di Alfredo Morganti – 4 settembre 2018
C’è un modo dire, un’espressione che mi lascia sempre un po’ stupefatto, ma sulla quale si costruiscono intere disamine politiche. La formula è questa: “Perché lasciare x a y”. La scrivo in forma generale e in termini analitici, ma basta sostituire alle variabili x e y dei nomi o fatti concreti e si producono affermazioni altrettanto concrete. Per dire: “Perché lasciare la patria alla destra?”, e prima ancora: “Perché lasciare il salvinismo a Salvini?”, “il razzismo ai razzisti?”, “il berlusconismo a Berlusconi”, “le privatizzazioni ai capitalisti”, “le riforme costituzionali alla destra”, il fascismo ai fascisti”, e così via. Mi avete capito. C’è questa idea che si debba fare politica rubacchiando temi e ragioni agli avversari, prendendosi il loro, entrando in casa del nemico nottetempo per trafugargli i punti di forza. C’è l’idea che il consenso si costruisce non sui propri temi (per esempio la solidarietà, la fratellanza, il sostegno agli sfruttati, l’umanità, il mutuo soccorso, la lotta contro gli sfruttatori, ecc.) ma a partire da quelli altrui, facendo delle improvvide invasioni di campo: di fatto sovrapponendosi alle identità storiche, politiche, culturali avverse. E tutto ciò, persino nella convinzione che la battaglia identitaria venga prima di ogni altra cosa! Alta è la confusione sotto il cielo.
Questa modalità di pensiero è il segno della miseria dei tempi, della crisi di orientamenti, del vuoto in cui si annaspa. Le grandi crisi confondono le acque, scompaginano le identità, sovrappongono le lingue. Il profondo discrimine, quello che produce una grande politica perché apre le acque e mostra un passaggio epocale, si riduce a essere una linea sottile, paradossale, élitaria sospesa nel vuoto, col rischio reale di sbandare e di precipitare giù o di caracollare dentro al territorio nemico senza accorgersene. La sinistra muore quando si specchia nell’avversario: quando privatizza come se piovesse, quando diventa interventista, quando non si occupa più dei poveri e degli sfruttati ma li discrimina, quando non ne vede più la sofferenza, l’umanità, quando sfida gli avversari sul loro terreno assumendolo in toto. È in questi momenti che si dovrebbe innovare, ma restando ben piantati alle proprie radici. Faccio un esempio.
Si dice: la patria e la nazione sono sempre stati patrimonio della sinistra italiana. Perché, allora, lasciarli alla destra? Ecco la forma proposizionale di cui sopra! Ma chi vorrebbe lasciarli alla destra? Io temo che il problema sia un altro. Se si fa propria una strategia totalmente antieuropeista (senza se e senza ma), contro la stessa idea d’Europa, questa strategia dovrà necessariamente essere sorretta da una vigorosa ideologia patriottica e sovranista. Di necessità! I principi (la patria, la nazione, il popolo, ecc.) verranno necessariamente dopo (anche se sono principi!) rispetto alle convinzioni politiche antieuropeiste maturate antecedentemente: è una specie di ribaltone. Si invocherà la patria quale mero espediente ideologico rispetto alla opinione politica che si è prescelta. Una cosa poco patriottica, a pensarci bene, perché rende il principio di ‘patria’ secondario, ideologicamente residuale.
Per parte mia io non dico mai patria, io dico Paese, andate a verificare nei miei post. Io amo il mio Paese, perché ci sono nato, ci sono cresciuto e ne ho assunto il carattere. Amo la sua identità culturale, le sue bellezze, la sua mediterraneità. Vorrei che si preservasse, che divenisse sempre migliore, perché la politica serve a questo. Vorrei che crescesse la stima internazionale nei suoi confronti. Penso pure che questo amore verso il proprio Paese sia la condizione essenziale per dialogare con gli altri popoli, magari entro organismi internazionali che favoriscano il dialogo e la collaborazione reciproca, e unifichino anche intenti, obiettivi, risorse. È un modo per restare se stessi pur divenendo più grandi di quanto non si sia. E se questo non avviene in termini corretti, si trovino soluzioni migliori senza far saltare il tavolo del dialogo. Un essere sé, insomma, che ha una ragione nell’altro. Contro ogni nazionalismo straccione o patriottismo destrorso. Questo credo abbiano sempre pensato i comunisti italiani, in questi decenni. Questo credo pensino le donne e gli uomini di sinistra che intendano essere se stessi, senza rubacchiare al nemico pensieri e parole. Il resto mi sembra solo un’artefatta impalcatura ideologica. Con tutto il rispetto.