di Alfredo Morganti – 27 ottobre 2016
‘Nuovo’ è una parola vuota. Non indica nulla, non dice nulla. Si limita a indicare un non-so-che di attualmente non esistente, diverso solo in termini generici da ciò che invece, concretamente, è già qui, presente a noi. Dire ‘nuovo’ è come dire ‘diverso da’, ma niente di più. Tradisce l’incapacità di indicare che cosa, esattamente, in particolare, dovrebbe sostituire la cosa presente. Ma l’impressione è che l’uso del termine denoti l’incapacità di delineare esattamente il contenuto del progetto, limitandosi per questo a parlare in termini generici di novità. Oppure non l’incapacità, ma la volontà di non delineare con precisione alcunché, per nascondere i caratteri effettivi dello scenario che si ha in mente.
Il ‘nuovo’ lo propone chi auspica un ‘cambiamento’. Ma se volesse davvero ‘trasformare’ qualcosa (cioè mutare la cosa presente, non delinearne un’altra in un sogno, un annuncio o un tweet), non resterebbe in un ambito astratto, generico, sognante, ma proporrebbe un progetto preciso, pubblico, condiviso. Criticabile, ma determinato. Nominare e auspicare il ‘nuovo’, invece, è come restare in silenzio, come adombrare un indeterminato, come celare dietro una parola il nulla o l’inconfessato (che sono poi la stessa cosa). Chi vuole il nuovo e vuole cambiamento, in realtà si sforza di proporre sogni, visioni, scenari, o (peggio) incubi. Di solito il novista è un rottamatore del presente, perché non è in grado di trasformarlo (o semplicemente non intende farlo, non può farlo). Dietro il continuo riferimento alla suggestione del ‘nuovo’, gratta gratta, si cela il conservatore degli attuali assetti di potere.
Il ‘nuovo’ è, quindi, lo scenario di chi non ha nulla da proporre e cela una tentazione conservatrice. ‘Nuovo’ è la parolina magica che rende lieve l’incapacità reale di un progetto. ‘Nuovo’ nasconde l’idea di fondo che il reale va sostituito con altro (la novità, appunto) perché è quel che è, non è trasformabile e va perciò assecondato, in onore delle varie compatibilità. Ti fa credere di voler fare sfracelli, di voler ribaltare il mondo, ma poi ti ri-chiama al contesto, a questi assetti, a questi rapporti, che il novista (da bravo conservatore) apprezza più di ogni effettiva trasformazione. Lo apprezza così tanto il contesto, che la sua politica è solo politica del consenso. Questo reale gli piace così tanto che da esso vuole plauso, riconoscimento, consenso, elezione.
Il ‘nuovo’ è il grimaldello dei sogni destinati a lasciare il mondo com’è. Ecco perché a questa parolina dobbiamo contrapporre un’altra locuzione, ossia ‘trasformazione del presente’. Non un sogno ma un’analisi approfondita degli attuali assetti – non un’astratta prefigurazione di alcunché, ma una prassi. Non la predica della compatibilità, ma la ricerca delle contraddizioni che schiudono il presente o lo rendono trasformabile. Magari nel segno dell’uguaglianza e dell’equità. Di davvero ‘nuovo’, così, c’è solo il paradosso dell’eterno ritorno del presente, combinato però in modo tale dalla propaganda da apparire come un vorticoso mutamento. Ma sono solo scintille, dietro cui non c’è alcun fuoco vero. Solo parole in forma di un annuncio che, però, non annuncia nulla di concreto. Tanto meno una trasformazione.