Pavese editore – il lato oscuro della collana viola e la collaborazione con il risentito Ernesto con De Martino

per Gian Franco Ferraris

Pavese diventa collaboratore, insieme a Massimo Mila della casa editrice Einaudi nel 1933, era stata appena fondata da Giulio Einaudi e il direttore era l’amico di sempre di Pavese, Leone Ginzburg che venne arrestato l’anno successivo perchè militava nel gruppo clandestino di antifascisti: “Giustizia e Libertà”, Pavese lo sostituisce e diventa direttore della rivista “La Cultura”  per questo motivo anche Pavese viene arrestato nel 1935 e condannato al confino per tre anni nel paese calabro di Brancaleone.  La Casa editrice Einaudi assunse come redattore nel 1938 Pavese per «L. 1.000 nette mensili» deve tradurre almeno 2.000 pagine dall’inglese l’anno, rivedere le traduzioni inglesi altrui, occuparsi di pareri editoriali, lavoro redazionale e corrispondenza. In quegli anni la casa editrice attraversa tra mille difficoltà gli anni del fascismo e della guerra ( nel 1943 venne commissariata dai fascisti).

Dopo la Liberazione, morto Leone Ginzburg, torturato e ucciso in carcere dai nazisti, Pavese assume nel 1945 di fatto la direzione Editoriale dell’Einaudi, lavorerà “come uno schiavo egizio” nella sede di Roma e a periodi in quella di Torino.

Proprio il lavoro nella casa editrice lo agevolerà nel conoscere i testi di etnologi e antropologi moderni, così come rimase affascinato dalle ricerche sull’inconscio collettivo elaborate da Carl Gustav Jung (1875-1961).

D’altra parte Pavese che era stato da sempre un divoratore di libri della classicità da Omero a Leopardi, aveva individuato dai primi testi scritti, un sostrato mitico che condizionava le azioni dell’uomo, collegato ai luoghi e ai traumi dell’infanzia.

La cultura dell’italietta uscita dal fascismo  era assai provinciale, Pavese che si vantava con Fernanda Pivano di aver portato la letteratura americana in Italia, conseguì la laurea con una tesi sul poeta americano Walt Whitman, e si era dedicato anche negli anni del fascismo alla traduzione di Anderson, Faulkner, Fitzgerald e rimase incantato dal grande romanzo di Melville (tradotto nel 1932) Moby Dick, ma tradusse anche due albi di topolino. Recuperare libri dall’America al tempo del fascismo era assai difficoltoso – non si trovavano nelle librerie italiane, Pavese riuscì a leggerli facendoli spedire per posta: decisivo fu a questo proposito l’aiuto offertogli dall’America, da Antonio Chiuminatto, un musicista di origine piemontese.

I classici, gli scrittori americani prima di Hemingway, gli etnologi e antropologi moderni, la psicanalisi di Jung erano i principali riferimenti culturali fin dai primi romanzi di Pavese come furono il suo interesse predominante in qualità di direttore editoriale.

Alla fine della guerra, Pavese, come numerosi intellettuali rosselliani, aveva aderito al partito comunista e collaborato con “L’Unità” e “Rinascita” con una serie di scritti , solo che gli interessi dello scrittore stridono con i dettati del partito e la conversione di Pavese segue sentieri tortuosi e irti di difficoltà, anche perchè la casa editrice Einaudi diventa di fatto la casa editrice di riferimento del Pci, a cui viene affidata (nel 1948) la pubblicazione delle opere di Antonio Gramsci.

In un volume (Einaudi) sono stati pubblicati a cura di Tommaso Munari i resoconti delle riunioni di redazione della casa editrice negli anni 1943-52.  Pavese in un felice ossimoro  «concordia discorde»  chiarisce il tratto distintivo e anche il senso delle riunioni editoriali.

L’Einaudi era nata come un’impresa artigianale, Giulio (nato nel 1912) frequentò a Torino il liceo-ginnasio Massimo d’Azeglio allievo del professore di italiano Augusto Monti e venne a fare parte della famosa “confraternita” – composta da Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila, Vittorio Foa, Franco Antonicelli e altri – che era solita riunirsi con il professor Monti al caffè Rattazzi e nelle case dell’uno o dell’altro, per discutere di politica, filosofia e letteratura. Molti di loro costituirono il nerbo originario della casa editrice, quello che elaborava la politica editoriale della Casa. Fondamentali in tal senso, prima il ‘direttorio’ composto nel 1941 da Ginzburg, Pintor, Muscetta, Pavese e poi, dalla fine degli anni Quaranta, il consiglio editoriale ‘del mercoledì’, via via comprendente anche Felice Balbo e Mila, Franco Venturi e Bobbio, Vittorini e Italo Calvino, Antonio Giolitti e Natalia Ginzburg, Delio Cantimori, Ludovico Geymonat.

Nessuno, meglio di Pavese, seppe fare proprie le esigenze della casa editrice, il lavoro editoriale è per lui il mestiere in cui si applicò con rigore, consapevole della prospettiva di costruire un’identità einaudiana certamente articolata, problematica ma ben definita nelle sue linee di fondo. Pavese lavorò sempre per promuovere l’idea di cultura einaudiana, nelle famose riunioni del mercoledì «parlava poco»: la gran parte del lavoro preferiva svolgerla nell’ombra, tessendo una fitta ed efficiente rete di collaboratori per far funzionare la macchina editoriale.

Tuttavia i verbali testimoniano come la Einaudi sia cresciuta sul confronto tenace, sulla discussione anche aspra e apparentemente insanabile. Fotografano ad esempio il contrasto tra Pavese e Vittorini che convinse Einaudi ad aprire una terza sede della casa editrice a Milano, con il proposito di pubblicare un «periodico di educazione popolare», un «giornale spregiudicato e vivo», che si tradurrà nel «Politecnico» settimanale e poi mensile affidato alla direzione dello stesso Vittorini.  Le divergenze erano già note grazie alle lettere, ma nei verbali si precisa come quando Pavese lamenta con sarcasmo una lacuna di comunicazione con la redazione di Milano: «Ma in generale osserviamo che parlate di testi a noi sconosciuti. Questo è bello ma scomodo. Se dobbiamo dare un parere dobbiamo informarci. In linea di massima ci fidiamo della vostra scelta. Comunque alla prima occasione vedremo i testi e saremo sempre in tempo a dire la nostra».

Ma soprattutto il rapporto con il Pci non manca di provocare motivi di tensione, le anime della Einaudi sono tante, Giulio Einaudi è accorto, non delega a nessun altro la gestione dei contatti con il Pci.

Anche gli intellettuali di casa Einaudi legati più di Pavese all’ortodossia del Pci manifestano in varie occasioni  indipendenza dalle linee guida di partito:

Un «volume fatto da scrittori che, pur accettando il comunismo, fanno le loro obbiezioni», come suggerisce Vittorini nella seduta del 12-13 gennaio 1949 cadrà nel vuoto. Il partito «non deve prendere posizione, avallando la collana», avverte il «dissidente» Balbo, «la Casa deve svolgere la funzione di Casa editrice e non può fare biblioteche di partito». Lo stesso Calvino sconsiglia di «partire pensando di diffondere questa collezione nelle sezioni di partito; ma di tenere conto delle esigenze del pubblico in genere».

Nella casa editrice l’ala oltranzista e fedele all’ideologia del Pci è  rappresentata da Giolitti, Donini e Muscetta.  La traduzione di La Mèditerranéè il testo del grande storico francese Fernand Braudel verrà pubblicata con il parere negativo dei custodi dell’ortodossia del PCI. Le divergenze si acuiscono nel 1948, con l’uscita della collana etnografica, la famosa «Viola», il Pci era insofferente all’idea che la sua casa editrice di riferimento pubblicasse autori “di destra”. Nel dicembre del 1949, subito dopo l’ uscita del volume pavesiano La bella estate, Muscetta invia al piemontese una stroncatura epistolare. «Ho dato un’ occhiata al tuo nuovo volume. Scrivi troppo, e sempre di amorazzi. Lascia riposare un po’ la mano e proponiti nuovi contenuti degni del secolo!». La risposta di Pavese è gelida: «Ci sono dei secoli in cui gli amorazzi, ed essi soli, varcano il silenzio. Esempio il cantore di Laura che non cavò un ragno dal buco con l’ Africa».

La collana viola ha dato luogo a una prima “internazionalizzazione” della cultura del nostro Paese, affiancando titoli di studiosi italiani a quelli di studiosi stranieri: una serie di libri su temi che allora trovavano poca visibilità nelle librerie e poca attenzione accademica, testi sulla magia, opere etnografiche, saggi di Jung e lavori come Il ramo d’oro di Frazer. Il catalogo è saturo di nomi oggi celebri: James Frazer, Lucien Lévi-Bruhl, Karl Kerényi, Karl Gustav Jung e Mircea Eliade. Molti di loro sono autori che, oltre a essere talvolta direttamente compromessi con il fascismo, hanno reso nel mito il vero fondamento delle ideologie di destra.

Pavese viene accusato dai custodi dell’ortodossia comunista di raccattare «criminali di guerra» e neopagani (Eliade, Volhard, Hauer, Cogni). «I libri di Mircea Eliade che traduciamo sono due…Essi sono stati scelti per il loro interesse e valore scientifico tra una folle di titoli che gli editori francesi di case etnografiche e religiose ci inviano. Non c’è passato per la mente di esaminare la fedina penale dell’Autore, in quanto non si tratta di opere di politica o di pubblicistica. Qualunque cosa faccia l’Eliade, come fuoriuscito non può ledere il valore scientifico della sua opera. Dovremmo smettere di pubblicare le opere scientifiche di Heisenberg perchè questi è un nazista? Ce ne ricorderemo, se mai, quando si trattasse di pubblicare le sue conferenze politiche». Anche  Kerényi è considerato scomodo. È un accerchiamento. Muscetta scrive a Einaudi chiedendo «se e quali libri fascisti o di fascisti sono in programma presso la Casa editrice».

E’ curioso il fatto che gli intellettuali di casa Einaudi che aderirono al Pci nel tempo se ne allontanarono: Felice Balbo cattolico amico di Pavese nel 1950 non rinnovò la tessera del PCI, Antonio Giolitti si dimise dal Partito comunista (era parlamentare) nel 1957 dopo l’invasione russa dell’Ungheria, la stessa sorte seguirono sempre nel 1957, l’intransigente Carlo Muscetta e Italo Calvino. Elio Vittorini lo aveva già abbandonato ai tempi della rivista il “Politetecnico (1947).

La collana viola è il frutto della collaborazione a senso unico alternato di Cesare Pavese e Ernesto De Martino.
Il primo vagito del progetto risale al 1942. De Martino scrive a Giulio Einaudi con tutto il suo ingombro di intellettuale spigoloso.
Spett. Casa editrice Einaudi, Torino
Vi scrivo in qualità di membro corrispondente della Società
Italiana di Metapsichica per una concreta proposta di carattere
editoriale. Mi permetto anzitutto di richiamare la vostra attenzione
sul genere di ricerche scientifiche di cui si occupa tale Società, e a
questo scopo trascrivo qui l’articolo I del suo Statuto: “La società
italiana di metapsichica ha lo scopo di promuovere, con i metodi e
col rigore usati per le altre branche della scienza, nonché con
l’ausilio dei mezzi offerti dalla più recente tecnica sperimentale
psico­bio­fisica, lo studio scientifico dei fenomeni psichici e
psicofisici così detti paranormali, fenomeni che la Società stabilisce
di chiamare ‘metapsichici’, esclusa qualsiasi finalità filosofica e
religiosa”. Si tratta di un genere di studi che ha avuto largo sviluppo
fuori dall’Italia, soprattutto in Inghilterra , in America, in Francia e
in Germania […]. In Italia gli studi di metapsichica hanno una certa
tradizione (basterà ricordare il nome di Morselli), ma solo
recentemente essi hanno preso un indirizzo nettamente scientifico
con la fondazione della sunnominata società. […].
La società italiana di Metapsichica mi autorizza a trattare con
Voi per la eventuale pubblicazione di una collana di lavori di
metapsichica…
De Martino è impaziente, vuole costruirsi un solido curriculum per spuntarla nei concorsi universitari,  a Roma incontra Pavese,  nella sede che l’Einaudi ha aperto in via Monteverdi. Hanno la stessa età, sono entrambi nati nel 1908, e di certo ci mettono poco a saggiarsi: Quanto agli studi etnografici, Pavese è un geniale dilettante («ho studiato abbastanza l’argomento ma non ho ancora la competenza necessaria», scriverà al Comitato Einaudi), ma è un attento lettore di  Giambattista Vico  «Qualcosa per accadere deve essere già accaduto», scrive sul diario ed  è interessato alla ricerca sul mito del selvaggio e su tutto ciò che rimane primitivo (rifuggendo il pittoresco).
 De Martino propone una nuova collana per la casa editrice, una serie di libri su temi che nell’Italia di allora erano presso che sconosciuti:  testi sulla magia, opere etnografiche, saggi di Jung . Pavese è interessatissimo,

La guerra congela il progetto.  Il 29 maggio del 1945 Pavese scrive. «Caro de Martino, siamo vivi e al lavoro. Vorrei sapere Sue notizie e notizie della Collezione etnografica che faremo». Da qui parte un fuoco incrociato di proposte: liste di autori e progetti. De Martino si muove da censore, e pone spesso questioni di metodo e organicità.

Inizia un epistolario tra i due e un rapporto che produrrà una serie di libri di valore. Le lettere tra i due si possono leggere ne La collana viola che Bollati Boringhieri riporta in una nuova edizione, con una dettagliata spiegazione di Pietro Angelini. Il curatore delle lettere parla di «barca a due timoni, uno a poppa e uno a prua», anche se de Martino è solo un consulente e la decisione ultima è sempre nelle mani di Pavese.

Il via libera alla nuova collana risale all’ottobre del 1947

A de Martino, Bari
Torino, 27 ottobre 1947
Caro De Martino
[…] Einaudi chiamerà la collezione Collana di studi religiosi,
etnologici e psicologici, per poterci includere gente come Jung,
magari Freud, e studi di religione non propriamente etnologici

Con la lettera spedisce a De Martino una copia dei Dialoghi con Leucò («mi permetto di mandarti un mio libro che forse t’interesserà) solo che De Martino non si
pronuncerà mai sul libro di Pavese.

Il primo libro della Collezione  è un’opera di De Martino “Il mondo magico” a cui lo studioso ha lavorato fin dalla guerra, una storia del magismo che diventerà un testo nodale per il pensiero contemporaneo. Il libro arriva in redazione ma ci mette quasi un anno a uscire (1948), De Martino reclama con Pavese che in risposta gli scrive: “L’illeggibilità delle prime bozze dipendeva in parte dalla perfidia del tuo manoscritto”. E’ uno dei primi contrasti tra i due. Ma appena il libro esce, de Martino sparisce per oltre sei mesi. Ricompare a un certo punto, come se niente fosse, e il motivo del distacco resta un mistero. Ma quando le cose sembrano andar meglio, arriva una crisi che minerà completamente il rapporto tra i due intellettuali.

De Martino vorrebbe che ogni volume fosse accompagnato da «un’introduzione orientatrice che, segnalando i pericoli, operi nel nostro ambiente culturale come una sorta di vaccino definitivo»:

Bisognava far precedere ogni opera da una introduzione che la
ambientasse nel clima culturale italiano e guidasse il lettore
sprovveduto a leggere criticamente l’opera presentata. Altrimenti, a
mio avviso, si corre un rischio: di favorire mode e infatuamenti
pericolosi, e di provvedere non già all’allargamento dell’orizzonte
umanistico ma al costruirsi di nuovi dilettantismi. […] I
Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia di Jung­Kerényi
hanno visto la luce senza due righe di presentazione (e di una
presentazione avevano molto bisogno), e così pure Jung L’io e
l’inconscio (di cui forse andava meglio valutata la opportunità della
traduzione).

De Martino teme gli «infatuamenti pericolosi» e ricorda a Pavese che qualcuno – qualcuno del Partito – l’ha definita la “Collana nera”. La risposta di Pavese è perentoria: «La presentazione unitaria \[…\] è pressoché impossibile. \[…\] Tieni presente che le esigenze – ambientare i testi nel milieu idealistico italiano e accordarli con le velleità marxiste dei nostri consulenti ideologici – sono di per sé quasi contraddittorie. Sovente, disperato, io concludo che è meglio darli nudi e crudi e lasciare che i litigi avvengano sulle riviste».

In numerose lettere De Martino palesa la frustrazione per le mancate introduzioni: “Almeno le opere etnologiche potete farle presentare da me, che diamine! ma vedo che mi debbo rassegnare…”23 ottobre 1948

I ritardi di De Martino nelle traduzioni e introduzioni sono scusabili, dopo una lettera del 26 dicembre 1948, che informa Pavese dei problemi di salute del professore («sono in un ospedale per lesione polmonare»

In questa occasione, d’altra parte, lo scambio epistolare si infittisce e si fa  più
amichevole nei toni. Pavese spedisce ora presso l’Ospedale S. Camillo, «Padiglione
Bassi, Letto N° 32, Monteverde, Roma»

Il tono confidenziale sbiadisce quando sopravvengono nuovi attriti, nel novembre del 1949. La causa scatenante è la decisione se optare per un’introduzione al Frobenius o meno. Per Pavese «è più utile una precisa
nota filologica che non dieci pagine di “mani avanti” e di proteste antifasciste» .
De Martino non è d’accordo e deve tornare a ribadire il vecchio punto.
“Mi sembra di ravvisare in queste parole una condanna o
almeno una certa ironia per ciò che costituisce una mia ferma
convinzione: essere cioè soprattutto necessario non tanto o non
soltanto una presentazione pilatesca dei volumi della collana viola,
o una semplice delucidazione filologica, ma piuttosto una
introduzione impegnativa che vaccini dai pericoli e inquadri l’opera
nel nostro ambiente culturale. Se non siamo d’accordo su questo punto, la mia collaborazione è inutile.

Non fai cenno nè alla mia introduzione su Malinowski,  nè alle mie proposte relative alla sistemazione economica delle mie prestazioni (proposte consegnate a Einaudi). Ho motivo di non essere soddisfatto del trattamento che mi fate. Che cosa si è deciso’ sono sempre in attesa che liquidiate il vostro debito. Non ti nascondo che comincio ad essere impaziente. (11 novembre 1949)

“Non credo che giovi alla progettata condirezione impostare i nostri rapporti su un eccessivo sfoggio di durezza e di sfoghi di malumore. Nessuno ha mai pensato di ridurre la tua funzione a quella di un semplice correttore di bozze, tuttavia non ti sarà difficile riconoscere che chi è dentro una certa specialità culturale- come sono io – è in condizione di valutare certe scelte meglio di chi si è volto ad essa in parte per affetto letterario e in parte per necessità editoriale. In secondo luogo spiace sentire parlare da te  di prefazioni di “due pagine” quando ti consta che quelle a Jensen e a Malinowski, ne contano una decina. Oppure intendi contestare l’opportunità della lunghezza e dell’orientamento delle mie prefazioni, il tuo accenno alla “noticina bibliografica” da preferire alle dieci pagine di “mani avanti” me lo farebbe pensare. In questo caso si aprirebbe un dissidio su una questione di fondo…..

Ho ricevuto dall’Amministrazione uno schema di contratto. Mi riserbo di accettare dopo che tu avrai cancellato, con la tua prossima lettera la cattiva impressione che mi hanno lasciato le due precedenti.

Tale divergenza non si appianerà più. Questa pagina di Luisa Mangoni nella prefazione de “I verbali del mercoledì” è rappresentativa dell’accerchiamento a Pavese:

Muscetta…sembrava farsi interprete di riserve anche di De Martino:  «Ho visto Ernesto De Martino che mi ha fatto, anche a nome di Pettazzoni e di altri, severe critiche alla “collana viola” …..E infatti caro Einaudi, è un vero scandalo che noi continuiamo a valerci del signor Cogni che è una nullità intellettuale e un famoso razzista fascista. E’ necessario quindi che della collana viola si parli in una riunione editoriale e magari si inviti il de Martino». ….

La questione tuttavia non riguardava ormai soltanto le umorali reazioni di Muscetta – ma veniva affrontata in un intervento pacato, come suo costume, ma non meno esplicito da Giolitti. Giolitti spostava l’ottica: non si trattava tanto degli errori commessi dalla casa editrice, peraltro puntualmente elencati, ma del fatto che, a causa di essi, era la capacità della casa editrice stessa  a perdere la sua capacità di influire sulla politica culturale del PCI…Gli errori, reali a suo giudizio, impedivano perciò di dar pieno valore e peso a quei «fatti culturali seri» che la Einaudi era una delle poche istanze capaci di produrre. Peggio, gli errori offrivano il destro ad attaccare proprio quei fatti da parte di coloro, e non ne mancavano nel PCI che non intendevano dar vita a «una linea culturale più efficiente e coerente…Giolitti avanzava anche una proposta operativa: «ogni libro senza eccezione, prima di andare in tipografia dev’essere portato – completo di prefazione, note, ecc. – alla riunione del mercoledì per l’imprimatur definitivo. ..Ma un controllo ci vuole. ..»

Vale la pena di sottolineare come la lettera con cui …De Martino riepilogava la sua posizione…riflettesse assai da vicino, quasi come se ne avessero discusso tra loro, il ragionamento di Giolitti: non vi era dubbio che la materia della collezione viola costituisse «un terreno assai fertile per la germinazione di motivi razzistici, esoterici, decadenti, torbidamente romantici, e nel complesso reazionari…».

La lettera di Giolitti apre una discussione nella redazione dell’Einaudi (Felice Balbo, Giulio Einaudi), di fatto non ci saranno controlli, semplicemente le riunioni del mercoledì diventeranno più assidue è curioso che l’unico che pare preoccuparsi della sostenibilità economi sia Balbo che risponde a Giolitti: “Ti riconfermo naturalmente il mio pieno accordo sulla sostanza…..ora però credo che sarebbe abbastanza importante che ci parlassimo a voce qui a Torino, innanzitutto per poter fare insieme a te un po’ di programma ideologico sui libri futuri. Così da non dover correre ai ripari quando alcune cose siano già irreparabili, o quando comunque riparare significa sprecare soldi della casa editrice.”

Il 31 agosto, a quattro giorni dal suicidio dello scrittore, De Martino invia alla Einaudi una lettera infelice e in cui traspare un rancore e una invidia ingiustificata verso Pavese:
Caro Einaudi,
dopo la sciagura del povero Pavese vorrei sapere quale sarà per
essere, nel tuo pensiero, il destino della collana. Pavese le aveva
impresso un indirizzo che non era del tutto di mio gradimento,
poiché ad ispirare tale indirizzo reagiva la sua troppo immediata
simpatia per certe forme di irrazionalismo, scientificamente errate e
politicamente sospette, che attraverso l’idoleggiamento del mondo
primitivo, del sacro, del mito, etc., avevano tenuto a battesimo
alcuni aspetti dell’involuzione culturale (e politica) della borghesia
agonizzante. Pavese non era soltanto un narratore di favole, ma
anche un inquieto cercatore di una visione del mondo, e a me è
sembrato che ne stesse per scegliere una che equivaleva già a un
commiato e a una morte. […] La morte di Pavese non è un fatto
privato, e non è certo un “pettegolezzo” questo mio insistere sul
caso Pavese come un fatto pubblico. Ed io penso che mancheremmo
Cesare Pavese: la mitopoiesi, l’infanzia, e il primitivo ­ della necessaria pietà non solo verso lui morto, ma anche verso noi
vivi, se applicassimo qui un tacere che equivarrebbe a un colpevole
lasciar correre. La materia della collana è estremamente pericolosa,
perché in essa si riflette, con particolare evidenza, la crisi della
cultura borghese, le sue contraddizioni e le sue ultime alcinesche
seduzioni.

Pavese ha dunque impresso alla collana una direzione che De Martino non condivide.

Lo scrittore, dilettante di metapsichica, ha forse subìto il
fascino di quelle “seduzioni alcinesche” e “virulente”, che sarebbero state neutralizzabili
a forza di prefazioni e cautele (per Pavese, solo noiose “mani avanti”). Il “vaccino” non
difese lo scrittore dall’idolatria del primitivo, del sacro e del mito. Di qui si può capire
come mai De Martino non si espresse mai sui Dialoghi con Leucò, che forse gli parvero
il frutto dell’inquietante visione del mondo pavesiana, con cui lo scrittore delle Langhe
scelse il commiato e la morte.

A questa lettera Giulio Einaudi  non rispose , qualche mese dopo De Martino si rivolse alla casa editrice Einaudi chiedendo le intenzioni  che aveva sulla collana viola. A questa lettera che poneva domande di carattere operativo, rispose proprio Einaudi che precisò di non aver risposto alla precedente missiva perchè: «la lettera,
pervenutami all’indomani dei funerali di Pavese, mi poneva domande alle quali in quei
giorni non potevo né mi sentivo di rispondere, e in un tono perentorio che mi è
francamente spiaciuto»

La Collana viola venne spacchettata nelle Edizioni Scientifiche Einaudi, e poi ceduta alla Boringhieri nel 1957. De Martino cominciò a pubblicare con il Saggiatore, anche se rimarrà consulente sottotraccia di Giulio Einaudi.

Passano gli anni e dopo aver letto l’opera completa dello scrittore piemontese, Ernesto  de Martino  dedicò a Pavese  una poesia, un pentimento:

L’etnologo e il poeta
Povero Cesare
la mia amicizia
gli fiorì dopo morto
modesta viola sulla tomba.
Così
restò a me
Cesare Pavese: la mitopoiesi, l’infanzia, e il primitivo ­ Marta Mariani ­ Università di Pisa p. 102
il gusto amaro
di una pietà troppo tarda
ed il rimorso
di una disattenzione impietosa
finché
povero Cesare
fu nel bisogno.

La prima pubblicazione delle lettere di Pavese è del 1966, i curatori furono Italo Calvino e Lorenzo Mondo, in quella edizione la maggior parte della corrispondenza con De Martino venne epurata. Di certo Calvino aveva nei confronti di Pavese un rapporto di gratitudine e di profondo affetto, Calvino era più giovane di 15 anni, collaborava con l’Einaudi che nel 1947 aveva pubblicato il suo libro “I sentieri dei nidi di ragno” (C. aveva 24 anni) e nel 1950 venne assunto dalla Casa Editrice. Calvino è stato accusato da Lorenzo Mondo anche di aver censurato e obliterato gli appunti di Pavese poi pubblicati con il titolo il Taccuino segreto. Può essere che Calvino abbia fatto il censore per occultare gli aspetti oscuri di Pavese e della sua ambiguità politica. Tuttavia potrebbe anche essere che non abbia dato importanza alle lettere di De Martino, dal tono risentito, traspare ancora oggi che lo studioso partenopeo era animato da spirito di rivalsa: si sentiva sottovalutato o ignorato, dal mondo accademico, e dal partito comunista.

Calvino potrebbe pure non aver dato importanza al “Taccuino”, ai  29 foglietti scritti a matita  durante la guerra, mezze frasi  di elucubrazioni con se stesso del genere:

«Una cosa fa rabbia. Gli antifascisti sanno tutto, superano tutto, ma quando discutono litigano soltanto». O in altra pagina: «Stupido come un antifascista», o ancora  «Tutte queste storie sulle atrocità naziste che spaventano i borghesi che cosa sono di diverso dalle storie sulla rivoluzione francese, che pure ebbe la ragione sua?»

Personalmente non ho mai dato molta importanza a questi fatti, anche se negli ultimi anni molti siti di destra estrema lo hanno recuperato e fatto passare Pavese per un nicodemita simile al comportamento di molti evangelici  del 16° sec., che cercavano di sottrarsi alle persecuzioni dell’inquisizione compiendo atti di ossequio esteriore alle idee dominanti (al cattolicesimo)  , nascondendo le proprie.

Sennonché recentemente ho letto una intervista di Carlo Ginzburg, che ha detto:

“Il Taccuino segreto contiene appunti non destinati alla pubblicazione, diversamente dal Mestiere di vivere. Lorenzo Mondo, che aveva scoperto il Taccuino, lo mostrò a Italo Calvino, che ne fu profondamente turbato, come lo fu mia madre, quando venne pubblicato su La Stampa nel 1990 dopo la morte di Calvino. Io lo lessi allora. Ci sono battute sprezzanti sugli antifascisti e una frase terribile che liquida le atrocità dei nazisti: ‘Se anche fossero vere, la storia non va coi guanti’. Carlo Dionisotti, che definì questo passo ‘turpe’, cercò di inserire il Taccuino nel contesto della biografia di Pavese. Penso che si debba fare un passo ulteriore, legandolo all’elaborazione della poetica di Pavese, imperniata, soprattutto a partire dagli anni ’40, sui temi del mito e del sacrificio. Pavese aveva letto Il ramo d’oro di Frazer nel 1933. Nei primi anni ’40 ripensò Vico in una prospettiva che lo porterà a scrivere i Dialoghi con Leucò. Ma le radici di questa poetica sono già reperibili in Lavorare stanca, per esempio in una poesia come Il Dio Caprone. Lo studioso francese Martin Rueff ha curato per Gallimard la traduzione delle Opere di Pavese: un volume che si apre con il Ritratto di un amico, che mia madre dedicò a Pavese, e si chiude con il saggio del 1966 di Italo Calvino Pavese e i sacrifici umani. Vale la pena di citare da quest’ultimo un passo illuminante: ‘Il tono di Pavese quando accenna alla politica è sempre un po’ troppo brusco e tranchant, a scrollata di spalle, come quando già tutto è inteso e non vale la pena di spendere altre parole. Non c’era nulla di inteso, invece. Il punto di sutura tra il suo ‘comunismo’ e il suo recupero d’un passato preistorico e atemporale dell’uomo è lungi dall’essere chiarito. Pavese sapeva bene di maneggiare i materiali più compromessi con la cultura reazionaria del nostro secolo: sapeva che se c’è una cosa con cui non si può scherzare, questo è il fuoco’. Un Pavese ‘comunista’ tra virgolette, che scherza col fuoco. Sono parole significative, perché Calvino, più giovane di Pavese, aveva nei suoi confronti un rapporto di gratitudine e di profondo affetto. Si tratta del primo documento della ricezione del Taccuino segreto, ventiquattro anni prima della sua pubblicazione”.

Il Pavese del Taccuino segreto è un Pavese reazionario. È possibile che nel suo periodo alla Einaudi di Roma sia entrato in contratto con Julius Evola e con i circoli neopagani della Capitale?
“Nel 1949 Pavese scrisse a Giuseppe Cocchiara: ‘Evola ci propone La grande triade‘ di René Guénon: un libro che Einaudi non pubblicò. Pubblicò invece, nello stesso anno 1949, Il cannibalismo di Ewald Volhard, con una prefazione di Giulio Cogni, autore di libri razzisti, che l’aveva proposto a Pavese. Su tutto ciò bisognerà continuare a riflettere. Io non ho mai scritto direttamente su Pavese. A lui mi unisce il forte legame che aveva con i miei genitori, e il debito intellettuale che ho verso i suoi scritti. In ogni caso, l’interesse per l’opera e l’itinerario di Pavese è oggi vivissimo”.

Questa intervista mi ha messo a pensare anche se resto dell’opinione che Pavese semplicemente distingueva il suo lavoro editoriale, il suo impegno politico e il mestiere di scrittore: come editore lavorò sempre e in modo infaticabile per promuovere l’idea di cultura einaudiana (non retorica o accademica) e non per interesse personale, sceglieva i testi per il loro valore e non per ragioni politiche, il suo scopo era quello di sprovincializzare la cultura del nostro Paese e di proporre ai lettori libri ben fatti, meritevoli di essere acquistati e letti. L’adesione al Partito comunista di Pavese fu convinta e ingenua, di certo nella sua vita vera non c’era la divisione del mondo tra quelli che hanno sempre ragione e quelli che hanno sempre torto e per questo motivo aveva vita difficile con i custodi dell’ortodossia; sul diario il 27 maggio 1950 scrisse: «Contemplo la mia impotenza, me la sento nelle ossa, e mi sono impegnato nella responsabilità politica, che mi schiaccia. La risposta è una sola – suicidio».

Le frasi poi scritte su il “Taccuino” erano solo rimuginamenti con se stesso, segnali del suo carattere da tragedia e delle sue angosce. L’operazione editoriale fatta da Lorenzo Mondo mi ricorda il tentativo di comprendere una persona osservandola dal buco della serratura, pare di scoprire una verità, ma è una distorsione della verità, si fanno solo pettegolezzi.

I rapporti di Pavese con gli amici di sempre, le lettere editoriali erano improntate di schiettezza (a quel tempo i rapporti erano più sinceri di adesso), Pavese non si piegava a piaggerie nemmeno per convenienza, oltretutto non nascondeva spigolature e difetti umorali; è più semplice e lineare scoprire lo scrittore e l’uomo leggendolo che dando retta a ricostruzioni macchinose  “sulla carta”, ma che non hanno contatto con la realtà.

 

Babelezon bookstore leggi che ti passa

Articoli correlati

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.