andava a fare in montagna? Il rimorchio?
Viceversa la Resistenza, per una gran parte dei cittadini italiani, rimane un episodio estraneo, psicologicamente e culturalmente remoto. È entrato nel rituale e nel lessico ufficiale della Repubblica, ma non è diventato solida memoria collettiva dei suoi cittadini. Le ragioni sono molteplici,a partire dal fatto che il fascismo è figlio della nazione italiana: è nato non per caso in Italia ed è poi stato esportato nel resto del mondo. Lo storia d’Italia dall’Unita’ è caratterizzata dalla scarsa identificazione degli italiani con lo Stato,gli italiani sono mammoni. Mussolini nei comizi ricorda la mamma che con le mani sui fianchi rimprovera bonariamente il bambino, l’immaturo popolo italiano. A ben vedere proprio questo è il tratto di continuità tra il fascismo e la democrazia dei partiti del dopoguerra: la mancanza di senso dello stato del cittadino italiano, prima Mussolini, e poi i partiti della prima repubblica svolgono il compito della mediazione del cittadino con lo Stato, come la famiglia protegge il bambino dalla società. E proprio nelle famiglie si è tramandato un giudizio comprensivo, se non benevolo, verso il regime fascista: “Mussolini ha anche fatto cose giuste”, “I partigiani non sono serviti a nulla… si sarebbero evitati morti e rappresaglie” oppure “i partigiani erano degli scappati di casa”. Ormai sono un vecchio e da sessant’anni sento ripetere questa cantilena.
D’altra parte ho per esperienza personale (con i limiti dell’esperienza personale) accertato la difficoltà di addivenire a una memoria condivisa della fine del fascismo e della nascita della democrazia: alla fine degli anni Settanta , per la tesi di laurea, ho fatto decine di interviste ai protagonisti locali (provincia di Alessandria) e le loro memorie erano discordi, gli stessi episodi come la liberazione di Acqui Terme, erano non conciliabili a seconda del punto di vista. I partigiani sostenevano che la liberazione era il frutto delle loro azioni militari, gli altri minimizzavano se non obliteravano il ruolo della Resistenza.
Mio padre, che era nato nel 1916 ed era antifascista di antica famiglia socialista, aveva fatto quasi dieci anni di guerra, compresi anni di prigionia dai Francesi, era rimasto in amicizia coi suoi compagni di sventura – tutti antifascisti.Quando si incontravano, ricordavano di aver fatto gruppo di fronte all’entusiasmo dei giovani che credevano in Mussolini e in una facile vittoria, entusiasmo subito trasformatosi in annichilimento appena si sono resi conto di che cosa era la guerra e della mancanza di equipaggiamento dell’esercito italiano. Sempre mio padre ricordava,con mesta ironia, di quando era tornato a casa (nel 1946) e ritrovava tutti i suoi coetanei, esaltati del fascismo, diventati partigiani.
Nel 2016 ho intervistato Rino Morbelli, la sua è una storia unica, di un uomo nato nel 1923 e come i suoi coetanei, chiamato a combattere la seconda guerra mondiale. Si è rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò ed è finito in campo di concentramento in Germania, dove si è ammalato. Era già accatastato con i morti e si è salvato miracolosamente. Mi ha raccontato la sua incredibile storia settant’ anni dopo. Rino era un uomo buono e comunista (e lo è rimasto), un comunista non settario. Tornato a casa dopo la prigionia, malatissimo, ha incontrato alcuni suoi compagni che avevano aderito alla RSI e che poi erano passati alla Resistenza. Gli ho chiesto tante volte “cosa hai pensato?” e lui mi ha sempre risposto “la vita è fatta così”.
Dario, mio suocero, era nato nel 1926, leva chiamata alle armi dalla Repubblica di Salò, renitente, partecipò alla Resistenza nella divisione Garibaldi Pinan-Cichero una delle formazioni partigiane più organizzate,che agiva alle spalle dell’appennino ligure-piemontese.Una delle prime azioni a cui prese parte fu quella di recuperare i cadaveri dei partigiani ammazzati nell’eccidio della Benedicta (aprile 1944), 147 morti, sepolti in una fossa comune. Ricordava ripetutamente lo strazio di portare quei poveri resti mortali alle famiglie. Dario era un partigiano contadino, taciturno nel rammentare quel periodo della sua vita (aveva partecipato alla liberazione di Genova e fatto parte della polizia partigiana smantellata con l’arrivo degli alleati) sottolineava che alcuni partigiani facevano un uso gratuito della violenza e aveva vissuto come un vero sopruso la requisizione di bestiame dalle stalle dei contadini.
Il 25 aprile non è mai stata la festa di tutti, perché non è mai diventato un momento di memoria condivisa, bisogna prenderne atto, a poco servono – pare – gli appelli di stampo retorico: anzi la mancanza di una ricostruzione meditata, critica, ha ostacolato la formazione di un sentimento comune tra coloro che hanno fatto la Resistenza, le vittime civili della guerra e i tanti mandati da Mussolini a morire nella campagna di Russia e sui campi di battaglia. Di fatto Mussolini e il fascismo godevano di un ampio consenso nell’opinione pubblica, consenso che si è trasformato in frustrazione e rabbia con l’ingresso rovinoso dell’Italia in guerra.
I critici della Casa in collina hanno sottolineato gli aspetti autobiografici del romanzo, se avessero alzato lo sguardo, avrebbero colto che Pavese aveva scritto una pagina formidabile dell’Italia durante la guerra e al contempo della fragilità dell’uomo inerme di fronte alle grandi tragedie della storia.
Pavese è stato uno straordinario testimone del tempo, ha descritto la società rurale che, impaurita e disorientata, incontrava le parate e le armi delle truppe, subiva impotente i rastrellamenti dei fascisti e dei nazisti. Lo scrittore non ha avuto nel romanzo alcuna indulgenza verso il fascismo, ma solo pietà per i cadaveri “del nemico”.
Il passato non è mai del tutto morto e ormai, perlomeno dall’avvento di Berlusconi,ci troviamo a ridiscutere il valore fondante della Resistenza per la democrazia italiana e a rimettere in discussione continuamente la Costituzione italiana, peraltro ampiamente disattesa dalla sua approvazione.
Il passato non è mai del tutto morto e penetra l’istante fuggitivo del presente più di quello che si possa credere. Così Pavese con la Casa in collina diventa anche testimone del presente.
Il Compagno Cesare Pavese, “non è un buon compagno” ?!
« “P. non è un buon compagno”….discorsi d’intrighi dappertutto. Losche mene, che sarebbero poi i discorsi di quelli che più ti stanno a cuore», annotava Pavese amaramente sul suo diario il 15 febbraio del 1950 e nello stesso giorno aggiungeva, «La vita storica si sviluppa dal mito, non dalla religione. Mito pre-storia, religione sopra-storia.»
Sul rapporto di Cesare Pavese con il PCI si sono scritte cose controverse, vere e proprie bugie. Lo scrittore nel 1947 scrisse “Il Compagno”, un libro fiducioso del futuro, ricco di vitalità e di speranze.
La trama
Il protagonista di questo romanzo, Pablo, ama la musica, suona la chitarra e non ha un’idea precisa di cosa fare nella vita.
“Mi chiedevano perché suonavo la chitarra. La notte che Amelio si ruppe la schiena sulla strada di Avigliana, ero andato con tre o quattro a una merenda in collina, non lontano si vedeva il ponte… avevamo bevuto e scherzato sotto la luna di settembre, finché per via del fresco ci toccò cantare al chiuso.”
Nell’incidente in motocicletta, Amelio impegnato in attività politica antifascista a cui Pablo era estraneo, resta paralizzato e tra Linda (la ragazza di Amelio) e Pablo nasce una attrazione e iniziano a frequentarsi. L’ambiente è quello popolare e proletario di Torino, Pablo fa il camionista, ma spera di poter vivere con Linda. Ben presto la speranza di Pablo si rivela solo una fantasia amorosa perché Linda si fidanza con Lubrani, un impresario teatrale frequentatore della vita notturna torinese.
Per dimenticare la delusione amorosa, Pablo si trasferisce a Roma e inizia la seconda parte del libro. Nella capitale, Pablo si fa nuovi amici, si accosta alla politica antifascista e aiuta Gina, una giovane vedova, a gestire un negozio di ciclista che la donna ha ereditato dal marito e si fidanza con lei.
«Lei mi disse che andava al cinema quel giorno, io pensai “Con la blusa a quadretti?”. Nel pensarlo le diedi un’occhiata. Lei mi capì e la vidi ridere con gli occhi. Accidenti, era ben sveglia… e sembrava un ragazzo. Fino a notte rividi la testa riccia e quella bocca e il camminare nella tuta. Fu quella volta che scappai senza aspettare che chiudessimo.»
Pablo legge libri proibiti dal regime, grazie ai quali matura in lui una maggiore motivazione e consapevolezza dell’impegno politico. Partecipa così al movimento antifascista operaio della Capitale, finché non viene a sapere dell’arresto di Amelio a Torino e di altri arresti nel movimento antifascista romano. Dopo qualche giorno, Pablo stesso viene arrestato. Nonostante le percosse, il giovane non confesserà e verrà rilasciato per assenza di prove, con l’obbligo di rientrare a Torino, dove incontra Gina, con cui il rapporto si è fatto serio e positivo. Infine lascia la città, con la speranza che la donna lo raggiungerà nella città sabauda.
Ne “Il Compagno” Pavese è riuscito a raccontare la cospirazione politica con minuzia asciutta e senza cedimento alcuno alla retorica. I protagonisti sono operai che svolgono attività clandestina come un dovere, un lavoro, al di là di ogni decantazione, o incanto e senza un gesto eroico o solo eccezionale.
Il libro per Pavese rappresenta un caso unico, un “unicum”, sia per le speranze politiche e sociali che corrispondevano alle aspettative del dopoguerra, sia per la narrazione “positiva” della relazione tra un uomo e una donna, uno stato di “grazia” che non si ripeterà in altri libri e racconti dello scrittore.
Il romanzo venne accolto con favore dalla critica come un romanzo neorealistico.
Nel coro di critici entusiasti, si distingue la recensione di Giancarlo Vittorelli:
“Pavese ha qualità. Ma perché la struttura interna del libro è all’americana?… E glielo domando, anche in nome di quel marxismo che Pavese professa e che ne Il compagno vuole, sia pure artisticamente, servire……. mi domando però come mai il suo “compagno” ha tutta l’abulia, la meccanica indifferenza, il vagabondaggio lirico del convenzionale personaggio all’americana. Di italiano non ha niente. Ma allora perché farne un operaio torinese; ma allora perché dargli figura di italiano sotto il fascismo, perché presentare questo romanzo come un documento sociale (sia pure d’arte) del ventennio?…“ e conclude: “Pavese è uno scrittore dotato. Forse è vittima di uno schema erroneo.”
Nell’ottobre del 1948 sul diario di Pavese si legge una rara annotazione a proposito de “Il compagno”, di commovente compostezza:
“Riletto, ad apertura di pagina, pezzo del Compagno. Effetto di toccare un filo di corrente. C’è una tensione superiore al normale, folle, uno slancio continuamente bloccato. Un ansare.“
Dal romanzo fu tratto in seguito un film per la televisione diretto da Citto Maselli nel 1999.
L’impegno politico e il lavoro editoriale nella casa editrice di Giulio Einaudi sono tra gli aspetti meno noti dello scrittore, ma furono impegni che lo assorbirono per anni.
La casa editrice, dopo le difficoltà iniziali, amplificate dalla seconda guerra mondiale, diventò nel dopoguerra un punto di riferimento culturale per il mondo intellettuale italiano, in particolar modo per quella parte del paese antifascista e di sinistra.
In concomitanza con il lavoro editoriale – nel 1944 maturò in lui l’adesione al comunismo che si compì nella prima metà del ‘45, quando lo scrittore si rifugiò sulle colline di Serralunga (Alessandria). Lo rivelano tre articoli scritti da lui per conto del Pci di Casale, pubblicati il 4 maggio 1945 sul periodico partigiano “La Voce del Monferrato”, firmati “Il comitato del partito comunista” e “Il partito comunista italiano”.
Il 20 maggio del 1945 pubblicò il primo articolo sulla terza pagina dell’Unità “Ritorno all’uomo”… il 10 novembre scrisse all’amico Massimo Mila: «Io ho finalmente regolato la mia posizione iscrivendomi al PCI».
Anni dopo la morte dello scrittore, Massimo Mila così descrisse il rapporto che Pavese aveva con la politica: “La politica non teneva un gran posto nella sua vita interiore…Non quanto qualche parola di donna: non quanto la soddisfazione e il tormento del suo lavoro, …non quanto il mitico paesaggio bruciato delle Langhe e il sorriso della collina torinese.”
I momenti “neri” di Pavese
Dagli anni ’90 con l’avvento in politica di Berlusconi e il ritorno al governo del Paese della “destra nazionale” – di fatto erede del fascismo, è iniziato un processo di storicizzazione e di “revisione” del periodo fascista e della guerra civile, con il duplice obiettivo di annacquare le responsabilità del fascismo vero (regime) che ha governato per oltre un ventennio l’Italia sino alla disfatta e di archiviare contemporaneamente fascismo e antifascismo. Nel contempo sono circolati diversi documenti il cui scopo era quello di screditare l’integrità morale e/o politica di personalità esemplari dell’antifascismo.
In questo contesto comparvero missive di Pavese a Mussolini, taccuini segreti, tessere: si tratta in buona parte di forzature e di vere e proprie fandonie che è bene analizzare; esse riguardano l’iscrizione al Partito Nazionale Fascista dal 1933 (presumibilmente per poter insegnare, P. aveva 25 anni), le lettere al duce intese a ottenere la grazia dal confino che lo aveva relegato a Brancaleone Calabro (1935-36) e i taccuini segreti pubblicati da Lorenzo Mondo nel 1990.
Tuttavia, anche nel passato Pavese fu oggetto di giudizi critici negativi: nel 1954 arriva la stroncatura di Alberto Moravia che definisce Pavese un “decadente di provincia”: Moravia manifesta una vera e propria avversione nei confronti di Pavese e definisce il diario “Il mestiere di vivere” – pubblicato postumo, un “libro penoso” .
Nel testo di Moravia, Pavese diventa la caricatura di sé stesso, proprio nel paragone con D’Annunzio:
“Il caso di D’Annunzio è esemplare. Nella pagina di D’Annunzio il mito non c’è. D’Annunzio, allora, lo crea nella vita con le donne, il lusso, le imprese militari, le piume ecc.” Quindi mentre D’Annunzio aveva saputo vivere sfruttando propagandisticamente in modo scaltro la propria biografia, il povero Pavese «per ingenuità» non trova altra via, per assurgere a mito, che il suicidio.
Nel 1955, il critico Carlo Salinari, che dal 1951 al 1955 fu il responsabile della politica culturale del Pci, risponde a Moravia, “riconosce la complessità e l’interesse” dell’opera di Pavese e ne ammette la funzione culturale. Salinari scrisse infatti:
“Moravia scrive che «le idee di Pavese, tutto sommato, sono più importanti della sua opera.» Io direi con più esattezza che la funzione culturale della sua opera è stata maggiore della sua resa artistica, e ribadisce (come), che lo scrittore piemontese è «il punto di approdo del decadentismo italiano».
Alludiamo a quel processo di sprovincializzazione, di assorbimento cioè delle esperienze decadenti della letteratura europea (francese e russa prima, inglese e americana poi) che in Italia prese le mosse dagli scapigliati, proseguì con i futuristi e soprattutto con D’Annunzio, in modo chiassoso e un po’ pacchiano, si allineò dei tentativi interessanti ma spesso inconsapevoli dei crepuscolari e di Pascoli, si liberò di molte scorie provinciali con «La Voce» e «La Ronda» e poi con i poeti nuovi, ma bruciò fino in fondo le esperienze e i miti decadenti soltanto con Pavese. […] perché la sua vocazione critica gli permise di penetrare a fondo i miti e le suggestioni del decadentismo, d’innestarli senza sforzo nel nucleo originario della sua ispirazione, di organizzarli in un sistema chiaro, composto e razionale, e dall’alto di esso di tentare anche l’interpretazione nuova della tradizione e dei classici.”
Salinari, come tutto un filone della critica comunista-stalinista, tende a inglobare l’esistenzialismo in un prolungamento del decadentismo.
Moravia ne fa una lettura caricaturale “sfruttando” anche il nesso che viene istituito con la conversione dello scrittore piemontese al comunismo:
“[…] questo esasperato irrazionalismo e antistoricismo sono quanto di più diverso e di più ostile che ci possa essere al comunismo e all’arte come il comunismo l’intende. La conversione di Pavese al comunismo acquista così il carattere di una trasmutazione o di un tentativo di trasmutazione di una somma di valori negativi (decadentistici) in uno solo ritenuto positivo. È un’operazione non nuova nella cultura italiana: dal decadentismo trasmutato in patriottismo (D’Annunzio) si giunge al decadentismo trasmutato in comunismo (Pavese), ma i modi dell’operazione non cambiano.”
Nonostante i ripetuti accostamenti tra Gabriele d’Annunzio e Cesare Pavese a me pare che l’unico tratto comune che si possa stabilire sia una formazione culturale classica (Omero, Dante) che accomuna entrambi gli scrittori come Abele e Caino erano figli della stessa madre.
L’odio intellettuale di Moravia verso lo scrittore emerge e si manifesta anche nelle considerazioni sul mito(1):
“Niente illumina meglio il mito di Pavese che il suo rapporto con Melville. Melville, il mito l’aveva saputo creare nella pagina ed era morto nel suo letto. Il mito della balena bianca, come tutti i miti della letteratura, nasce da una grandiosa riflessione che ha le sue radici nel senso comune o se si preferisce nell’inconscio collettivo. La riflessione riguarda il Bene e il Male, l’Uomo e la Natura, la Ragione e l’Irrazionale e così via. Ricco di senso comune, in comunicazione diretta con l’inconscio collettivo, Melville, come tutti i grandi poeti, crea il mito senza saperlo e senza averne l’intenzione. Ciò che preme non è creare il mito ma dire certe cose, ossia fornire una sua interpretazione di una visione del mondo che non è sua, avendola ricevuta in eredità dalla società di cui fa parte. Oggi si direbbe che Melville era, ingenuamente e inconsciamente, un contenutista.”
L’atteggiamento di Moravia oscilla fra osservazioni acute e una fondamentale, complessiva mancanza di obiettività; di fatto pare accecato da invidia o antipatia intellettuale per l’autore della “Luna e i falò”.
Tuttavia, è evidente in Pavese una dicotomia: da una parte la volontà e lo sforzo sincero di partecipare alle speranze e agli entusiasmi dell’Italia uscita dalla guerra, iscrivendosi al Partito Comunista e frequentando – dagli anni giovanili – l’ambiente politico e culturale antifascista di Torino, (scuola, amici, amori) e dall’altra la natura introversa e un profondo sentire dello scrittore. Se alle problematiche esistenziali di Pavese si aggiunge che il settarismo (insopportabile) che ha sempre caratterizzato buona parte della sinistra italiana si è “arricchito” negli anni ’50 degli insegnamenti di Stalin per cui vigeva il principio “secondo cui il marxismo-leninismo è la base fondamentale per la comprensione e la rappresentazione del reale, e quindi gli scienziati, i letterati, gli artisti devono porsi essenzialmente il compito di comprenderlo e di applicarlo”; e pertanto della correttezza di una cultura socialista può giudicare soltanto l’organizzazione consapevole e cosciente del proletariato, cioè il partito.
È in questo contesto che giunge nel 1959 la stroncatura del capolavoro “Il Gattopardo”. Con questi intransigenti custodi dell’ortodossia del PCI si comprende perché Pavese, in un momento di sconforto, il 15 febbraio del 1950, nel diario “Il mestiere di vivere, scrivesse: « “P. non è un buon compagno”…. discorsi d’intrighi dappertutto. Losche mene, che sarebbero poi i discorsi di quelli che più ti stanno a cuore».
Pavese d’altra parte non aveva una sensibilità politica, o forse meglio, “il vizio della politica”; il 25 novembre 1945 a un’amica scrisse: “per «sentire» la politica devo fare uno sforzo”.
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Note
1) Alberto Moravia, Fu solo un decadente, «L’Espresso», 12 luglio 1970, p. 14.
Probabilmente il mito di Pavese va spiegato con l’incapacità dello scrittore di creare il mito nei suoi libri. Non vogliamo dire con questo che Pavese si è ucciso perché era consapevole di non essere riuscito a dire certe cose. Pavese aveva della propria opera e di se stesso un’opinione altissima, come si può vedere nel diario. Ma, strano a dirsi, è proprio questa idea esagerata di se stesso che in parte ne ha provocato la morte. Dopo aver avuto il premio Strega ed aver scritto La luna e i falò Pavese ha deciso ad un tratto che aveva ottenuto, in senso sociale e creativo, il massimo successo possibile e che di conseguenza non aveva più alcun motivo di vivere. Ha fatto un po’ come certe coppie di amanti che si ammazzano perché sono convinti che il loro amore è così perfetto da non poter essere coronato ormai che dalla morte. La verità, secondo noi, è invece diversa. Pavese non è riuscito a creare il mito nella pagina; e il suo suicidio va interpretato come un tentativo di crearlo nella vita. In questo modo si spiega non soltanto il suicidio ma anche la accurata fabbricazione e preparazione psicologica e culturale dell’atto disperato. E infatti l’operazione tristissima e orgogliosissima è riuscita. Il mito di Pavese, il mito dello scrittore che si è ucciso per motivi esistenziali sopravvivrà alla sua opera. Ma i motivi erano soltanto apparentemente esistenziali. In realtà erano letterari.
Niente illumina meglio il mito di Pavese che il suo rapporto con Melville. Melville, il mito l’aveva saputo creare nella pagina ed era morto nel suo letto. Il mito della balena bianca, come tutti i miti della letteratura, nasce da una grandiosa riflessione che ha le sue radici nel senso comune o se si preferisce nell’inconscio collettivo. La riflessione riguarda il Bene e il Male, l’Uomo e la Natura, la Ragione e l’Irrazionale e così via. Ricco di senso comune, in comunicazione diretta con l’inconscio collettivo, Melville, come tutti i grandi poeti, crea il mito senza saperlo e senza averne l’intenzione. Ciò che preme non è creare il mito ma dire certe cose, ossia fornire una sua interpretazione di una visione del mondo che non è sua, avendola ricevuta in eredità dalla società di cui fa parte. Oggi si direbbe che Melville era, ingenuamente e inconsciamente, un contenutista.
Saper criticamente cos’è un mito e decidere, per così dire, a freddo, cioè in base a una riflessione culturale, di fabbricarne uno, è invece il contrario del contenutismo ingenuo ed inconscio. È decadentismo formalistico. A suo tempo ho scritto un articolo: «Pavese decadente», che non è piaciuto agli ammiratori di Pavese; ma oggi l’idea del decadentismo di Pavese è ormai accettata. Cos’è uno scrittore decadente? È un letterato colto e raffinato ma egotista, sfornito di senso comune e senza rapporti con l’inconscio collettivo. Questo letterato ammira i grandi poeti creatori di miti e si domanda, con ingenuità: «Perché loro sì e io no? Oltre tutto io sono in una posizione di vantaggio. Io so cos’è il mito, loro non lo sapevano». Già, ma sapere, in questo caso, vuol dire non potere.
Tuttavia il decadente ha pur sempre una maniera di creare il mito: fuori della pagina, nella vita. Il caso di D’Annunzio è esemplare. Nella pagina di D’Annunzio il mito non c’è. D’Annunzio, allora, lo crea nella vita con le donne, il lusso, le imprese militari, le piume ecc. Abbiamo già detto che Pavese si è ucciso «anche» perché era convinto di essere ormai uno scrittore del tutto riuscito e concluso. In altri termini, Pavese si sarebbe ucciso per ingenuità, quella ingenuità che è indispensabile per creare il mito. L’ingenuità di Pavese avrebbe consistito nel darsi la morte «per la disperazione del successo».
A riprova si confronti il suicidio di Hemingway con quello di Pavese. Il suicidio di Hemingway desta un’immensa pietà; ma non si concreta in un mito perché l’opera di Hemingway è tanto più importante della sua vita e della sua morte. Non si parla oggi di Hemingway come di uno scrittore che si è ucciso; ma come di uno scrittore che ha scritto certi libri e poi, purtroppo, si è ucciso. Il mito di Pavese è invece quello dello scrittore che si uccide. Questo mito, in certo modo, nasconde l’opera di Pavese, confondendo le idee della critica e dei lettori. Per coloro che non hanno bisogno di opere ma di miti, Pavese è un autore ideale. Così alla fine bisogna pur dire che il capolavoro di Pavese è la sua morte, cioè un evento che pur verificandosi fuori della letteratura, «continua» la letteratura. Anche qui il decadentismo si conferma un’ultima volta, tragicamente.
Pavese editore – il lato oscuro della collana viola e la collaborazione con il risentito Ernesto con De Martino
Pavese diventa collaboratore, insieme a Massimo Mila, della casa editrice Einaudi nel 1933, era stata appena fondata da Giulio Einaudi e il direttore era l’amico di sempre di Pavese, Leone Ginzburg che venne arrestato l’anno successivo perché militava nel gruppo clandestino di antifascisti: “Giustizia e Libertà”. Pavese stesso viene arrestato nel 1935 e condannato al confino per tre anni nel paese calabro di Brancaleone. Al rientro, la Casa editrice Einaudi lo assunse come redattore nel 1938 per «L. 1.000 nette mensili»: Pavese si impegnava a tradurre almeno duemila pagine dall’inglese l’anno, rivedere le traduzioni inglesi altrui, occuparsi di pareri editoriali, lavoro redazionale e corrispondenza. In quegli anni la casa editrice attraversava, tra mille difficoltà, gli anni del fascismo e della guerra (nel 1943 venne commissariata dai fascisti).
La casa editrice, nonostante le difficoltà iniziali, amplificate dalla seconda guerra mondiale, diventò nel dopoguerra un punto di riferimento culturale per il mondo intellettuale italiano, in particolar modo per quella parte del paese antifascista e di sinistra. Dopo la Liberazione, morto Leone Ginzburg, torturato e ucciso in carcere dai nazisti, Pavese assume nel 1945 di fatto la direzione Editoriale dell’Einaudi, lavorerà nella sede di Roma e a periodi in quella di Torino.
Pavese si occupò di tutto, dalla apertura della sede a Roma, alla progettazione delle collane, al tenere i contatti con i collaboratori. Legge centinaia di testi: le lettere sono una testimonianza, inappuntabile e preziosa di questo lavoro, i giudizi sono sempre sinceri, a volte sferzanti, ma sempre di grande umanità e correttezza.
Questo lavoro sarà una ragione di vita per lo scrittore che con ironia scrisse “Lavoro come uno schiavo egizio”.
Nel 1945, le sedi della casa editrice erano tre: Roma, Torino e Milano. Questa lettera di Norberto Bobbio a Giulio Einaudi è esemplare e fotografa il lavoro della Einaudi nel 1945:
Torino, 8 luglio 1945
Caro Giulio,
stamane, domenica, Pavese ci ha convocati in sede per una delle solite riunioni festive dei senatori (si chiamano ancora così?). Alle undici Pavese dormiva ancora, sconciamente, su un sofà; l’abbiamo dovuto svegliare urlando. E lui ha detto che andava bene e di cominciare. La seduta non è stata vivace, ma appunto per questo più densa di gravi pensieri e di osservazioni fondamentali che non possiamo fare a meno di comunicarti.
Mi pare che ci stiamo lasciando tutti quanti tentare dalla seduzione dell’attualità. Ti ripeto una frase memorabile: le case editrici si misurano a decenni, non a mesi. Gli editori improvvisati che si buttano sugli argomenti del giorno sono destinati a morire in pochi anni di morte violenta. Noi dobbiamo continuare la nostra strada, tanto più che il libro attuale oggi, prima che arrivi dal libraio, tradotto, riveduto, stampato e diffuso, ci vuole per lo meno un anno e mezzo, e fra un anno e mezzo non sarà più attuale.
Tu sai che qui abbiamo un mucchio di lavoro arretrato da smaltire. Le tipografie assorbono lentamente i manoscritti pronti, e molti manoscritti non sono affatto pronti, perché hanno bisogno di revisione. Bisogna mettersi coraggiosamente e pazientemente a fare la revisione dei testi, perché se si fa in fretta si fa male, e vengon fuori traduzioni cattive e libri scorretti, come saranno, penso, il novanta per cento dei libri dei nuovi editori.
Ed è per questo che, se si dice: vogliamo abolire la sede di Torino, rispondiamo: dateci il tempo per fare il nostro lavoro. Possibilità di trovare collaboratori ci sono: ci vuole soltanto tempo.
Il problema, come ho già detto altre volte, non è quello di eliminare l’una o l’altra sede, ma di coordinare il lavoro, in modo che la pluralità non sia principio di confusione. Il modo di coordinare le direzioni è di distribuire i compiti e di lasciare a ciascuna una certa autonomia di proposte e di esecuzione, udito il parere delle altre. Propongo per Torino Milano e Roma, e non soltanto per gli affari di Einaudi, il sistema federalistico. Qui siamo federalisti. […]
Salutami gli amici romani. E tu fatti veder presto a Torino.
Cordialmente
Norberto Bobbio
Probabilmente in modo elegante e velato, Bobbio muove anche una critica al concetto di cultura e educazione popolare che proponeva Elio Vittorini responsabile della sede di Milano.
Proprio il lavoro nella casa editrice agevolerà Pavese nel conoscere i testi di etnologi e antropologi moderni, approfondirà lo studio delle tradizioni folkloristiche e popolari avvalendosi di numerose fonti (la Scienza nuova di Vico, le opere dei filosofi romantici, testi di psicoanalisi, antropologia ed etnologia, così come rimase affascinato dalle ricerche sull’inconscio collettivo elaborate da Carl Gustav Jung (1875-1961).
D’altra parte Pavese, che era stato da sempre un divoratore di libri della classicità da Omero a Leopardi, aveva individuato dai primi testi scritti, un sostrato mitico che condizionava le azioni dell’uomo, collegato ai luoghi e ai traumi dell’infanzia.
La cultura dell’italietta uscita dal fascismo era assai provinciale, Pavese conseguì la laurea con una tesi sul poeta americano Walt Whitman e si era dedicato anche negli anni del fascismo alla traduzione di Anderson, Faulkner, Fitzgerald e rimase incantato dal grande romanzo di Melville (tradotto nel 1932) Moby Dick, tradusse peraltro anche due albi dei fumetti di Topolino. Recuperare libri dall’America al tempo del fascismo era assai difficoltoso – non si trovavano nelle librerie italiane, Pavese riuscì a leggerli facendoli spedire per posta: decisivo fu a questo proposito l’aiuto offertogli dall’America, da Antonio Chiuminatto, un musicista di origine piemontese.
I classici, gli scrittori americani prima di Hemingway, gli etnologi e antropologi moderni, la psicanalisi di Jung erano i principali riferimenti culturali, fin dai primi romanzi, di Pavese come furono il suo interesse predominante in qualità di direttore editoriale.
Alla fine della guerra, Pavese, come numerosi intellettuali rosselliani, aveva aderito al partito comunista e collaborato con “L’Unità” e “Rinascita” con una serie di scritti , solo che gli interessi dello scrittore stridono con i dettati del partito e la conversione di Pavese segue sentieri tortuosi e irti di difficoltà, anche perchè la casa editrice Einaudi diventa di fatto la casa editrice di riferimento del Pci, a cui viene affidata nel 1948 la pubblicazione delle opere di Antonio Gramsci.
In un volume (Einaudi) sono stati pubblicati, a cura di Tommaso Munari, i resoconti delle riunioni di redazione della casa editrice negli anni 1943-52. Pavese in un felice ossimoro «concordia discorde» chiarisce il tratto distintivo e anche il senso delle riunioni editoriali.
L’Einaudi era nata come un’impresa artigianale, Giulio (nato nel 1912) frequentò a Torino il liceo-ginnasio Massimo d’Azeglio, allievo del professore di italiano Augusto Monti e venne a fare parte della famosa “confraternita” – composta da Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila, Vittorio Foa, Franco Antonicelli e altri – che era solita riunirsi con il professor Monti al caffè Rattazzi e nelle case dell’uno o dell’altro, per discutere di politica, filosofia e letteratura. Molti di loro costituirono il nerbo originario della casa editrice, quello che ne elaborava la politica editoriale. Fondamentali in tal senso, prima il ‘direttorio’ composto nel 1941 da Ginzburg, Pintor, Muscetta, Pavese e poi, dalla fine degli anni Quaranta, il consiglio editoriale ‘del mercoledì’, via via comprendente anche Felice Balbo e Mila, Franco Venturi e Bobbio, Vittorini e Italo Calvino, Antonio Giolitti e Natalia Ginzburg, Delio Cantimori, Ludovico Geymonat.
Nessuno, meglio di Pavese, seppe fare proprie le esigenze della casa editrice, il lavoro editoriale rappresentò per lui il mestiere in cui si applicò con rigore, consapevole della prospettiva di costruire un’identità einaudiana certamente articolata, problematica ma ben definita nelle sue linee di fondo. Pavese lavorò sempre per promuovere l’idea di cultura einaudiana, nelle famose riunioni del mercoledì «parlava poco»: preferiva svolgere gran parte del lavoro nell’ombra, tessendo una fitta ed efficiente rete di collaboratori per far funzionare la macchina editoriale.
Tuttavia i verbali testimoniano come la Einaudi sia cresciuta sul confronto tenace, sulla discussione anche aspra e apparentemente insanabile. Fotografano ad esempio il contrasto tra Pavese e Vittorini, che convinse Einaudi ad aprire una terza sede della casa editrice a Milano, con il proposito di pubblicare un «periodico di educazione popolare», un «giornale spregiudicato e vivo», che si tradurrà nel «Politecnico» settimanale e poi mensile, affidato alla direzione dello stesso Vittorini. Le divergenze erano già note grazie alle lettere, ma nei verbali si precisa come quando Pavese lamenta con sarcasmo una lacuna di comunicazione con la redazione di Milano: «Ma in generale osserviamo che parlate di testi a noi sconosciuti. Questo è bello ma scomodo. Se dobbiamo dare un parere dobbiamo informarci. In linea di massima ci fidiamo della vostra scelta. Comunque alla prima occasione vedremo i testi e saremo sempre in tempo a dire la nostra».
Ma soprattutto il rapporto con il Pci non manca di provocare motivi di tensione, le anime della Einaudi sono tante, Giulio Einaudi è accorto, non delega a nessun altro la gestione dei contatti con il Pci.
Anche gli intellettuali di casa Einaudi, legati più di Pavese all’ortodossia del Pci, manifestano in varie occasioni l’indipendenza dalle linee guida di partito:
Un «volume fatto da scrittori che, pur accettando il comunismo, fanno le loro obbiezioni», come suggerisce Vittorini nella seduta del 12-13 gennaio 1949 cadrà nel vuoto. Il partito «non deve prendere posizione, avallando la collana», avverte il «dissidente» Balbo, «la Casa deve svolgere la funzione di Casa editrice e non può fare biblioteche di partito». Lo stesso Calvino sconsiglia di «partire pensando di diffondere questa collezione nelle sezioni di partito; ma di tenere conto delle esigenze del pubblico in genere».
Nella casa editrice l’ala oltranzista e fedele all’ideologia del Pci è rappresentata da Giolitti, Donini e Muscetta. La traduzione di La Mèditerranéè il testo del grande storico francese Fernand Braudel verrà pubblicata con il parere negativo dei custodi dell’ortodossia del PCI. Le divergenze si acuiscono nel 1948, con l’uscita della collana etnografica, la famosa «Viola», il Pci era insofferente all’idea che la sua casa editrice di riferimento pubblicasse autori “di destra”. Nel dicembre del 1949, subito dopo l’uscita del volume pavesiano La bella estate, Muscetta invia al piemontese una stroncatura epistolare. «Ho dato un’occhiata al tuo nuovo volume. Scrivi troppo, e sempre di amorazzi. Lascia riposare un po’ la mano e proponiti nuovi contenuti degni del secolo!». La risposta di Pavese è gelida: «Ci sono dei secoli in cui gli amorazzi, ed essi soli, varcano il silenzio. Esempio il cantore di Laura che non cavò un ragno dal buco con l’Africa».
La collana Viola ha dato luogo a una prima “internazionalizzazione” della cultura del nostro Paese, affiancando titoli di studiosi italiani a quelli di studiosi stranieri: una serie di libri su temi che allora trovavano poca visibilità nelle librerie e poca attenzione accademica, testi sulla magia, storia delle religioni, opere etnografiche, saggi di Jung e lavori come Il ramo d’oro di Frazer. Il catalogo è saturo di nomi oggi celebri: James Frazer, Vladimir Propp, Leo Frobenius, Lucien Lévi-Bruhl, Karl Kerényi, Karl Gustav Jung e Mircea Eliade. Molti di loro sono autori che, oltre a essere talvolta direttamente compromessi con il fascismo, hanno reso nel mito il vero fondamento delle ideologie di destra.
Pavese viene accusato dai custodi dell’ortodossia comunista di raccattare «criminali di guerra» e neopagani (Eliade, Volhard, Hauer, Cogni).
«I libri di Mircea Eliade che traduciamo sono due… Essi sono stati scelti per il loro interesse e valore scientifico tra una folle di titoli che gli editori francesi di case etnografiche e religiose ci inviano. Non c’è passato per la mente di esaminare la fedina penale dell’Autore, in quanto non si tratta di opere di politica o di pubblicistica. Qualunque cosa faccia l’Eliade, come fuoriuscito non può ledere il valore scientifico della sua opera. Dovremmo smettere di pubblicare le opere scientifiche di Heisenberg perchè questi è un nazista? Ce ne ricorderemo, se mai, quando si trattasse di pubblicare le sue conferenze politiche».
Anche Kerényi è considerato scomodo. È un accerchiamento. Muscetta scrive a Einaudi chiedendo «se e quali libri fascisti o di fascisti sono in programma presso la Casa editrice».
Qualche incidente di percorso effettivamente si verifica. Cannibalismo di Volhard, per esempio: il libro esce «mal curato e introdotto da un “elogio” del sangue, nettare degli eroi e bevanda energetica per l’uomo qualunque», Muscetta perde le staffe: «Non si può lasciar correre libri sui cannibali tradotti da cannibali con prefazioni cannibalesche».
É curioso il fatto che gli intellettuali di casa Einaudi, che aderirono al PCI, nel tempo se ne allontanarono: Felice Balbo cattolico amico di Pavese, nel 1950 non rinnovò la tessera del PCI, Antonio Giolitti si dimise dal Partito comunista (era parlamentare) nel 1957 dopo l’invasione russa dell’Ungheria, la stessa sorte seguirono sempre nel 1957, l’intransigente Carlo Muscetta e Italo Calvino. Elio Vittorini lo aveva già abbandonato ai tempi della rivista il “Politecnico (1947).
La collana Viola è il frutto della collaborazione a senso unico alternato di Cesare Pavese e Ernesto De Martino.
Il primo vagito del progetto risale al 1942. De Martino scrive a Giulio Einaudi con tutto il suo ingombro di intellettuale spigoloso.
Spett. Casa editrice Einaudi, Torino
Vi scrivo in qualità di membro corrispondente della Società Italiana di Metapsichica per una concreta proposta di carattere editoriale. Mi permetto anzitutto di richiamare la vostra attenzione sul genere di ricerche scientifiche di cui si occupa tale Società, e a questo scopo trascrivo qui l’articolo I del suo Statuto: “La società italiana di metapsichica ha lo scopo di promuovere, con i metodi e col rigore usati per le altre branche della scienza, nonché con l’ausilio dei mezzi offerti dalla più recente tecnica sperimentale psicobiofisica, lo studio scientifico dei fenomeni psichici e psicofisici così detti paranormali, fenomeni che la Società stabilisce di chiamare ‘metapsichici’, esclusa qualsiasi finalità filosofica e religiosa”. Si tratta di un genere di studi che ha avuto largo sviluppo fuori dall’Italia, soprattutto in Inghilterra, in America, in Francia e in Germania […]. In Italia gli studi di metapsichica hanno una certa tradizione (basterà ricordare il nome di Morselli), ma solo recentemente essi hanno preso un indirizzo nettamente scientifico con la fondazione della sunnominata società. […]. La società italiana di Metapsichica mi autorizza a trattare con Voi per la eventuale pubblicazione di una collana di lavori di metapsichica…
De Martino è impaziente, vuole costruirsi un solido curriculum per spuntarla nei concorsi universitari, a Roma incontra Pavese, nella sede che l’Einaudi ha aperto in via Monteverdi. Hanno la stessa età, sono entrambi nati nel 1908 e di certo ci mettono poco a saggiarsi: Quanto agli studi etnografici, Pavese è un geniale dilettante («Ho studiato abbastanza l’argomento ma non ho ancora la competenza necessaria», scriverà al Comitato Einaudi), ma è un attento lettore di Giambattista Vico. «Qualcosa per accadere deve essere già accaduto», scrive sul diario ed è interessato alla ricerca sul mito del selvaggio e su tutto ciò che rimane primitivo (rifuggendo il pittoresco).
De Martino propone una nuova collana per la casa editrice, una serie di libri su temi che nell’Italia di allora erano presso che sconosciuti: testi sulla magia, opere etnografiche, saggi di Jung. Pavese è interessatissimo.
La guerra congela il progetto. Il 29 maggio del 1945 Pavese scrive. «Caro de Martino, siamo vivi e al lavoro. Vorrei sapere Sue notizie e notizie della Collezione etnografica che faremo». Da qui parte un fuoco incrociato di proposte: liste di autori e progetti. De Martino si muove da censore, e pone spesso questioni di metodo e organicità.
Inizia un epistolario tra i due e un rapporto che produrrà una serie di libri di valore. Le lettere tra i due si possono leggere ne La collana viola che Bollati Boringhieri riporta in una nuova edizione, con una dettagliata spiegazione di Pietro Angelini. Il curatore delle lettere parla di «barca a due timoni, uno a poppa e uno a prua», anche se de Martino è solo un consulente e la decisione ultima è sempre nelle mani di Pavese.
Il via libera alla nuova collana risale all’ottobre del 1947
A de Martino, Bari
Torino, 27 ottobre 1947
Caro De Martino […] Einaudi chiamerà la collezione Collana di studi religiosi, etnologici e psicologici, per poterci includere gente come Jung, magari Freud, e studi di religione non propriamente etnologici.
Con la lettera spedisce a De Martino una copia dei Dialoghi con Leucò («mi permetto di mandarti un mio libro che forse t’interesserà») solo che De Martino non si pronuncerà mai sul libro di Pavese.
Il primo libro della Collezione è un’opera di De Martino “Il mondo magico” a cui lo studioso ha lavorato fin dalla guerra, una storia del magismo, che diventerà un testo nodale per il pensiero contemporaneo. Il libro arriva in redazione ma ci mette quasi un anno a uscire (1948), De Martino reclama con Pavese, che in risposta gli scrive: “L’illeggibilità delle prime bozze dipendeva in parte dalla perfidia del tuo manoscritto”. É uno dei primi contrasti tra i due. Ma appena il libro esce, de Martino sparisce per oltre sei mesi. Ricompare a un certo punto, come se niente fosse e il motivo del distacco resta un mistero. Ma quando le cose sembrano andar meglio, arriva una crisi che minerà completamente il rapporto tra i due intellettuali.
De Martino vorrebbe che ogni volume fosse accompagnato da «un’introduzione orientatrice che, segnalando i pericoli, operi nel nostro ambiente culturale come una sorta di vaccino definitivo»:
Bisognava far precedere ogni opera da una introduzione che la ambientasse nel clima culturale italiano e guidasse il lettore sprovveduto a leggere criticamente l’opera presentata. Altrimenti, a mio avviso, si corre un rischio: di favorire mode e infatuamenti pericolosi, e di provvedere non già all’allargamento dell’orizzonte umanistico ma al costruirsi di nuovi dilettantismi. […] I Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia di JungKerényi hanno visto la luce senza due righe di presentazione (e di una presentazione avevano molto bisogno), e così pure Jung L’io e l’inconscio (di cui forse andava meglio valutata la opportunità della traduzione).
De Martino teme gli «infatuamenti pericolosi» e ricorda a Pavese che qualcuno – qualcuno del Partito – l’ha definita la “Collana nera”. La risposta di Pavese è perentoria:
«La presentazione unitaria \[…\] è pressoché impossibile. \[…\] Tieni presente che le esigenze – ambientare i testi nel milieu idealistico italiano e accordarli con le velleità marxiste dei nostri consulenti ideologici – sono di per sé quasi contraddittorie. Sovente, disperato, io concludo che è meglio darli nudi e crudi e lasciare che i litigi avvengano sulle riviste».
In numerose lettere De Martino palesa la frustrazione per le mancate introduzioni:
“Almeno le opere etnologiche potete farle presentare da me, che diamine! ma vedo che mi debbo rassegnare…” (23 ottobre 1948)
I ritardi di De Martino nelle traduzioni e introduzioni sono scusabili, dopo una lettera del 26 dicembre 1948, che informa Pavese dei problemi di salute del professore («sono in un ospedale per lesione polmonare»).
In questa occasione, d’altra parte, lo scambio epistolare si infittisce e si fa più amichevole nei toni. Pavese spedisce ora presso l’Ospedale S. Camillo, «Padiglione Bassi, Letto N° 32, Monteverde, Roma».
Il tono confidenziale sbiadisce quando sopravvengono nuovi attriti, nel novembre del 1949. La causa scatenante è la decisione se optare per un’introduzione al Frobenius o meno. Per Pavese «è più utile una precisa nota filologica che non dieci pagine di “mani avanti” e di proteste antifasciste».
De Martino non è d’accordo e deve tornare a ribadire il vecchio punto.
“Mi sembra di ravvisare in queste parole una condanna o almeno una certa ironia per ciò che costituisce una mia ferma convinzione: essere cioè soprattutto necessario non tanto o non soltanto una presentazione pilatesca dei volumi della collana viola, o una semplice delucidazione filologica, ma piuttosto una introduzione impegnativa che vaccini dai pericoli e inquadri l’opera nel nostro ambiente culturale. Se non siamo d’accordo su questo punto, la mia collaborazione è inutile. Non fai cenno nè alla mia introduzione su Malinowski, nè alle mie proposte relative alla sistemazione economica delle mie prestazioni (proposte consegnate a Einaudi). Ho motivo di non essere soddisfatto del trattamento che mi fate. Che cosa si è deciso’ sono sempre in attesa che liquidiate il vostro debito. Non ti nascondo che comincio ad essere impaziente. (11 novembre 1949)
Pavese si sente ferito dalla durezza di De Martino, l’Amministrazione dell’Einaudi in data dell’11 novembre affida a De Martino la condirezione con Pavese della collana viola:
“..con riferimento al colloquio da Lei avuto a Roma con il dottor Einaudi, e allo scambio di corrispondenza tra Lei e il prof. Pavese, le confermiamo quanto segue: le viene affidata la condirezione con il prof. Pavese della collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici….d’accordo con il Prof. Pavese Ella si assumerà l’incarico di rivedere i testi di alcune opere, di prepararle per la tipografia e di rivederne nel caso le bozze. Per ogni lavoro le sarà corrisposto un compenso adeguato. D’accordo con il prof. Pavese Ella si assumerà l’incarico di stendere una prefazione adeguata che verrà compensata, a seconda dell’impegno che essa richiederà, da un minimo di L. 10.000 a un massimo di L. 15.000.”
De Martino risponde il 18 novembre 1949:
“Non credo che giovi alla progettata condirezione impostare i nostri rapporti su un eccessivo sfoggio di durezza e di sfoghi di malumore. Nessuno ha mai pensato di ridurre la tua funzione a quella di un semplice correttore di bozze, tuttavia non ti sarà difficile riconoscere che chi è dentro una certa specialità culturale- come sono io – è in condizione di valutare certe scelte meglio di chi si è volto ad essa in parte per affetto letterario e in parte per necessità editoriale. In secondo luogo spiace sentire parlare da te di prefazioni di “due pagine” quando ti consta che quelle a Jensen e a Malinowski, ne contano una decina. Oppure intendi contestare l’opportunità della lunghezza e dell’orientamento delle mie prefazioni, il tuo accenno alla “noticina bibliografica” da preferire alle dieci pagine di “mani avanti” me lo farebbe pensare. In questo caso si aprirebbe un dissidio su una questione di fondo….
Ho ricevuto dall’Amministrazione uno schema di contratto. Mi riserbo di accettare dopo che tu avrai cancellato, con la tua prossima lettera la cattiva impressione che mi hanno lasciato le due precedenti.”
Tale divergenza non si appianerà più. Questa pagina di Luisa Mangoni nella prefazione de “I verbali del mercoledì” è rappresentativa dell’accerchiamento a Pavese:
Muscetta…sembrava farsi interprete di riserve anche di De Martino: «Ho visto Ernesto De Martino che mi ha fatto, anche a nome di Pettazzoni e di altri, severe critiche alla “collana viola”. E infatti caro Einaudi, è un vero scandalo che noi continuiamo a valerci del signor Cogni che è una nullità intellettuale e un famoso razzista fascista. E’ necessario quindi che della collana viola si parli in una riunione editoriale e magari si inviti il de Martino».
La questione tuttavia non riguardava ormai soltanto le umorali reazioni di Muscetta – ma veniva affrontata in un intervento pacato, come suo costume, ma non meno esplicito da Giolitti. Giolitti spostava l’ottica: non si trattava tanto degli errori commessi dalla casa editrice, peraltro puntualmente elencati, ma del fatto che, a causa di essi, era la casa editrice stessa a perdere la sua capacità di influire sulla politica culturale del PCI. Gli errori, reali a suo giudizio, impedivano perciò di dar pieno valore e peso a quei «fatti culturali seri» che la Einaudi era una delle poche istanze capaci di produrre. Peggio, gli errori offrivano il destro ad attaccare proprio quei fatti da parte di coloro, e non ne mancavano nel PCI che non intendevano dar vita a «una linea culturale più efficiente e coerente>>Giolitti avanzava anche una proposta operativa: «ogni libro senza eccezione, prima di andare in tipografia dev’essere portato – completo di prefazione, note, ecc. – alla riunione del mercoledì per l’imprimatur definitivo. Ma un controllo ci vuole.»
Vale la pena di sottolineare come la lettera con cui De Martino riepilogava la sua posizione riflettesse assai da vicino, quasi come se ne avessero discusso tra loro, il ragionamento di Giolitti: non vi era dubbio che la materia della collezione viola costituisse «un terreno assai fertile per la germinazione di motivi razzistici, esoterici, decadenti, torbidamente romantici, e nel complesso reazionari…».
La lettera di Giolitti apre una discussione nella redazione dell’Einaudi (Felice Balbo, Giulio Einaudi), di fatto non ci saranno controlli, semplicemente le riunioni del mercoledì diventeranno più assidue; è curioso che l’unico che pare preoccuparsi della sostenibilità economica sia Balbo che risponde a Giolitti:
“Ti riconfermo naturalmente il mio pieno accordo sulla sostanza… ora però credo che sarebbe abbastanza importante che ci parlassimo a voce qui a Torino, innanzitutto per poter fare insieme a te un po’ di programma ideologico sui libri futuri. Così da non dover correre ai ripari quando alcune cose siano già irreparabili, o quando comunque riparare significa sprecare soldi della casa editrice.”
Il 31 agosto, a quattro giorni dopo il suicidio dello scrittore, De Martino invia alla Einaudi una lettera infelice e in cui traspaiono un rancore e una invidia ingiustificata verso Pavese:
Caro Einaudi,
dopo la sciagura del povero Pavese vorrei sapere quale sarà per essere, nel tuo pensiero, il destino della collana. Pavese le aveva impresso un indirizzo che non era del tutto di mio gradimento, poiché ad ispirare tale indirizzo reagiva la sua troppo immediata simpatia per certe forme di irrazionalismo, scientificamente errate e politicamente sospette, che attraverso l’idoleggiamento del mondo primitivo, del sacro, del mito, etc., avevano tenuto a battesimo alcuni aspetti dell’involuzione culturale (e politica) della borghesia agonizzante. Pavese non era soltanto un narratore di favole, ma anche un inquieto cercatore di una visione del mondo, e a me è sembrato che ne stesse per scegliere una che equivaleva già a un commiato e a una morte. […] La morte di Pavese non è un fatto privato, e non è certo un “pettegolezzo” questo mio insistere sul caso Pavese come un fatto pubblico. Ed io penso che mancheremmo Cesare Pavese: la mitopoiesi, l’infanzia, e il primitivo della necessaria pietà non solo verso lui morto, ma anche verso noi vivi, se applicassimo qui un tacere che equivarrebbe a un colpevole lasciar correre. La materia della collana è estremamente pericolosa, perché in essa si riflette, con particolare evidenza, la crisi della cultura borghese, le sue contraddizioni e le sue ultime alcinesche seduzioni.
Pavese ha dunque impresso alla collana una direzione che De Martino non condivide.
Lo scrittore, dilettante di metapsichica, ha forse subìto il fascino di quelle “seduzioni alcinesche” e “virulente”, che sarebbero state neutralizzabili a forza di prefazioni e cautele (per Pavese, solo noiose “mani avanti”). Il “vaccino” non difese lo scrittore dall’idolatria del primitivo, del sacro e del mito. Di qui si può capire come mai De Martino non si espresse mai sui Dialoghi con Leucò, che forse gli parvero il frutto dell’inquietante visione del mondo pavesiana, con cui lo scrittore delle Langhe
scelse il commiato e la morte.
A questa lettera Giulio Einaudi non rispose, qualche mese dopo De Martino si rivolse alla casa editrice Einaudi chiedendo le intenzioni che aveva sulla collana viola. A questa lettera che poneva domande di carattere operativo, rispose proprio Einaudi che precisò di non aver risposto alla precedente missiva perchè: «la lettera, pervenutami all’indomani dei funerali di Pavese, mi poneva domande alle quali in quei giorni non potevo né mi sentivo di rispondere, e in un tono perentorio che mi è francamente spiaciuto»
La Collana viola venne spacchettata nelle Edizioni Scientifiche Einaudi, e poi ceduta alla Boringhieri nel 1957. De Martino cominciò a pubblicare con il Saggiatore, anche se rimarrà consulente sottotraccia di Giulio Einaudi.
Passano gli anni e dopo aver letto l’opera completa dello scrittore piemontese, Ernesto de Martino dedicò a Pavese una poesia, un pentimento:
L’etnologo e il poeta
Povero Cesare
la mia amicizia
gli fiorì dopo morto
modesta viola sulla tomba.
Così
restò a me
il gusto amaro
di una pietà troppo tarda
ed il rimorso
di una disattenzione impietosa
finché
povero Cesare
fu nel bisogno.
(Cesare Pavese: la mitopoiesi, l’infanzia, e il primitivo. Marta Mariani Università di Pisa p. 102)
Il Pavese del fare rispetto a quello più ricordato del gesto finale, è evocato da Italo Calvino in una commemorazione del 1960:
“Troppo si parla di un Pavese alla luce del suo gesto estremo e troppo poco alla luce della battaglia vinta giorno per giorno sulla propria spinta autodistruttiva….Per noi che lo conoscemmo negli ultimi cinque anni della sua vita, Pavese resta l’uomo dell’esatta operosità nello studio, nel lavoro creativo, nel lavoro dell’azienda editoriale, l’uomo per cui ogni gesto, ogni ora aveva una sua funzione e un suo frutto, l’uomo la cui laconicità e insocievolezza erano difesa del suo fare e del suo essere, il cui nervosismo era quello di chi è tutto preso da una febbre attiva, i cui ozi e spassi parsimoniosi ma assaporati con sapienza erano quelli di chi ha lavorato duro.”
Italo Calvino, insieme a Lorenzo Mondo, ha curato nel 1966 la prima pubblicazione delle lettere di Pavese e in quella edizione la maggior parte della corrispondenza con De Martino venne epurata. Di certo Calvino aveva nei confronti di Pavese un rapporto di gratitudine e di profondo affetto, Calvino era più giovane di quindici anni, collaborava con l’Einaudi che nel 1947 aveva pubblicato il suo libro “I sentieri dei nidi di ragno” (C. aveva ventiquattro anni) e nel 1950 venne assunto dalla Casa Editrice. Calvino è stato accusato da Lorenzo Mondo anche di aver censurato e obliterato gli appunti di Pavese, poi pubblicati con il titolo Il Taccuino segreto. Può essere che Calvino abbia fatto il censore per occultare gli aspetti oscuri di Pavese e la sua ambiguità politica. Tuttavia potrebbe anche essere che non abbia dato importanza alle lettere di De Martino, dal tono risentito e traspare ancora oggi che lo studioso partenopeo era animato da spirito di rivalsa: si sentiva sottovalutato o ignorato dal mondo accademico e dal partito comunista.
Il Taccuino segreto di Cesare Pavese (1908-1950), l’ultimo di settant’anni di pettegolezzi
Calvino potrebbe pure non aver dato importanza al “Taccuino”, ai ventinove foglietti scritti a matita durante la guerra, mezze frasi di elucubrazioni con se stesso, del genere:
«Una cosa fa rabbia. Gli antifascisti sanno tutto, superano tutto, ma quando discutono litigano soltanto». O in altra pagina: «Stupido come un antifascista», o ancora «Tutte queste storie sulle atrocità naziste che spaventano i borghesi che cosa sono di diverso dalle storie sulla rivoluzione francese, che pure ebbe la ragione sua?»
A settant’anni dalla morte dello scrittore piemontese, arriva in libreria il controverso inedito “Taccuino segreto” tenuto durante la guerra. Si tratta di appunti risalenti al biennio 1942-1943 e individuati per la prima volta all’inizio degli anni Sessanta da Lorenzo Mondo, che nell’estate del 1990 ne curò la pubblicazione sul quotidiano ”La Stampa”. La pubblicazione nel 1990 aveva provocato varie polemiche, Giancarlo Pajetta arrivò a scrivere “sono rimasto stravolto. E oggi considero Pavese un disertore”.
Amici e intellettuali che con Pavese avevano condiviso l’avventura della casa editrice Einaudi, misero addirittura in dubbio l’autenticità degli appunti.
Il taccuino segreto in realtà è un bloc- notes di piccole dimensioni (cm 12 x 15), composto di ventinove foglietti scritti a matita, che in alcune pagine contiene nomi di allievi e orari settimanali per dare ripetizioni di italiano e latino. Gli appunti sono stati trovati da Lorenzo Mondo nel 1962, il quale aveva da poco scritto la tesi di laurea su Cesare Pavese e pubblicato un libro sullo scrittore e in quello stesso periodo aveva avuto il consenso dalla sorella Maria Pavese in Sini, di rovistare in uno scatolone dove erano posati numerosi manoscritti inediti. Questi scritti consentirono a Lorenzo Mondo di scrivere insieme a Italo Calvino un libro sulle lettere di Pavese, che gli procurò un certo successo di pubblico e professionale.
Possiamo leggere dalla penna dello stesso Mondo la “ricostruzione” del taccuino segreto:
“Tornai altre volte da Maria Sini per recuperare materiali estravaganti, non contenuti nel famoso scatolone. E fu durante una di queste visite che, tra le altre carte racimolate dalla signora, mi cadde l’occhio su un taccuino di carta quadrettata, mancante di foglietti iniziali. Una rapida scorsa tra le righe, tracciate per lo più a matita, mi lasciò esterrefatto e turbato. Non ne feci cenno a Maria Sini e mi accommiatai dalla sua casa riservando il geloso segreto a Italo Calvino. Si tratta delle note che qui pubblichiamo e che tanta eco e animate discussioni, avrebbero provocato. Rivedo ancora il volto di Calvino mentre sfogliava il manoscritto che gli avevo appena consegnato; pallido come di consueto ma come indurito nei lineamenti. Sollevò il capo, disse di non saperne niente, si limitò a chiedermi che cosa volessi farne. Risposi che al momento non mi pareva opportuno renderlo noto. Ma decidesse lui. Lo affidavo intanto alle sue mani perchè lo mettesse al sicuro e, quando avesse pensato di pubblicarlo, si ricordasse di me. Acconsentì, mi suggerì appena di farne una copia, che magari mi sarebbe servita per l’eventuale prosecuzione dei miei studi. Il mio atteggiamento era dovuto a varie motivazioni. Intendevo affidarmi al suo discernimento, mettermi sotto la sua autorevole tutela, ma volevo innanzitutto sottrarre il mio amato Pavese a volgari e faziose speculazioni, ad un temuto linciaggio ideologico.
C’era inoltre la preoccupazione di non ferire la sorella Maria, già afflitta dalle ricorrenti evocazioni degli amori sfortunati, del tragico destino di Cesare. Poi, conclusa la vicenda dell’epistolario persi di vista Calvino, che lasciò Torino per Parigi e Roma, non ebbi più modo di sentirlo, nè sul taccuino che aveva evidentemente rimosso, nè su altri argomenti”
Quindi gli originali sarebbero stati presi in consegna da Italo Calvino e ormai irreperibili, ma Lorenzo Mondo avrebbe conservato le fotocopie che hanno consentito quest’anno la pubblicazione de Il taccuino segreto, solo adesso edito in volume dalla sofisticata casa editrice Aragno a cura di Francesca Belviso. Volume che è passato inosservato completamente da tutti i giornali, indifferenti alle polemiche suscitate nel passato.
«Quanto sono stato ingenuo!»
Il libro gode dell’introduzione di un illustre intellettuale torinese Angelo D’Orsi, che si può liquidare con: “l’ultimo inutile pettegolezzo su Cesare Pavese”. E’ bene ricordare l’ultimo messaggio di Pavese.
La notte tra sabato 26 e domenica 27 agosto del 1950, Cesare Pavese si chiude nella camera 43 dell’Hotel Roma in Piazza Carlo Felice a Torino e ingerisce, sciolte nell’acqua, “venti bustine di sonnifero” Pavese scrive le sue ultime parole: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va Bene? Non fate troppi pettegolezzi”
Di fatto Angelo D’ Orsi (immigrato da bambino a Torino), come quegli attori che hanno faticato ad approdare al palcoscenico, conquista la sua notorietà, svilendo la vita di Cesare Pavese e mettendone in evidenza le contraddizioni e la viltà come aveva già fatto in passato con Norberto Bobbio e Massimo Mila e altri intellettuali, tutti provenienti dal liceo Massimo D’Azeglio dove insegnava il loro mentore Augusto Monti. D’Orsi non coglie, tra l’altro, il fatto che questi intellettuali provenivano dalla borghesia torinese, mentre Pavese proveniva da una famiglia della piccola borghesia delle Langhe (Santo Stefano Belbo), trasferitasi a Torino (il padre era morto in giovane età lasciando la moglie di severi costumi e due bambini). Lo scrittore quindi resterà sempre un langarolo emigrato in città.
Si trattava di un gruppo di intellettuali cresciuti all’ombra del fascismo, che con le loro viltà, passioni, gelosie, ambizioni, eroismi, hanno rappresentato l’Italia migliore in quel lungo periodo di dittatura. E’ come se D’Orsi svilendo loro, di conseguenza, facesse emergere per contrasto la sua figura “di super uomo” di sinistra, che non accusa apertamente ma elegantemente si erge a giudice: insinuare il dubbio di una ambiguità fascista dello scrittore è ingiusto. Pavese, infatti, non ha mai avuto amici e frequentazioni fasciste, durante il fascismo non ha mai insegnato e il suo complesso codice etico emerge chiaramente in migliaia di pagine scritte. Scuola, amici, amori, lo collocano nell’ambiente politico e culturale antifascista di Torino, ben lontano dalla “caricatura” che ne fa il D’Orsi.
La dimostrazione di una retorica fasulla e non vera utilizzata da D’Orsi, sta nel fatto che criticasse la fuga di Pavese, reo a suo avviso di non avere partecipato alla Resistenza. I partigiani infatti, erano nella maggior parte giovani, nati tra il 1921 ed il 1927. Molti erano renitenti alla leva ed i bandi di arruolamento della Repubblica sociale di Salò coinvolsero i nati dal 1916 al 1926.
Questi giovani si erano nascosti per non combattere una guerra già di fatto perduta nel 1943 e nella lenta liberazione dai nazifascisti da parte delle forze alleate all’America, si erano organizzati in formazioni partigiane, di cui molte lievitate all’ultimo minuto (molti fascisti all’ultimo divennero partigiani).
Pavese era nato nel 1908 e i partigiani di età superiore ai 35 anni erano meno del 15% e provenivano quasi tutti dall’esercito. I laureati poi non arrivavano al 2%. Beppe Fenoglio partigiano e scrittore era nato ad Alba il 1 marzo 1922 (14 anni dopo Pavese) e si arruolò come ufficiale nell’esercito italiano nel 1943. Insomma, ve lo vedete Pavese con il fucile?
I partigiani attivi erano pochissimi e la maggior parte degli antifascisti se ne stavano nascosti, in attesa che finisse la guerra.
Non penso che il ritrovamento di questi taccuini possa far cambiare il giudizio su Cesare Pavese, che ha scritto le pagine più umane, commoventi e di una lucidità accecante, sulla guerra civile nel libro “La casa in collina” (1947):
“… ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, vuoi dire che anche vinto il nemico è qualcuno. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.”
Anche l’accusa di decadentismo è antica e ricorrente: il primo a muovere questo rimprovero è stato Augusto Monti, limitatamente ai racconti Il diavolo sulla collina e Tre donne sole.
Dopo la morte di Pavese, nel 1954, arriva la stroncatura dell’invidioso Alberto Moravia che lo definisce un “decadente di provincia”. L’anno seguente il critico Carlo Salinari ribadisce che lo scrittore piemontese è «il punto di approdo del decadentismo italiano».
Non mancarono poi le tensioni tra lo scrittore e gli intransigenti custodi dell’ortodossia del PCI: Pavese si iscrisse al Partito Comunista con convinzione e a mio parere fece uno sforzo sincero (vista la sua natura introversa) nel tentativo di partecipare alle speranze e agli entusiasmi dell’Italia uscita dalla guerra, ma il 15 febbraio del 1950 nel diario “Il mestiere di vivere” scrisse: « “P. non è un buon compagno”…. discorsi d’intrighi dappertutto. Losche mene, che sarebbero poi i discorsi di quelli che più ti stanno a cuore».
La polemica più conosciuta riguarda la pubblicazione di saggi nella collana Viola della casa editrice Einaudi, una delle iniziative più “scandalose” della casa editrice perché i nomi proposti appartenevano a una cultura bollata nel dopoguerra come “irrazionale” e considerata sinonimo di fascismo.
Altro motivo di contrasto traspare il 17 gennaio del 1949, in risposta a una recensione lusinghiera del critico Emilio Cecchi alla pubblicazione di “Prima che il gallo canti”. Pavese con sincerità si sfoga sui “fermenti politici” con cui era stato accolto il libro:
”Un’ultima cosa. L’inevitabile piano politico su cui la discussione del mio libro sta precipitando, mi fa rivelare la sua discrezione. Vorrei che tutti avessero la sua mano, e non vedermi adoperato per dimostrare che ormai tra fascisti e patrioti c’è parità morale. Quest’è un po’ forte. Ma la perenne, quotidiana scoperta che si fa qui in Italia è «Quanto sono stato ingenuo!»”
Insomma il testo di Angelo d’Orsi non aggiunge nulla di nuovo, casomai il punto di vista piuttosto ignobile di spiare Pavese dal buco della serratura, utilizzando i ventinove pizzini del bloc-notes, scritti chissà quando e chissà come, magari in un momento di stizza o di sconforto. Ma anche se prendiamo in esame le frasi che suscitano più scalpore: «Una cosa fa rabbia. Gli antifascisti sanno tutto, superano tutto, ma quando discutono litigano soltanto». O in altra pagina: «Stupido come un antifascista». Non mi paiono così scabrose.
Il paragone poi tra il nazismo e la Rivoluzione francese è così scandaloso?
“Tutte queste storie sulle atrocità naziste che spaventano i borghesi, che cosa sono di diverso dalle storie sulla rivoluzione francese, che pure ebbe la ragione sua?”
Insomma tagliare le teste con la ghigliottina non è stato come partecipare a un pranzo di gala. Entrambi i casi si possono classificare come esempi di terrore di Stato.
Racconta sempre Mondo su La Stampa del 1990:
“Dopo l’impresa dell’epistolario (ne uscirono due volumi con lettere dal 1924 al 1950) vidi solo fuggevolmente Calvino che poi si trasferì a Roma e quelle poche volte, nessuno di noi toccò l’argomento. Avevo del resto una mia idea: pensavo di scrivere una vita di Pavese nella quale avrebbe trovato il giusto posto, contestualizzato, il capitolo sconosciuto della biografia pavesiana”, ma “il lavoro giornalistico sempre più intenso”, proseguiva, “la sopravvenuta disaffezione per l’argomento, la pigrizia, mi fece accantonare il progetto e dimenticare le carte. Ne accennai appena, negli anni, a qualche amico. Chissà dov’era mai finito l’originale. Dimenticato o perduto nelle vicissitudini della casa editrice, nel viavai di laureandi che si sono chinati sui fogli pavesiani? A ogni importante occasione (anniversario o congresso pavesiano) temevo di veder spuntare l’oggetto misterioso, ero quasi rassegnato a vedermi spossessato del mio piccolo segreto. Anche perché non riuscii più a rintracciare per parecchio tempo le mie fotocopie. Poi, dopo la morte di Calvino, mettendo ordine dopo un trasloco, le vidi riaffiorare”.
E i taccuini vennero pubblicati su “La stampa”
A parte qualche dettaglio, i due resoconti di Mondo (nel 1990 su “La Stampa” e nel 2020 nella prefazione del “Taccuino segreto) sono simili. Probabilmente sono anche una verità – nel 1990 venne sollevato più di un sospetto sulla loro autenticità: gli originali sono scomparsi e nessuno dei protagonisti può smentire Mondo, perchè sia la sorella di Pavese che Italo Calvino sono morti da alcuni anni, ma la calligrafia e anche lo stile appartengono a Pavese. Dando per certo che gli appunti siano autentici, sorge tuttavia spontanea la domanda: che cosa avrebbe dovuto farne Calvino?
Di fatto questi appunti non aggiungono nulla rispetto all’opera di Pavese e niente rispetto alla sua vita e al suo pensiero. Al contrario, caricare di suspense il ritrovamento e la obliterazione da parte di Calvino degli appunti, getta le basi per fare del taccuino un caso letterario e politico.
Anche il rispetto ostentato verso la famiglia di Pavese è ambiguo e peloso, perchè Mondo ha portato via il bloc-notes dalla casa di Maria Sini senza dirlo e poi più volte ha scritto:
“Al di là delle probabili e legittime opposizioni della famiglia, c’era da esporsi alle accuse e al rischio di speculazioni volgari. Non lo meritava la famiglia, non lo meritava Pavese”.
Se non che anni dopo pubblica gli appunti caricandoli di significato oltre misura.
Nella prima prefazione Angelo d’Orsi mi è parso la caricatura dei migranti di seconda generazione, invidioso della borghesia torinese, nella seconda, Lorenzo Mondo pareva la caricatura del piemontese “falso e cortese”.
Lorenzo Mondo ha pubblicato numerosi libri, in cui si è occupato specialmente di Pavese, a partire dalla monografia «Cesare Pavese» (1961), fino ad arrivare a «Quell’antico ragazzo. Vita di Cesare Pavese» (2006) e a numerosi romanzi e saggi di critica letteraria senza molto successo, a parte nel 1966 insieme a Italo Calvino, l’epistolario di Pavese «Lettere 1924-1950». Diventerà poi un giornalista di successo, responsabile della pagina culturale de “La Stampa” e vicedirettore dello stesso quotidiano. Ecco, nella vita professionale di Mondo credo si possa individuare la chiave di lettura del Taccuino segreto, la sua speranza non necessariamente consapevole, che con la pubblicazione di quell’inedito di Pavese, avrebbe rilanciato la sua figura nella letteratura italiana. Occorre peraltro ricordare che si deve a Lorenzo Mondo la scoperta nelle carte di Beppe Fenoglio di due inediti: “Appunti partigiani ’44-’45” e il testo del romanzo “Una questione privata”.
La terza prefazione dal titolo “ritratto in chiaroscuro” è decisamente la parte più interessante del libro, frutto di un lavoro meticoloso, di dotte citazioni, di spunti felici, tuttavia il risultato finale pare modesto. Francesca Belviso ricorda che Pavese era un lettore onnivoro, dalla letteratura alla filosofia, dalla antropologia all’etnologia, dalla filologia arcaica alle religioni comparate, i suoi interessi di lettore e traduttore furono quanto mai estesi e variegati. Come Pavese (all’età di diciotto anni) scrive in una lettera a Augusto Monti: ”..se lo debbo dire, io penso che a dischiudermi la vita sono stati in gran parte i libri . Non le grammatiche o i vocabolari ma tutte le opere in cui vive qualche sentimento..”. Per la Belviso è come se tutte queste letture (in un breve lasso di tempo, vista la prematura morte dello scrittore), avessero condizionato il modo di scrivere e di pensare di Cesare Pavese. Francesca Belviso fa riferimento ai libri posseduti da Pavese e, rifacendosi all’epistolario con Monti e alle accuse di decadentismo mosse da quest’ultimo nei confronti di Pavese, conclude facendo riferimento all’influenza di Nietzsche sul pensiero pavesiano frutto di un confronto tra i “29 foglietti del bloc notes (appunti ritrovati postumi in un vecchio scatolone) “e “Il mestiere di vivere” (opera perfettamente compiuta di Cesare Pavese). Personalmente ho letto più volte (e in varie età) il ”mestiere di vivere” di Pavese ed è stato per me come un farmaco salva vita , in quanto nei suoi drammi ho trovato consolazione. Non ho mai osato scrivere su questo testo, perchè quel che ricordo sono gli amori infelici, le crisi esistenziali, l’introspezione di sè. Una buona parte del libro si riferisce a riflessioni sugli scritti che leggeva ( che spaziano da Omero a scrittori americani come Melville, al russo Dostojevskij a Victor Hugo, solo per citarne qualcuno) che in buona parte gli arrivavano per posta, in quanto nel periodo del fascismo non si poteva accedere a scritti stranieri, tant’ è vero che Pavese si vantava con le ragazze di aver portato la letteratura americana Italia, avendo tradotto Moby Dick di Melville e altri testi.
Per chiarire le difficoltà di reperire testi in lingua straniera al tempo dell’autarchia, al tempo del fascismo, ripropongo uno stralcio della prima delle numerose lettere scritte da Pavese a Antonio Chiuminatto, un musicista americano di origine piemontese, nel tentativo riuscito di farsi spedire libri e riviste letterarie pubblicate negli Stati Uniti:
Penso che Lei ricordi con quanta passione l’anno scorso io ammirassi e studiassi le cose d’America, e questa passione è andata crescendo. Lei sa pure che qui in Italia è quasi impossibile trovare qualsiasi cosa d’americano si cerchi […] Sono a malapena riuscito a trovare qualcosa di cui avevo bisogno per la mia tesi di laurea su Walt Whitman. (Lei non sa, sarò il primo italiano a parlare di lui distesamente e criticamente. Mi perdoni, quasi sarò io a rivelarlo all’Italia!).
Lettera ad Antonio Chiuminatto, Green Bay, Wiscounsin, (Torino) 29 novembre 1929)
Questa lettera sempre a Chiuminatto, del luglio del 1931, quando ormai ricevere libri per corrispondenza era diventata una consuetudine:
Caro Tony,
la tua lettera è stata un’oasi nel deserto, in queste giornate di calma. Fa bene, nel malinconico abbattimento italiano, ricevere qualcosa come una stretta di mano da laggiù. e oltretutto sono stato contento d’aver l’occasione di contraccambiarti finalmente un favore. non posso domandare immediatamente a Mila cosa significa quella fattura, perché lui ora sta scalando le Alpi, ma appena posso metterò tutto a posto. comunque credo che le cose stiano così: Mila t’aveva regalato un abbonamento annuale alla <Rassegna Musicale>; finito l’anno se n’è dimenticato e ora l’amministrazione ti manda il modulo che ricevono tutti gli anni gli abbonati. non devi preoccupartene: protesterò e pagherò quello che c’è da pagare, e tu continuerai a leggere la roba del nostro dongiovanni. il quale, a proposito, ha proprio un contegno poco decente. credo che la sua stagione alpinistica nasconda una fuga con…. Così stai scalciando per Melville, eh? Non sei il solo, non sei il solo. Anche gli Editori italiani stanno scalciando(1), ma io me ne sono presa una cotta e mi costasse la testa lo voglio portare avanti. Trovo Moby Dick un’opera straordinaria, e così via, ma rallegrati, non voglio affliggerti con una conferenza estemporanea sulla personalità dell’autore. Mi riservo per un’altra occasione: tra poco butterò giù uno dei miei famosi saggi, e sentirai.
A proposito di saggi, devo dire in difesa dell’Anderson che il direttore della rivista mi aveva assegnato quel numero di pagine e basta (per via dell’interminabile Lewis) e così ho dovuto contrarre il mio stile il più possibile!
Molte grazie anche per il tuo sempre vivo interesse alla tradizione del saggio su Lewis, per il quale dubito solo di deludere tutte le speranze dell’America. il simpatico elenco di frasi in slang m’ha toccato il cuore e già me lo sto studiando. a memoria. Fatti sempre vivo, amico, con regali così,
più dolci d’ una scatola di cioccolatini! A proposito, aspetto impaziente che finisca il caldo, perché ho intenzione di mandarti ancora dei cioccolatini con dentro il liquore. Ma stavolta presenzierò di persona alla confezione del pacco per evitare sostituzioni. (Procrastino solo per avere un clima più propizio; sai che il liquore dentro ai cioccolatini si asciuga facilmente).
Tra pochi giorni ti restituirò gli undici libri del prestito estivo da restituire alla biblioteca e se tu sarai in grado di rinnovare il dono, sarò commosso ecc.
Così tutto ti va che è un sogno? Stai insegnando alla Scuola Estiva? Dacci dentro anche da parte mia, che ora sono un completo fannullone, come un vero filosofo, e passo ore allo specchio ad ammirare la perfezione dei miei sguardi (e aspettando che il servizio militare la rovini). Ciao.
P.S. Naturalmente ho ricevuto Melville e Anderson e ti ringrazio. Quando ai nuovi libri, tieni sempre conto dell’elenco che hai, insisti negli autori ivi nominati (specialmente Cabell, Williams, Hughes, Sandburg), trovane di nuovi, insomma, metti in opera il tuo giudizio.
Il bibliofilo
Varrebbe la pena partire dalla ricostruzione delle letture di Pavese, ma sarebbe un lavoro improbo (avendo Pavese passato la sua vita a leggere). Di fatto Pavese fu un rappresentante esemplare, affascinante e disturbante dei dilemmi di una generazione cresciuta nel fascismo, con il desiderio di uscire dall’opacità e dal provincialismo di quel periodo buio. Pavese ha vissuto anche i primi anni della Repubblica, il risveglio del Paese, i migliori anni della nostra storia nazionale, ma sono stati anche gli anni della guerra fredda, sempre stretto nella morsa di dover scegliere tra un capitalismo che ha riciclato gran parte della classe dirigente del regime e lo stalinismo. La Belviso si limita, sulla base dei “29 foglietti di bloc-notes”, ad affermare l’influenza di Nietzsche, ma è una opinione senza senso: mi sono limitato ad andare a cercare le citazioni sul diario di Pavese “Il mestiere di vivere” e ho ottenuto questo risultato:
Nietzsche | è stato citato 3 volte |
Dante | 19 |
Dostojevskij | 17 |
Joyce | 4 |
Leopardi | 19 |
Omero | 13 |
Rousseau | 6 |
Shakespeare | 23 |
Stendhal | 12 |
Tolstoj | 6 |
Vico | 10 |
D’annunzio | 9 |
Può essere un consuntivo discutibile ma è di certo esemplare rispetto a una ricostruzione delle influenze ricavate sulla base di ventinove foglietti di block-notes, che mi ricorda l’ambizione di comprendere una persona osservandola dal buco di una serratura. Francesca Belviso riprende altresì l’accusa di dannunzianesimo ,rivolta da Augusto Monti a Pavese al tempo della pubblicazione de “La bella estate”, ma è molto più proficuo leggere il ricordo di Augusto Monti , dove racconta le frustrazioni della generazione di cui fece parte lo scrittore. In conclusione, la Belviso mette in risalto la figura politica di Pavese, che avrebbe aderito al PCI per convenienza, per conformismo con gli altri protagonisti della casa editrice Einaudi, fedeli all’ortodossia comunista, ma anche qui la realtà é diversa: l’adesione al PCI di Pavese era frutto della sua volontà e convinzione e poi dovette scontrarsi su alcune questioni cruciali, con gli intransigenti sacerdoti dell’ortodossia che ritenevano che gli scienziati, i letterati, gli artisti avrebbero dovuto applicare nel loro lavoro i principi del marxismo-leninismo . Di fatto Pavese non rientrava in questo schema. Punto. E rimase fermo sulle sue posizioni culturali, si può anche affermare, con delle ragioni, che Cesare Pavese sia uno scrittore mediocre ma di certo è stato un autore con una scrittura e un pensiero originale e a se stesso fedele.
Personalmente non ho mai dato importanza al “Taccuino segreto”, anche se negli ultimi anni molti siti di destra estrema lo hanno recuperato e fatto passare Pavese per un nicodemita, simile al comportamento di molti evangelici del XVI° secolo, che cercavano di sottrarsi alle persecuzioni dell’inquisizione compiendo atti di ossequio esteriore alle idee dominanti (al cattolicesimo), nascondendo le proprie.
Sennonché recentemente ho letto una intervista di Carlo Ginzburg, che ha detto:
“Il Taccuino segreto contiene appunti non destinati alla pubblicazione, diversamente dal Mestiere di vivere. Lorenzo Mondo, che aveva scoperto il Taccuino, lo mostrò a Italo Calvino, che ne fu profondamente turbato, come lo fu mia madre, quando venne pubblicato su La Stampa nel 1990 dopo la morte di Calvino. Io lo lessi allora. Ci sono battute sprezzanti sugli antifascisti e una frase terribile che liquida le atrocità dei nazisti: ‘Se anche fossero vere, la storia non va coi guanti’. Carlo Dionisotti, che definì questo passo ‘turpe’, cercò di inserire il Taccuino nel contesto della biografia di Pavese. Penso che si debba fare un passo ulteriore, legandolo all’elaborazione della poetica di Pavese, imperniata, soprattutto a partire dagli anni ’40, sui temi del mito e del sacrificio. Pavese aveva letto Il ramo d’oro di Frazer nel 1933. Nei primi anni ’40 ripensò Vico in una prospettiva che lo porterà a scrivere i Dialoghi con Leucò. Ma le radici di questa poetica sono già reperibili in Lavorare stanca, per esempio in una poesia come Il Dio Caprone. Lo studioso francese Martin Rueff ha curato per Gallimard la traduzione delle Opere di Pavese: un volume che si apre con il Ritratto di un amico, che mia madre dedicò a Pavese, e si chiude con il saggio del 1966 di Italo Calvino, Pavese e i sacrifici umani. Vale la pena di citare da quest’ultimo un passo illuminante: ‘Il tono di Pavese quando accenna alla politica è sempre un po’ troppo brusco e tranchant, a scrollata di spalle, come quando già tutto è inteso e non vale la pena di spendere altre parole. Non c’era nulla di inteso, invece. Il punto di sutura tra il suo ‘comunismo’ e il suo recupero d’un passato preistorico e atemporale dell’uomo è lungi dall’essere chiarito. Pavese sapeva bene di maneggiare i materiali più compromessi con la cultura reazionaria del nostro secolo: sapeva che se c’è una cosa con cui non si può scherzare, questo è il fuoco’. Un Pavese ‘comunista’ tra virgolette, che scherza col fuoco. Sono parole significative, perché Calvino, più giovane di Pavese, aveva nei suoi confronti un rapporto di gratitudine e di profondo affetto. Si tratta del primo documento della ricezione del Taccuino segreto, ventiquattro anni prima della sua pubblicazione”.
Il Pavese del Taccuino segreto è un Pavese reazionario. È possibile che nel suo periodo alla Einaudi di Roma sia entrato in contatto con Julius Evola e con i circoli neopagani della Capitale?
Nel 1949 Pavese scrisse a Giuseppe Cocchiara:
“Evola ci propone La grande triade‘ di René Guénon: un libro che Einaudi non pubblicò. Pubblicò invece, nello stesso anno 1949, Il cannibalismo di Ewald Volhard, con una prefazione di Giulio Cogni, autore di libri razzisti, che l’aveva proposto a Pavese. Su tutto ciò bisognerà continuare a riflettere. Io non ho mai scritto direttamente su Pavese. A lui mi unisce il forte legame che aveva con i miei genitori, e il debito intellettuale che ho verso i suoi scritti. In ogni caso, l’interesse per l’opera e l’itinerario di Pavese è oggi vivissimo”.
Questa intervista mi ha insinuato dei dubbi, anche se resto dell’opinione che Pavese semplicemente distingueva il suo lavoro editoriale, il suo impegno politico e il mestiere di scrittore: come editore lavorò sempre e in modo infaticabile per promuovere l’idea di cultura einaudiana (non retorica o accademica) e non per interesse personale, sceglieva i testi per il loro valore e non per ragioni politiche, il suo scopo era quello di sprovincializzare la cultura del nostro Paese e di proporre ai lettori libri ben fatti, meritevoli di essere acquistati e letti. L’adesione al Partito Comunista di Pavese fu convinta e ingenua, di certo nella sua vita vera non c’era la divisione del mondo tra quelli che hanno sempre ragione e quelli che hanno sempre torto e per questo motivo aveva vita difficile con i custodi dell’ortodossia; sul diario il 27 maggio 1950 scrisse:
«Contemplo la mia impotenza, me la sento nelle ossa, e mi sono impegnato nella responsabilità politica, che mi schiaccia. La risposta è una sola – suicidio».
Le frasi poi scritte su il “Taccuino” erano solo rimuginamenti con se stesso, segnali del suo carattere da tragedia e delle sue angosce. L’operazione editoriale fatta da Lorenzo Mondo mi ricorda il tentativo di comprendere una persona osservandola dal buco della serratura, pare di scoprire una verità, ma è una distorsione della verità, si fanno solo pettegolezzi.
I rapporti di Pavese con gli amici di sempre e le lettere editoriali erano improntati di schiettezza (a quel tempo i rapporti erano più sinceri di adesso), Pavese non si piegava a piaggerie nemmeno per convenienza, oltretutto non nascondeva spigolature e difetti umorali; è più semplice e lineare scoprire lo scrittore e l’uomo leggendolo che dando retta a ricostruzioni macchinose “sulla carta”, ma che non hanno contatto con la realtà.
Pavese sposa il comunismo con il vagheggiamento della sua mitologia ossessiva, fare del bene in una natura dell’uomo brutale e primitiva. Italo Calvino nel 1995 scrisse una osservazione acuta: Il punto di sutura tra il suo “comunismo” e il suo recupero di un passato preistorico e atemporale dell’uomo è lungi dall’essere chiarito. Pavese sapeva bene di maneggiare i materiali più compromessi con la cultura reazionaria del nostro secolo: sapeva che se c’è una cosa con cui non si può scherzare, questo è il fuoco.”