Partito democratico: chi era costui ?

per Francesco Attanasio
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di Francesco Attanasio – 3 aprile 2018

Nel dibattito e nei commenti dopo il 4 marzo comincia a fare capolino l’interrogativo di fondo della crisi del Partito democratico, quello su quale sia la sua identità, ovvero, per i più radicali, se vi sia mai stata un’identità e quale sia il modo per (ri)costruirla.
Il PD nasce dalla unione di gran parte delle forze del centro sinistra che avevano dato vita all’Ulivo, di cui può essere considerato per molti versi l’erede politico, in particolare DS e Margherita, oltre ad alcune componenti minori di provenienza socialista e laica;
le tradizioni culturali costituenti si identificano nella tradizione cattolico sociale, socialista e comunista e laica, ricoprendo in larga maggioranza l’area delle forze democratiche che diedero vita, sotto il fascismo, prima, e durante la guerra, poi, la movimento della Resistenza da cui nacque la Repubblica italiana.
Va sottolineata la circostanza che nell’aprile del 1948, tali forze si divisero, sotto l’influsso della c.d. spartizione di Yalta, con la Democrazia cristiana e alcuni partiti minori a costituire la futura area di governo, e il Fronte popolare (socialisti e comunisti) all’opposizione;
soltanto nel dicembre 1963 inizia, con diverse difficoltà ed alterne vicende, la stagione del centrosinistra, con la presenza organica del PSI nella maggioranza e nel governo, per poi sfiorare, nel 1978, l’apertura allo stesso PCI, impedita dalle tragiche vicende del rapimento di Aldo Moro.
In tutta questa fase storica, peraltro, le stesse forze che oggi compongono il PD, nei rispettivi ruoli di maggioranza e minoranza, sono state in grado di guidare il paese da una situazione post bellica di disastro economico fino a giungere allo status internazionalmente riconosciuto di una delle sette potenze più industrializzate del mondo; tanto avvenne anche grazie agli aiuti economici forniti dagli USA con il piano Marshall, con il quale gli USA stessi ottennero di riconvertire la propria economia dalla fase bellica a quella di produzioni di beni e servizi forniti agli stati europei che maggiormente avevano risentito della guerra mondiale appena terminata.
Il ruolo delle forze di opposizione fu quello di indirizzare il progresso economico verso una dimensione di promozione sociale e di costruzione della nuova democrazia, dando progressivamente attuazione alla nuova Carta Costituzionale repubblicana.
In tutta questa fase storica, le forze che daranno vita al PD hanno dimostrato una profonda egemonia culturale nel paese, guidandolo nell’alveo delle democrazie occidentali ed in particolare nella costruzione del mercato comune europeo, prologo della Unione europea.
Il PD nasce nell’ottobre del 2007 con la dichiarata ambizione di raccogliere l’eredità delle culture summenzionate e farne forza baricentrica di governo dell’Italia.
Oggi, il PD sembra avere smarrito la consapevolezza di quella missione che aveva rivendicato, collezionando, dall’apice del consenso raccolto nelle elezioni europee del 2014 (41%), una ininterrotta serie di prove elettorali negative, sino all’attuale 18% dei consensi espressi; è ben vero che i turni elettorali succedutisi in questo torno di tempo hanno le loro specificità e diversità non sempre facilmente omologabili, ma incontestabilmente costituiscono un significativo trend negativo, che induce a riflettere anche sul senso identitario della stessa formazione politica.
Le forze costitutive venivano dalla esperienza di partiti fortemente strutturati e presenti capillarmente nel territorio, risultando le relative classi dirigenti frutto di un percorso lungo e costante di formazione e rappresentanti un soggetto collettivo articolato e complesso; forze che competevano elettoralmente e poi si confrontavano nelle aule parlamentari per il dialettico gioco di maggioranza e minoranza.
Negli ultimi anni, diverse e concomitanti ragioni (la sostanziale eradicazione in via giudiziaria di un’intera classe dirigente, nuove e diverse leggi elettorali, la erosione delle appartenenze ideologiche, massiccio ingresso nella formazione del consenso dei più svariati media, la stessa sempre più incombente crisi economica) hanno creato un rifiuto verso il modello di partito come soggetto collettivo strutturato, scivolando sempre più verso formazioni politiche costruite attorno ad un leader ovvero guidate da una figura forte e carismatica, con un legame intenso e diretto con il corpo elettorale, fino a fare del partito una sorta di grande comitato elettorale del leader.
Significativo, sotto questo angolo visuale, è stato il dibattito, largamente coevo alla nascita del PD tra il partito forte e strutturato ed il partito leggero e ‘liquido’, quali diverse ed alternative prospettive costituenti.
Il PD, da Veltroni in poi, fino alla ultima e più radicale formulazione renziana, ha vellicato ed inseguito la seconda alternativa, lasciando in ombra le tradizioni di ragionamento collettivo delle forze fondative, nella presunzioni di rincorrere le nuove formule di gestione del consenso.
Tale formula, fintanto che è stata sorretta in certa misura da consensi soddisfacenti e / o rilevanti, ha consentito al PD di svolgere la rivendicata missione di forza di governo; oggi, con la evidente crisi di consensi, origina l’interrogativo di partenza;
voglio sottolineare che assumo la sconfitta elettorale come dato oggettivo, senza addentrarmi in ricerche di paternità individuali, che seguirebbero il piano inclinato della ‘personalizzazione’ del partito, obliterando le ragioni collettive della stessa, che mi sembrano molto più interessanti da osservare, in quanto ritengo offrano migliori vie di uscita dalla situazione odierna;
in altri termini, sostituire un leader con un altro non mi sembra la soluzione al problema che dobbiamo affrontare.
I partiti del c.d. secolo breve erano espressione di una società ben strutturata e chiaramente delineata nella proprie appartenenze di classe: il ceto operaio trovava nella fabbrica manifatturiera (tangibile nella sua fisicità) il luogo di lavoro e nel contempo il luogo di difesa dei propri diritti e di azione politica; la classe imprenditoriale era l’interlocutore competitivo, anch’esso presente nel territorio; in parallelo, il ceto impiegatizio, pubblico e privato, ed i liberi professionisti, garantiti da livelli di reddito mediamente più alti della classe operaia, svolgevano la loro funzione dinamica di equilibrio sociale e sostegno all’economia interna; il mondo agricolo seguiva le sue logiche di tentativi di modernizzazione e di crisi ricorrenti; gli studenti e i cc.dd. intellettuali esercitavano liberamente una funzione di critica positiva.
Oggi la realtà, sotto i colpi di maglio della innovazione tecnologica e della crisi economica, ha sfarinato e privato delle identità caratterizzanti quasi tutti i gruppi sociali, con una forte spinta depauperizzazione del ceto medio;
nel mondo del lavoro il paradigma di netta distinzione tra lavoro subordinato, operaio e non, e lavoro autonomo, costituito sostanzialmente da professionisti ed imprenditori, è diluito in modo opaco nel c.d. popolo delle partite iva, laddove molte attività, sotto il manto indefinito della ‘collaborazione’, nascondono in realtà una dura esternalizzazione del lavoro subordinato;
sarebbe interessante approfondire, in questo quadro, la figura che mi piace definire ‘imprenditore di sussistenza’, mutuando la nota definizione salariale di marxiana memoria; ossia, un lavoratore formalmente autonomo, che svolge la propria attività, quasi sempre in solitario e senza dipendenti o altri collaboratori, con un livello di fatturato talmente risibile da garantire a mala pena la sussistenza propria e della famiglia; detta figura viene meno sia alla funzione principale dell’imprenditore, che attraverso l’organizzazione del lavoro proprio ed altrui, crea un incremento di ricchezza, sia alla funzione del libero professionista, che consegue il medesimo incremento di ricchezza attraverso il proprio sapere offerto alla consulenza verso le altrui attività economiche, con il risultato di una società perennemente in affanno economico.
Altro dato rilevante, è una sorta di apolidia della impresa, in special modo della grande impresa e del capitalismo finanziario, che può essere considerato la terza fase del modo capitalistico di produzione, dopo il capitalismo mercantile e quello manifatturiero; la produzione di ricchezza, al contrario delle forme praticate da queste ultime due modalità, è slegata dal territorio, laddove l’impresa manifatturiera e, ancor più, quella agricola sono soggetti partecipi alle vicende del luogo dove si svolge l’attività produttiva, divenendone attivo soggetto cittadino, prima, e politico, poi.
Riporto soltanto questi due tratti di una realtà enormemente più complessa, per dar conto delle difficoltà di governare processi che molto spesso sono globali e sovranazionali e quasi sempre intimamente interconnessi.
La sfida che un soggetto politico, quale il partito, ha difronte ha questo elevato grado di articolazione, esplicato attraverso modalità che non sono più quelle del c.d. secolo breve, che ha visto nascere i soggetti collettivi come li abbiamo conosciuti sinora.
Occorre, quindi, tralasciare sterili querelle di natura personalistica, che si muovono soltanto nell’ottica del leader e ripetono i medesimi errori che ci hanno portato sin qui, e ricostruire un orizzonte di valori condivisi e caratterizzanti, che non rinneghino le tradizioni storiche e le aggiornino dotandole di nuovi strumenti.
Personalmente, ripartirei dalla costellazione disegnata dalla prima parte della nostra Costituzione repubblicana, contenuti nei principi fondamentali e nella parte prima della Carta; in particolare i primi dodici articoli che racchiudono i principi fondamentali sono il distillato della elaborazione politica e giuridica del secolo dei lumi e sicuro tracciato di azione di progresso sociale;
ricordo soltanto i primi quattro come i più qualificanti di ogni soggetto politico che voglia definirsi autenticamente progressista:
la Repubblica democratica fondata sul lavoro e la sovranità popolare (art. 1); il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2); principio di eguaglianza sostanziale e l’impegno programmatico alla rimozione degli ostacoli alla attuazione di tale principio (art 3); il diritto al lavoro (art. 4).
Potrei continuare elencando tutti i primi 54 articoli della Carta, ma già i primi quattro indicano una forte traccia di azione politica di carattere progressista, nel senso già delineato da Norberto Bobbio, come tendenza alla uguaglianza delle possibilità.
Organizzare politiche di ricostruzione e saldatura delle fratture determinate dalle forti diseguaglianze, acuite dalla crisi e dalla globalizzazione non ancora foriera per tutti di vantaggi, sarebbe un forte tratto identitario per una forza che vuole ambire a guidare il cambiamento in senso progressista della società.
Il metodo da adottare deve partire dalla complessità della realtà e dal frazionamento e diffusione dei saperi e delle conoscenze, che devono essere ricostruiti attraverso un confronto reale, aperto ed informato.
Soltanto una piattaforma di questo tipo, ritengo, farà del PD nuovamente il soggetto politico di riferimento di gruppi sociali e quote di elettorato che si oggi allontanati, non riconoscendosi più in una identità appannata da comportamenti lontani dallo spirito fondativo del partito.
La funzione prima di ogni programma politico di una forza progressista è quella di disegnare una identità riconoscibile e condivisa, che sia in grado di regalare una possibile speranza di futuro nel progresso sociale.
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