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” Gli amori finiscono, i pettegolezzi continuano”.
Ancora oggi tutti (quasi tutti) scrivono che il suicidio di Cesare Pavese fu un « suicidio per amore ».
Cesare Pavese venne trovato morto nell’albergo Roma di Torino: aveva ingerito oltre dieci bustine di sonnifero. Era il 27 agosto 1950.
Sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò che si trovava sul tavolino della camera d’albergo aveva scritto:
Il 25 marzo 1950, Pavese aveva scritto sul diario:
“Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”.
Il diavolo sulle colline
«A Il diavolo in collina dicono che Pavese tenga molto; e si spiega. Formalmente, è il racconto più bello, così vario, veloce, modulato in una sintassi studiatissima, elaborato in dialoghi che sfiorano la perfezione. È il racconto dove il narratore si abbandona di più al suo gioco preferito, i chiaroscuri, l’insinuazione, il frammento, l’ammicco, l’intreccio sottile dei fatti che, a guardarlo, fa una musica, la palese ambiguità della vita» (Geno Pampaloni).
Qualcuno degli altri, che ci trottava dietro, non capiva che cosa facessimo a una cert’ora, finito il cinema, finite le risorse, le osterie, i discorsi. Si sedeva con noi tre sulle panchine, ci ascoltava brontolare o sghignazzare, s’infiammava all’idea di andare a svegliare le ragazze o aspettare l’aurora sulle colline, poi a un nostro cambiamento di umore tentennava e trovava il coraggio di tornarsene a casa. L’indomani costui ci chiedeva: – Che cos’avete poi fatto? – Non era facile rispondergli. Avevamo ascoltato un ubriaco, guardato attaccare i manifesti, fatto il giro dei Mercati, visto passare delle pecore sui corsi.
Inizia così il “Diavolo sulle colline”. Ho riletto questo romanzo quest’estate e mi è tornata alla mente l’atmosfera malinconica che mi ha accompagnato per tutta la vita.
Mi ha ricordato non solo l’impressione che mi fece e la voglia di vivere che mi trasmise questo libro a sedici anni, ma anche la mia adolescenza prolungata, durata ben più di una stagione, in cui ero un perdigiorno insonne di giorno e di notte, giravo senza meta con chi incontravo per caso, nel timore che la vita fuggisse via.
Rileggendolo a distanza di anni, ne ho apprezzato lo stile essenziale con cui Pavese non solo ha raccontato il passaggio doloroso all’età adulta ma il clima di un’epoca, gli anni del dopoguerra carico di attese presto deluse; è anche la scoperta della città e della società, il passaggio dalla favolosa/mitologica/ campagna alla vita moderna.
La trama
La storia racconta la vita estiva dei tre giovani protagonisti – l’io narrante che resterà anonimo, Pieretto e Oreste. I giovani vivono a pieno la vita notturna con le chiacchierate fino all’alba, i momenti trascorsi a bere e scherzare e l’esplorazione della campagna, mossi dalla curiosità o semplicemente in cerca di qualcuno che è rimasto fuori fino a tardi.
Conosciamo i protagonisti, in una Torino addormentata nel fresco della notte, poco prima dell’alba, mentre i tre passeggiano senza meta, incapaci di dormire.
Tutti studenti universitari, Pieretto è il portavoce dello spirito cittadino, irriguardoso e mistificatore, Oreste studente di medicina, è il rappresentante della naturalezza propria della campagna, laborioso ed a tratti ingenuo. Poi c’è il narratore anonimo, cittadino di educazione, ma profondamente affascinato dal lato selvaggio della natura, della quale si mette alla scoperta, imparando mano a mano a sentire il palpitare stesso della terra sotto il sole.
Li seguiamo poi durante il loro rito di iniziazione all’età adulta.
È proprio così che s’imbattono in Poli, cocainomane e anticonformista, figlio del proprietario del Greppo, una grossa tenuta in collina.
Affascinati dai suoi racconti di vita e dai cordiali modi di fare gli terranno compagnia nei suoi giri in macchina e inizieranno a frequentarlo assiduamente, in una confusa giostra tra night e paesini appisolati in compagnia della sua matura amante. Il rapporto tra i due virerà in tragedia: Rosalba, tenterà di uccidere Poli e poi dopo l’intervento del padre, ricco borghese che le eviterà il carcere, si suiciderà in una clinica.
Per i ragazzi pare tornare tutto alla normalità, incluso il ritorno in campagna di Oreste, con una felice descrizione della vita famigliare del giovane.
Tuttavia le loro strade si incrociano di nuovo, Poli inviterà i tre giovani a trascorrere l’estate alla sua tenuta sulla collina, dove vive insieme alla moglie Gabriella. Le giornate saranno all’insegna del divertimento, delle bevute notturne, delle dissertazioni su temi universali, ma di sottofondo si percepisce la dicotomia città/campagna. La stessa villa del Greppo, dimora dei due coniugi, è un’ opera cittadina che dissacra la natura circostante e mentre per l’io narrante la natura è un richiamo, un tremito di piacere, uno spogliarsi stesso della sua umanità per tornare a ciò che si era, un desiderio del primitivo:
Per Poli e Gabriella la campagna è la reclusione, l’esclusione stesse del contesto sociale che sentono loro più congeniale. Con poche pennellate implacabili, il romanzo muta direzione: i tre giovani di fatto subiscono il fascino di Gabriella, di cui Oreste si innamora con la convinzione di essere ricambiato dalla giovane donna. Un sentimento assoluto che (forse) gli segnerà la vita per sempre.
Pagina dopo pagina si avverte una tensione che, nonostante sia sempre stata in sottofondo, bilanciata da rasserenanti descrizioni paesaggistiche, diventa sempre più forte con l’avvicinarsi dell’epilogo. Il rapporto tra i tre studenti, ingenui che non conoscono ancora la vita, e la coppia, avvezza ad ogni cosa ed adusa ad una vita di vizi e raffinatezze, corre sempre sul filo del baratro, un passo falso e la loro amicizia, il loro sodalizio, questo castello di carte potrebbe crollare e distruggerli con le sue macerie.
Il finale è quasi sospeso, il cerchio della trama non si chiude, lascia spazio all’immaginazione del lettore e all’imprevedibilità della vita.
Poli dopo una festa si sentirà male, sputa sangue e si viene a sapere che è tisico. Gabriella innamoratissima del marito e stabilmente fedele, preoccupata, lo accudirà come un bambino e lo porterà a Milano per cure. I tre giovani salirono sull’auto di Poli per un ultimo passaggio al paese:
Poi partirono e noi andammo a bere al Mulino.”
Pavese decadente?
Nella trama sono stato prolisso e noioso, a differenza di Pavese dove lo stile secco, reticente, distaccato, riesce a donare alla narrazione un forte impatto emotivo e pertanto consiglio a tutti coloro che vogliono approfondire la conoscenza con questo autore, di leggere direttamente il testo e di farsi una propria opinione. In caso contrario una spiegazione delle tematiche affrontate da Pavese ne “Il diavolo sulle colline” si può ricavare leggendo il testo “La lezione in morte di Cesare Pavese” di Augusto Monti, stimato insegnante al liceo classico Massimo D’azeglio di Torino, che ebbe tra i suoi allievi alcuni tra i più noti personaggi della cultura torinese del periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale, come Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Vittorio Foa, Guido Seborga e Massimo Mila.
LA LEZIONE IN MORTE DI CESARE PAVESE
di Augusto Monti
Questa di stasera non è una commemorazione; genere che non piace a Geno Pampaioni, e non è una conferenza, genere che non piace a me; è una lezione. Una lezione come quelle che facevo al liceo, e fra gli scolari sedeva Cesare Pavese: lezione di letteratura italiana, cioè di storia d’Italia con l’accento sul fatto letterario. Solo che allora il programma si fermava come storia alla grande guerra (15-’18), come letteratura a Verga e a D’Annunzio; adesso — stasera— il programma giunge fino ad oggi 1950 e l’autore di cui si tratta è Cesate Pavese, e le pagine della lecito = lettura, son tratte dalle ultime due opere di questo autore, La bella estate, La luna e i falò……..
Che vita è questa di Cesare Pavese? La vita della generazione più sconsolata e infelice che la storia d’Italia conosca. Vita di gente che non ebbe motivi di sorriso se non nel vago ricordo dell’infanzia e nella tradizione dei padri; del resto: guerra, fazione, paura, fuga, strage E, peggio, la incapacità, la impossibilità di trovar una stabilità, una condusione, una maturità.
Innocenti ragazzi desiderosi di ridere, di giocare, di amare, di credere; li avevan forzati ad essere uomini dalla faccia feroce, cinici e minacciosi; trentenni, quarantenni non avevan toccato mete, attendevano ancora, erano ancora, più che uomini, adolescenti. Coatti della politica, se fascisti avevano assistito allo sgretolamento prima, alla rovina poi del fascismo e dell’Italia; se antifascisti avevan passato gli anni migliori nella compressione e nella persecuzione o – peggio – nell’indulto; toccata appena la meta della Liberazione vedevan tosto traditi gl’ideali per cui si eran esposti, battuti.
Borghesi, il loro mondo era in putrefazione. Salvezza, sicurezza, avrebbero potuto raggiungere solo con una fede religiosa o comunismo o cattolicesimo; perciò occorreva loro esser dei fanatici, credere perché era assurdo; non potevano; i padri, i maestri ne avevan fatti dei laici, dei liberali, i tempi non permettevan loro codesti lussi. Che via rimaneva loro? la protesta contro i tempi. Quale? la rinunzia alla vita; rinunzia radicale ne’ più feroci, il suicidio; rinunzia alla lotta, per i più, rassegnazione, « concordato con la vita » – per dirla con Mila – o una stracca conversione; cioè sempre un suicidio.
Questa insomma la tragedia di quella generazione: aver conosciuto una età felice, quella dei padri; aver riconosciuto che quell’età era un passato irrevocabile, un paradiso perdùto; essersi promessa una terra come quella dei padri ma più doviziosa e beata; essersi battuti per raggiungerla; aver riconosciuto che la terra promessa era un miraggio vano, un irraggiungibile pianeta, non aver potuto regger al pensiero di seguitar ad abitare su questa « aiuola che ne fa tanto feroci »…
È pubblicato nel novembre del ’49. Contiene tre lunghi racconti: uno del ’40, uno del ’48, uno del ’49. Siccome Pavese è sempre uno scrittore «Impegnato» — cioè politico-sociale a dirla in soldoni — perché è uno scrittore, così anche questo libro come tutti quelli del Pavese rientra nella letteratura della Resistenza. Vi si rappresentano gli assenti: giovanissimi e anziani. Questo non lo dico io, lo dice Pavese per bocca d’un de’ suoi personaggi: « Nemmeno a Roma la gente era in festa così di continuo. E Mariella voleva recitare a tutti i costi. Sembrava che la guerra non ci fosse stata E il giudizio che Pavese dà di questi assenti è inequivocabile: « non la nausea di questo o di quello… ma lo schifo di… tutto e di tutti… Ma non è su questo che io, impegnato fin troppo, voglio attirar la vostra attenzione. Voglio documentarvi un Pavese preso fra il « paradiso perduto » e la « terra promessa »; voglio veder con voi in che cosa consista la famosa « modernità» di Pavese. La bella estate dunque, tre lunghi racconti.
Sentitene i motivi. Primo: La bella estate. Tema: la verginità perduta — e pianta. Una sartina, una minorenne — Virginia, appunto — una polledrina selvatica, di quelle che s’impennano e recalcitrano appena tu le posi una mano sulla groppa, s’avventura nelle sirti d’uno studio di pittore, vi s’innamora di Guido, pittore vestito ancora da soldato, perde il fiore…insomma non è più Virginia né Ginia, ma Ginetta, piange davanti alla distratta indulgenza del suo Guido, che ha tante altre cose a cui pensare, e passa nelle ultime pagine a braccio di Amelia, una sifilitica ragazza se non da marciapiede da caffè.
Secondo: Il diavolo sulle colline. Tema: la fedeltà coniugale, sempre più novecento, come vedete. Poli, figlio viziato di industriali oriundi piemontesi stabiliti a Milano, intelligente non incolto cocainomane e amico delle donne, va nell’antica sua villa in Monferrato a rimettersi d’una pistolettata che una donna sposata gli ha tirata nelle costole; lo cura e l’assiste nella solitudine della vecchia tenuta abbandonata la moglie Gabriella, donnina del suo rango, moderna brillante e in apparenza spregiudicata. Tre giovani amici di Poli lo raggiungono nel suo eremo, tre studenti, di cui uno s’invaghisce dell’affascinante madamina; par che Poli, il rottame, stia per esser fatto becco — che sarebbe se mai, focaccia per pane— niente: Poli ha uno sbocco di sangue, la signora spaventatissima e innamoratissima del marito e stabilmente fedele al suo Poli se lo porta in macchina a Milano a casa loro.
Verginità perduta e pianta; fedeltà serbata gratis; per uno scrittore ultimo grido; mi pare,.. S’incomincia a capire la modernità di Pavese: i personaggi de Il diavolo sulle colline sono stati in un tabarin ultramoderno dalle parti di Sassi, vi han fatto le ore piccole fra luci varianti e musica sincopata e canti; uno conclude: «Queste notti moderne.,, sono vecchie come il mondo ».
La terza novella, la più « moderna » di tutte, Tre donne sole, ha per tema un motivo più ottocentesco ancora, forse: una persona — una donna — Clelia, che dal nulla — dalla gavetta, o addirittura dalla lattina di conserva — s’è fatta una posizione, è « arrivata » e vive con le sue sole forze « le spese dì spiaggia me le pago da me » e non deve nulla a nessuno; e la carriera l’ha fatta non perché
donna — e bella donna anche — ma perchè uomo « aveva il vizio di lavorare — dice di sé questa Clelia -— di non prender mai una feria completa: …è peggio degl’industriali padri di famiglia… che erano uomini coi baffi e hanno fatto Torino»; ottocento: età dei padri, e come vita e come letteratura.
Se questi sono i motivi centrali, i primi piani, la modernità di Pavese sarà negli sfondi: studi di pittori con discussioni sull’astrattismo, sbornie coucheries, caffè del centro, con donnine e cocaina, sifilide e amori lesbici, tabarin, macchine americane lunghe di qui fin là, alberghi e locali di lusso in montagna e in riviera, casini e cusinos, dialoghi a repliche ardite e sottintesi, il correr l’andare-venire il moto perpetuo di questo dopoguerra, la deboscia il lusso, E, soprattutto lo stile con cui questa deteriore materia è trattata: scarno, impassibile, secco, lucido come un grattacielo o un bar, come vetrine al neon. Secondo me tutto ciò esiste in Pavese — c’è, specie ne La bella estate —- ma il suo stile non è qui: questo è moda appena e domani sarà démodé, scaduto. Anzi tutto quel che abbiamo enumerato appena cessa di far da sfondo al quadro, appare come eccessivo, come superfluo, pesa, guasta, fa « cattivo gusto», Volevo dire che esteticamente il positivo di quei tre racconti è nei temi a cui ho accennato — personaggi e dramma — il resto, quasi tutto, è aggiunta, svolazzo, esercizio, virtuosità’ i tre temi verginità, fedeltà, Stabilità economica sono gl’infìssi piantati saldo nei muro, il resto sono ciarpe, cianfrusaglie appese a quegli infissi in tal copia da nasconderli e da minacciare di scardinarli c tirarli giù, pezzi sempre di bravura, squisitezze stilistiche da far aprir la bocca di maraviglia, da far dir talora: « grande scrittore se avesse qualcosa da dire ».
Senonché Pavese ha pure nella Bella estate qualcosa di suo da dire, di tragicamente suo. La bella estate che cos’è? «A quei tempi era sempre festa. Bastava uscir dì casa e traversare la strada per diventar come matte e tutto era così bello,.. », « una cosa da ragazzi, senza conseguenza, un effetto del sole e del cantare»; i tempi per Ginìa dell’’innocenza e della « verginità ».
Che son passati, che ci sì ripensa con struggimento, nel cui ritorno sì spera d’inverno. « In certi momenti per le strade, Ginia sì fermava perché di colpo sentiva persino il profumo delle sere d’estate, e i colori e Ì rumori, e l’ombra dei platani. Ci pensava in mezzo al fango e alla neve, e si fermava sugli angoli col desiderio in gola ». « Verrà sicuro, le stagioni ci sono sempre ». «Che non tornerà più, Guido l’ha prosa, Guido l’ha lasciata. Non per cattiveria o crudeltà, ma perché ora si fa così; non ci si ferma; i tempi non permetton più di attaccarsi-, non usa più ». « Ma le pareva inverosimile proprio adesso ch’era sola: sono una vecchia, ecco cos’è. Tutto il bello è finito ». Ed è finita anche Ginìa, vittima dell’illusione che si possa oggi esser felici come ieri, che possa sulla neve fangosa brillare il sole del mese delle vacanze.
In tutto il libro ricorre il tragico motivo della bella estate come felicità perduta, come « tempi beati che non tornan più ».
Anche Clelia, la ferma ragazza torinese, così sicura padrona dì sè, ha una sua bella estate nel sècrètaire…dei dolci ricordi, ed è l’unico sorriso della sua dura vita; ma quella stagione non tornerà più; e le copie che ne tenterà appariran fredde e sfuocate; e la fortuna che ha fatto le serve sì ad assicurarle l’indipendenza, ma questo non dipender da altri, questo bastar a sé, è in fondo solitudine – ed esser soli in fondo è l’esser morti da vivi.
E nel Diavolo sulle colline la desolata bellezza del greppo col suo parco abbandonato, i terreni incolti alle falde, un cantuccio di moderno confort nella abbandonata suntuosità della villa, è dice dentro di sé a Gabriella e a Poli uno dei giovani ospiti; « Una cosa la presenza di Gabriella mi aiutò a capire… Quell’abbandono, quella solitudine del greppo era un simbolo della vita sbagliata di lei e di Poli. Non facevano nulla per la loro collina; la col lina non faceva nulla per loro. Lo spreco selvaggio di tanta terra e tanta vita non poteva dar frutto che non fosse inquietudine e futilità. Ripensano alle vigne di Mombello, al volto brusco del padre di Oreste ». Ripensate ai tempi dei padri: al nonno di Poli che faceva render la terra. Alla Bella estate che non torna più. Che è la luna bella e irraggiungibile; mentre qui in terra non ci sono che i falò, anzi resti dei falò, cenere, ossa calcinate, spreco, abbandono, morte.
Si comprende Pavese leggendo la critica di Monti soprattutto al contrario, ovvero Monti in una lezione sulla morte di Pavese di pregio, di fatto ritiene “Il diavolo sulle colline” e più in generale la trilogia insieme a “Tra donne sole” e “La bella estate” un Pavese decadente (anche se Monti almeno in questa testimonianza non lo dice esplicitamente), che segue la moda “Ma il suo stile non è qui. Questo è moda appena, e domani sarà demodè, scaduto”. Monti nella stessa lezione ricorderà “La luna e i falò“, «per me (Monti), il Capolavoro.»
L’accusa a Pavese di decadentismo è stata ricorrente e molti critici non sono stati teneri con Pavese in vita e soprattutto dopo la morte: nel 1954 arriva la stroncatura di Alberto Moravia che definisce Pavese un “decadente di provincia”: Moravia manifesta una vera e propria avversione nei confronti di Pavese e definisce il diario “Il mestiere di vivere” – pubblicato postumo, un “libro penoso” .
Carlo Salinari, che dal 1951 al 1955 fu il responsabile della politica culturale del Pci, risponde a Moravia, “riconosce la complessità e l’interesse” dell’opera di Pavese e ne ammette la funzione culturale. Salinari afferma pure che tale funzione è «stata maggiore della sua resa artistica», e ribadisce (come Moravia), che lo scrittore piemontese è «il punto di approdo del decadentismo italiano».
Di fatto tutto un filone della critica comunista-stalinista, tende ad inglobare l’esistenzialismo in un prolungamento del decadentismo e non ha colto uno degli aspetti più singolari della narrativa pavesiana, che nel passaggio tragico tra la vita primitiva e essenziale della campagna a quella ricca di aspettative, ma anonima e senza riferimenti interiori della città ha anticipato l’individualismo, la fragilità e le contraddizioni dell’uomo della seconda metà del ‘900.
A meno che non abbia ragione Alberto Moravia che cinquant’anni fa su L’Espresso, ne fa una lettura caricaturale anche del suicidio:
“A riprova si confronti il suicidio di Hemingway con quello di Pavese. Il suicidio di Hemingway desta un’immensa pietà; ma non si concreta in un mito perché l’opera di Hemingway è tanto più importante della sua vita e della sua morte. Non si parla oggi di Hemingway come di uno scrittore che si è ucciso; ma come di uno scrittore che ha scritto certi libri e poi, purtroppo, si è ucciso. Il mito di Pavese è invece quello dello scrittore che si uccide. Questo mito, in certo modo, nasconde l’opera di Pavese, confondendo le idee della critica e dei lettori. Per coloro che non hanno bisogno di opere ma di miti, Pavese è un autore ideale. Così alla fine bisogna pur dire che il capolavoro di Pavese è la sua morte, cioè un evento che pur verificandosi fuori della letteratura, «continua» la letteratura. Anche qui il decadentismo si conferma un’ultima volta, tragicamente.”
La bella estate trilogia
Il diavolo sulle colline è la seconda opera della trilogia dell’autore, dopo La bella estate e Tra donne sole. Un romanzo tra realismo e lirismo pavesiano, nella quarta di copertina, preparata per la prima edizione, de “La bella estate” (1948), così Pavese fornisce una spiegazione di ordine tematico per la composizione dei tre racconti, un unico volume.
“Un volume, tre romanzi. Ciascuno di esseri potrebbe da solo far libro. Perchè “La bella estate”, “Il diavolo sulle colline” e “Tra donne sole” escono insieme? Non è quel che si chiama trilogia. […] Si tratta di un clima morale, un incontro di temi, una temperie ricorrente in un libero gioco di fantasia. Per quanto ricchi di aperture paesagistiche – e “Il diavolo sulle colline” si chiede addirittura nella sua impostazione che cosa siano natura e campagna- sono tre romanzi cittadini, tre romanzi di scoperta della città e della società, tre romanzi di giovanile entusiasmo e passione sconfitta. Un tema ricorrente in ciascuno dei vari intrecci ed ambienti è quello della tentazione, dell’ ascendente che i giovani sono tutti condannati a subire. Un altro è la ricerca affannata del vizio, il bisogno baldanzoso di violare la norma, di toccare il limite. Un altro, l’ abbattarsi della naturale sanzione sul più incopevole e inerme, sul più giovane.”.
Curiosità
Il 4 ottobre 1948 nel suo diario Cesare Pavese scrive: «Finito Il Diavolo in collina. Ha l’aria di qualcosa di grosso. È un nuovo linguaggio. Al dialettale e calligrafico colto, aggiunge la “discussione studentesca”. Per la prima volta hai veramente piantato simboli. Hai recuperato La spiaggia innestandovi i giovani che scoprono, la vita di discussione, la realtà mitica».
Tra “La Spiaggia” breve racconto scritto nel 1940 e “Il diavolo…” intercorre una chiara vicinanza tematica non solo e non tanto per la somiglianza tra il personaggio di Clelia e di Gabriella, da una parte, e gli innamorati Berti e Oreste, dall’altra, quanto per il linguaggio secco e allusivo che consente allo scrittore di rendere un’immagine con poche, intense pennellate e afferrano il lettore che sappia farsi coinvolgere.
Nella “Spiaggia” si profilano i primi spunti che costituiranno in seguito l’asse portante del complesso sistema di simboli e tematiche costruito da Pavese. Nella Spiaggia il paesaggio predominante è il mare mentre nel “Diavolo…” è la collina, ma in entrambi i racconti la nudità è un tema centrale, solo accennata nel primo romanzo, nel “Diavolo…” l’abbronzatura integrale viene vista come il modo per tornare all’origine dell’essenza umana e il segno del costume diviene, invece, emblema peccaminoso dei tabù borghesi: «Al sole non si deve nascondere niente»
Testimonianza
Nicola Enrichens è stato il direttore didattico della scuola di Santo Stefano Belbo dal 1949, ha conosciuto Pavese nelle rare visite al paese natio. La famiglia ha conservato la corrispondenza (sei lettere, cartoline e altri scritti brevi), insieme a una lunga testimonianza.
Il 6 luglio del 1950, poco prima di uccidersi, Pavese gli inviò un biglietto in cui ironizzava sulla sua vittoria al Premio Strega: «Caro Enrichens, la ringrazio del suo telegramma. Troppa degnazione per una faccenda pettegola e mondana come lo Strega. Come ho già scritto agli amici di S. Stefano, verrò presto a trovarvi, entro il mese».
Il Pavese che Nicola Enrichens ritrasse nel suo testo mai pubblicato, datando quella passeggiata sulla collina di Santa Libera agli inizi del giugno ‘ 50, era tuttavia un uomo che, pur in quei «giorni terribili del suo burrascoso amore con Costance Dowling», sapeva incantarsi davanti a un albero: «Si fermò davanti a un pesco fiorito ad ammirarlo: vidi, dietro i vetri tersi delle sue lenti, i suoi occhi brillare, come incantati per un miracolo». Il 27 agosto si sarebbe ucciso. (La Repubblica, 8 agosto 2010).
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