Parla Fassina: il Pd, Raggi, Roma e io

per Gabriella
Autore originale del testo: Alessandro Gilioli
Fonte: l'Espresso
Url fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/05/20/parla-fassina-il-pd-raggi-roma-e-io/

intervista a Stefano Fassina di Alessandro Gilioli  20 maggio 2016

Stefano Fassina, 50 anni da poche settimane, nato a Roma ma cresciuto a Nettuno (elementari, medie, liceo scientifico), poi l’iscrizione alla Fgci (1986) quindi laurea con 108 alla Bocconi di Milano in Discipline Economiche e Sociali con tesi sull’eretico marxista Claudio Napoleoni. Quindi responsabile degli studenti universitari della Sinistra Giovanile (ex Fgci), consigliere economico del sottosegretario Laura Pennacchi durante il primo governo Prodi, poi vince un concorso da dirigente nel Dipartimento Affari economici della presidenza del Consiglio ma poco dopo viene assunto al fondo Monetario Internazionale e si trasferisce a Washington dove resta cinque anni. Nel 2005 torna in Italia e Pierluigi Bersani gli chiede di collaborare al programma economico dei Ds. Vinte le elezioni (2006) torna al ministero dell’economia con Vincenzo Visco. Nel 2010 diventa responsabile economico del Pd. Eletto parlamentare nel 2013, è viceministro dell’economia nel governo Letta, incarico da cui si dimette dopo l’ascesa di Renzi alla segreteria. Nel maggio 2015 lascia il Pd ed è oggi uno dei leader della costituenda Sinistra italiana.

Il suo programma è abbastanza vasto, diciamo: dalla cura degli anziani alla tutela degli animali, dallo sviluppo delle biblioteche alla videosorveglianza. Può fare una sintesi dei punti più importanti?

«Il primo è la ristrutturazione del debito del Comune di Roma: senza soldi ogni promessa elettorale è solo una chiacchiera. Ho studiato la struttura del debito e verificato che consiste principalmente in un mutuo di Cassa Depositi e Prestiti di cinque miliardi sottoscritto con un tasso assurdo, il 5 per cento, che vuole dire 250 milioni l’anno solo di interessi: oltre la metà dell’addizionale Irpef versata dai romani. La prima misura quindi sarà una rinegoziazione del mutuo con Cdp, che avverrà insieme a una seria riduzione degli sprechi, dove ci sono ancora grossi margini: pensi che per hardware e software Roma spende 5 volte più del benchmark nazionale e il 50-60 per cento in più per telefonia e carburanti. Con le risorse liberate in questo modo, le prime cose che faremo sono la riduzione dell’addizionale comunale Irpef sui redditi sotto i 25 mila euro, il dimezzamento della tassa sui rifiuti per gli esercizi commerciali e artigianali in perdita da almeno due anni e, un intervento per gli asili nido e le scuole d’infanzia: servizio migliore, rette più basse per le fasce povere, stabilizzazione del personale precario che a settembre rischia di andare casa lasciando le scuole nel caos. Poi serve un piano strategico per la mobilità, con l’obiettivo di dimezzare in cinque anni il numero delle auto private circolanti a Roma: passanti ferroviari, completamento e prolungamento delle linee della metropolitana, costruzione di direttrici di tram per mettere in rete il sistema pubblico dei trasporti, pedonalizzazione estesa, ciclabili, aree con limite di velocità a 30 all’ora».

Cosa si deve fare con le occupazioni illegali di case?

«Bisogna anzitutto partire dal problema di base, cioè il fatto che c’è una sofferenza abitativa molto rilevante in città. E non chiamiamola “emergenza” perché non è un problema emergenziale, è così da tanti anni».

Sì, ma cosa si fa con le occupazioni?

«Bisogna trovare soluzioni alternative in modo che chi oggi occupa abbia una possibilità di trovare nel rispetto dei criteri previsti una soluzione».

D’accordo, ma sgomberi sì o sgomberi no?

«In generale non credo che mandare per strada delle famiglie sia il modo migliore per affrontare il problema. Tanto più se si tratta di occupazioni di spazi pubblici abbandonati, come a Roma avviene in molti casi. Se invece qualcuno occupa con la forza una casa popolare che secondo i criteri di legge spetta a un’altra famiglia, dobbiamo ripristinare il diritto della famiglia assegnataria».

Che cosa vuol fare con i campi rom?

«Partiamo da un punto: è un problema sociale e non etnico. E come problema sociale va affrontato. I campi rom vanno chiusi: noi prevediamo un piano triennale per eliminarli attraverso un’integrazione di microgruppi nella città. Un’integrazione che dev’essere allo stesso tempo abitativa, lavorativa e scolastica».

Ma non è detto che i rom vogliano essere integrati.

«Sì, so che ci sono specificità culturali che non possono essere sottovalutate e per questo servono tre anni. Cioè gradualità. Secondo le valutazioni che abbiamo fatto con chi ha studiato il problema a fondo, con le stesse risorse usate oggi per i campi si può integrare i rom nel tessuto sociale togliendoli dai ghetti. Non è impossibile, mi creda, lo hanno già fatto in altre metropoli europee».

Al contrario che in quello di Raggi, nel suo programma non ho trovato traccia di un’azione per far verificare tutti gli immobili del Vaticano formalmente “luoghi di culto” per imporre l’Imu a quelli che non sono soltanto tali, come alberghi e piscine. Come mai?

«Perché mi sembrerebbe molto banale mettere nel programma una cosa ovvia come far rispettare la legge. Se a Roma ci sono immobili che sono esenti dall’Imu perché accatastati come adibiti ad attività no-profit mentre sono altro, l’Imu va fatta pagare. Del Vaticano o di privati. È ovvio che un sindaco decente deve stanare e far pagare chi aggira la legge, chiunque sia».

Nel suo programma c’è la proposta di un “reddito di dignità” a Roma. Nel novembre del 2013, quando lei era viceministro, il M5S fece una proposta a livello nazionale di reddito minimo e lei rispose: “non c’è copertura”. Com’è che se lo propone il M5S non ci sono le coperture ma se lo propone lei ci sono?

«Perché il M5S propose una misura universale e onnicomprensiva, del costo di una decina di miliardi: non c’erano proprio le condizioni per coprirla, come del resto non ci sono oggi. Noi a livello comunale facciamo una proposta diversa che individua il target prioritario delle famiglie povere con figli minori a carico: con 45 milioni di euro all’anno possiamo portarle fuori dalla soglia di povertà. Parliamo di circa 12-13 mila famiglie. Non è la soluzione al problema della povertà in città ma è quello che può fare il comune».

Ma lei è favorevole al reddito minimo garantito a livello nazionale, come legge dello Stato?

«Sì, ma attenzione perché con la dizione “reddito minimo” si intendono ormai anche cose molto diverse tra loro. Io sono un lavorista quindi l’obiettivo vero per me è il lavoro di cittadinanza, non reddito di cittadinanza. Che deve servire all’inserimento lavorativo, quindi deve essere condizionato ad attività formative e all’accettazione di offerte dignitose di lavoro. Lo vedo come un veicolo per condurre o ricondurre le persone al lavoro, insomma.»

Che giudizio dà della giunta Marino?

«Differenziato. Ha compiuto atti di discontinuità rilevanti intervenendo su rendite e interessi consolidati a Roma, come per la discarica di Malagrotta o con l’avvio del ricambio dei vertici alle municipalizzate, gestite per anni come strumenti clientelari. Credo però che abbia sottovalutato l’importanza di un rapporto stretto con quella parte di città che poteva sostenere il suo programma. Ha fatto un po’ troppo da solo e ha commesso errori, sbagliando ad esempio il rapporto con i lavoratori del Comune di Roma. E avrebbe dovuto avere più attenzione al dialogo sociale, che per noi è decisivo, non solo con i sindacati ma anche come le associazioni e i movimenti».

Hanno fatte bene o male i consiglieri del Pd a farlo dimettere attraverso il notaio?

«Hanno fatto male. È legittimo maturare un’opinione negativa sul sindaco, anche quello del proprio partito, ma invece di andare dal notaio insieme ai consiglieri del centrodestra avrebbero dovuto affrontare un dibattito trasparente in consiglio comunale, spiegando alla città perché quell’esperienza doveva finire. Quello che è avvenuto è un vulnus democratico che per noi è stato molto rilevante nella scelta di non costruire l’alleanza con il Pd a Roma».

Quali argomenti ha per convincere chi è di sinistra ed è tentato di votare per la Raggi?

«L’argomento è la priorità che noi diamo alla questione sociale aperta a Roma. Raggi parla giustamente di legalità e anche per noi è fondamentale, come per il M5S: ma crediamo che l’altra faccia del problema sia costituita dalle enormi disuguaglianze che ci sono in questa città. Con Salvatore Monni, che insegna a Roma Tre, ha fatto delle mappe da cui emergono differenze di indicatori economici sociali incredibili. Se tu nasci ai Parioli hai una speranza di vita alla nascita che è di 4-5 anni superiore rispetto a chi nasce a Tor Bella Monaca. La quota di laureati in centro è otto volte superiore a quella di chi abita in borgata. Ma si possono tollerare differenze così? E attenzione: non solo la Raggi, ma nessuno degli altri candidati mette la questione sociale come priorità. Eppure Roma oggi è una delle città più diseguali d’Europa».

La Raggi è di sinistra o di destra?

«Il carattere che riconosco in lei è un minimalismo ambiguo. Un tentativo, da vincitrice predestinata, di stare attenta a dire e non dire, con un’ambiguità che mi preoccupa».

Ma è di destra o sinistra, secondo lei?

«L’ambiguità di cui le parlavo rende complicata una valutazione. Ci sono tante cose contraddittorie nelle sue dichiarazioni».

E Giachetti lo considera di sinistra o no?

«Giachetti interpreta la sinistra mainstream dell’ultimo quarto di secolo, subalterna al liberismo. Una sinistra del tutto inadeguata alle sfide di oggi. E il suo slogan, “Roma torna Roma”, mitizza un modello del passato subalterno agli interessi forti della città, che ha aggravato quelle dinamiche di disuguaglianza di cui le parlavo prima».

Lei esclude in modo categorico che dopo il primo turno ci sia qualche forma di alleanza anche indiretta, surrettizia e informale con il Pd e Giachetti?

«Non ci sono le condizioni per nessun tipo di alleanza con il Pd, quindi con Giachetti».

Quindi esclude in modo categorico qualsiasi forma di alleanza con Giachetti?

«Sì, è quello che le ho detto. E se Giachetti dovesse diventare sindaco, noi staremo all’opposizione, senza se e senza ma».

Nel caso che al secondo turno passassero Giachetti e Raggi, quello più probabile secondo i sondaggi, lei chi voterebbe?

«Andremo noi al ballottaggio».

E se invece no, come probabile?

«Eventualmente faremo una discussione con tutti i nostri candidati, in modo partecipato, come abbiamo fatto finora su tutte le questioni».

Sì, ma lei, Stefano Fassina, nel probabile ballottaggio tra Giachetti e Raggi, cosa farà?

«Lo valuterò».

Beh prima o dopo dovrà scegliere, temo. Anche di non andare alle urne, magari, ma qualcosa dovrà scegliere.

«Alle urne io ci vado sempre. E non so che cosa farei al ballottaggio che lei ha ipotizzato. Dipende anche dalla rilevanza che i due candidati daranno o non daranno alla questione della povertà e delle diseguaglianze».

Quindi lei si sente equidistante, tra Raggi e Giachetti?

«Io non mi misuro rispetto agli altri, non mi interessa farlo».

Ma a me sì. Cioè mi interessa sapere la posizione sua e della sinistra rispetto a Pd e M5S, se si sente più vicino all’uno o all’altra.

«Io mi sento più vicino a quella parte di città che chiede giustizia sociale».

Onorevole, fa prima a dirmi che a questa domanda non vuole rispondere.

«Non rispondo perché ritengo sbagliato misurarsi come distanza rispetto a un altro».

D’accordo, allora parliamo di lei e non di altri. La sua candidatura a sinistra non è nata in modo democratico. Niente primarie, niente votazioni né on line né nelle assemblee, nessuna consultazione pubblica. Lei si è candidato mettendosi d’accordo con un po’ di capetti di Sel e Rifondazione. Le sembra bello?

«Io a novembre ho dato una disponibilità, non è che mi sono candidato. Poi ho girato sei mesi per la città verificando e confrontandomi in centinaia di incontri che mi hanno convinto a formalizzare la candidatura».

Nessun voto, niente primarie, zero: poi si fanno le pulci al voto on line M5s e alle primarie del Pd, che almeno ci provano, in modi diversi, a consultare le loro basi.

«Ma a gennaio – quando si era parlato delle ipotesi Marino o Bray – ho proposto io di fare le primarie della sinistra. So bene che mi avrebbero dato maggiore forza e legittimità, ne sarei stato molto contento».

E però mica le avete fatte.

«Perché non ci sono state candidature alternative. Nè Marino né Bray né altri hanno dato la loro disponibilità a correre. Che cosa facevo, le primarie da solo?».

Allora lei, come cofondatore di Sinistra Italiana, è favorevole all’uso delle primarie anche nella vostra area per decidere i candidati?

«Non per le cariche di partito – è stato un difetto esiziale nel Pd – ma per le cariche di rappresentanza istituzionale assolutamente sì».

Lei esclude in modo categorico che nella vicenda dei moduli sbagliati qualcuno di Sel vicino al Pd ci abbia messo del suo, per opera o per omissione, diciamo?

«Sì, lo escludo in modo categorico. È stato un errore involontario di cui mi sono assunto la responsabilità politica».

Onestamente l’immagine che è uscita della sinistra dalla vicenda è quella di sempre: eternamente divisi e rissaioli, incapaci perfino di presentare delle liste secondo i crismi, e se non sono in grado di compilare bene un modulo figuriamoci se sono in grado di amministrare una città complessa come Roma.

«Anzitutto i moduli erano sostanzialmente corretti, altrimenti il Consiglio di Stato non ci avrebbe riammessi: nella sentenza ha riconosciuto come confusa la normativa, non i nostri moduli. Mi lasci poi dire che noi abbiamo avviato quest’impresa a mani nude, mentre gli altri poggiano su strutture molto consolidate o su imperi finanziari».

L’immagine della sinistra pasticciona e rissaiola resta.

«A me non appartiene, non mi ci riconosco».

Con ogni probabilità lei non diventerà sindaco ma consigliere comunale. Si tiene il doppio incarico o lascia subito il Campidoglio?

«Il mio vincolo a consigliere comunale, essendomi candidato sindaco, è imprescindibile. Dopo di che verificherò il carico di lavoro e se dovesse risultare incompatibile, lascerò Montecitorio, non il Campidoglio».

Alcuni miei amici di sinistra dicono che lei soffre un po’ di amnesie, di rimozioni sul suo passato. Ad esempio di quando era responsabile economico del Pd mentre il Pd votava per il fiscal compact e il pareggio di bilancio, ma anche la riforma delle pensioni Fornero (inclusi gli esodati) e tutte le riforme ultraliberiste del governo Monti.

«No, non soffro di rimozioni. Anzi ricordo benissimo che da responsabile economico del partito ho fatto una battaglia molto dura proprio contro le cose che lei ha citato. Ricordo che una parte del Pd chiese più volte le mie dimissioni, per questo. E che il presidente Monti invitò ripetutamente Bersani a “silenziare Fassina”».

Le è andata bene che non era ancora parlamentare, altrimenti quelle leggi doveva votarle anche lei. Lo avrebbe fatto?

«Sì. sinceramente penso che le avrei votate. Avrei fatto la battaglia contro, ma dato il momento d’emergenza poi le avrei votate anche non condividendole. Subito dopo avrei iniziato a lavorare, come ho fatto, per limitarne i danni e recuperare alcune atroci ingiustizie, come quella degli esodati. Nelle mie liste qui a Roma ci sono tre esodati: evidentemente sono meno severi di lei nel giudicare il mio operato all’epoca».

Poi lei è diventato parlamentare e la prima questione che si è posta è stata l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Il M5S e la sinistra proposero Rodotà ma lei lo bocciò per stare con il democristiano Franco Marini. Disse che Marini era “in grado di ricostruire la connessione sentimentale con il Paese”. È un passaggio che ancora oggi rivendica o pensa di avere sbagliato?

«Rodotà è persona di cui ho la massima stima, ma non aveva i numeri per farcela. Era impossibile eleggerlo perché una parte del Pd non lo avrebbe votato mai e l’altra parte, anche insieme a Sel e Cinque Stelle, non sarebbe bastata. Marini invece era una persona altrettanto degna che però aveva il consenso del Pdl, quindi poteva farcela, se non ci fossero stati i franchi tiratori».

Però se lei si fosse schierato con Rodotà anziché con Marini avrebbe forse aperto una discussione nel Pd in merito. Invece in tutto il vostro partito allora l’unico che tifava Rodotà era Civati.

«Guardi che Rodotà è più vicino alla mia sensibilità di Marini. Ma su Marini c’era un accordo che poteva darci un buon presidente, al netto dei franchi tiratori. Su Rodotà no».

E così ha finito per votare Napolitano. Convinto?

«Allora sì. Dopodiché penso che il presidente Napolitano abbia sconfinato nel suo ruolo istituzionale, specie negli ultimi mesi».

Poco dopo si pose il problema di fare il nuovo governo e lei disse, 5 marzo 2013: “Noi non siamo disponibili a sostenere un governo col Pdl, lo consideriamo incompatibile sul terreno della ricostruzione morale che deve avvenire nel Paese”. Il 7 marzo: “Non siamo disponibili ad alcun accordo con il Pdl. Se non ci sono le condizioni per fare un governo di cambiamento con il M5S, si deve tornare alle elezioni”. Il 20 marzo: “Noi un governo con un partito che convoca i parlamentari davanti al tribunale e compra i deputati non lo faremo mai”. Il 10 aprile: “Nessun governo è possibile con il Pdl”. Quindici giorni dopo lei è diventato viceministro in un governo con il Pdl e Berlusconi.

«Sì, le mie posizioni erano quelle che lei ha ricordato. Ho fatto una battaglia politica nel Pd affinché non si arrivasse a quella soluzione e l’ho persa. Si è arrivati al governo con il Pdl come unica soluzione possibile. A quel punto il segretario del partito ed Enrico Letta mi chiesero di dare una mano nonostante le mie valutazioni. E io ho ritenuto mio dovere darla».

Un lieve difetto di coerenza tra dichiarazioni e pratiche tuttavia emerge, onorevole. O no?

«Mi sono assunto la mia quota a parte di responsabilità. Nel momento in cui la mia proposta non è andata avanti, facendo parte di quel gruppo dirigente ho ritenuto di non sottrarmi. Le faccio presente che quando poi è cambiata la segreteria del partito e la nuova dirigenza ha mostrato di ritenere il governo Letta un intralcio, io mi sono dimesso spontaneamente. Non era un problema di poltrone».

Non parlavo di poltrone, parlavo di coerenza.

«Ma no, uno fa una battaglia politica e se la perde cerca di fare il meglio nella nuova situazione. Enrico Letta mi chiese con motivazioni serie di partecipare a quell’esecutivo e io ho accettato quella responsabilità».

In quel periodo, agosto 2013, lei disse: «In questi mesi di governo ho lavorato con il Pdl e ho visto una classe dirigente di prima qualità». Chi era di prima qualità, tra i membri berlusconiani di quel governo, perché gliene cito alcuni: Alfano? Quagliariello? Micaela Biancofiore? Lupi? La previtiana Jole Santelli?

«No, non mi riferivo alle persone che lei ha citato. Ma al viceministro e al sottosegretario con cui collaboravo al ministero».

Ma ritiene che ci sia una coerenza nell’attaccare il Pd perché ha preso Verdini nella maggioranza mentre lei ha addirittura governato nello stesso esecutivo con i berlusconiani e i previtiani?

«Allora non c’era alternativa per fare il governo: si doveva prendere il pacchetto, non c’era scelta. Adesso invece è una scelta politica, stare con Verdini: non una necessità. La differenza è enorme».

Le mostro una fotografia che circola molto in rete.

fassina-brunetta

È una doppia pagina di Panorama in cui lei, quando era viceministro, posava su un divano con Renato Brunetta. E nell’intervista, dicendosi molto d’accordo con Brunetta su diversi temi, aggiungeva: «È maturata in questi anni col Pdl una valutazione condivisa. Una straordinaria possibilità di dialogo fra di noi”.

«Sì, gira quella foto, lo so. Non è che me ne vergogno. È stata raccontata chissà quale intesa sotto banco, mentre io penso che si possano avere rapporti di rispetto e di dialogo anche con gli avversari. Con Brunetta poi avevamo anche dei punti d’accordo, ad esempio sui disastri dell’austerità nell’eurozona».

Nell’agosto 2013, quando Berlusconi venne condannato in via definitiva per frode fiscale, falso in bilancio e appropriazione indebita, lei disse: «Non voglio la rottura, non voglio lo scontro. Non ho mai pensato a Silvio Berlusconi come un nemico. C’è rispetto per la sofferenza politica di un partito e del suo leader».

«Non sono stato mai antiberlusconiano, anzi nella mia vita pubblica non mi sono mai definito anti nessuno: preferisco le battaglie propositive. Dopodiché è oggettivo che il Pdl con Berlusconi ha rappresentato venti milioni di italiani. Nel momento in cui viene inibito dalla vita politica il leader di milioni di persone è un fatto politico. Questo intendevo dire».

Quando il Pd vinse le europee con il 40,3 per cento lei era ancora un dirigente di quel partito e commentò: «Vedere quel 4 è stata un’apparizione! Un sentimento di stupore, d’incredulità. Renzi ha dimostrato grandi qualità: è l’uomo giusto al posto giusto. Matteo ha capito più e meglio di noi la fine di una stagione, intuendo che stava avvenendo un passaggio d’epoca: è un grande merito». Caspita, che entusiasmo per Renzi, solo due anni fa.

«Può darsi che entusiasmarsi in quel modo sia stato un errore. Chi mi vuole bene mi rimprovera speso un eccesso di sentimento anche quando ne sarebbe necessario un po’ meno. Però vedere quel risultato, a fronte del 25 per cento di un anno prima, mi ha dato un’emozione positiva, lo ammetto. E il fatto che lo avesse conquistato Renzi non era motivo sufficiente per depotenziare la soddisfazione».

Forse, se posso, lei non aveva capito che quel 40 e rotti poi sarebbe stato usato come clava per fare il Jobs Act, l’Italicum la riforma Boschi etc…

«Esatto. Pensavo che ci fosse maggiore senso di responsabilità e più comprensione che quel 40 per cento era fatto da uomini e donne che avevano sperato in un’affermazione di idealità, valori e programmi di sinistra. Oggi ritengo che quel capitale sia stato tradito, altrimenti non sarei andato via dal Pd».

Nel dicembre scorso, quando lei era già uscito dal Pd ed era appena nata Sinistra Italiana, a Milano la neonata Sinistra italiana prese parte alle primarie del centrosinistra. Lei disse: “Nel momento in cui si partecipa alle primarie, valgono i principi che le reggono e si rispetta l’esito delle consultazioni, anche a Milano, se dovesse vincere Giuseppe Sala”. Quindi ora a Milano lei voterebbe per Sala giusto?

«No. Io no perché ero contrario alla partecipazione di Sel alle primarie del centrosinistra a Milano. E quella frase voleva essere proprio un modo per mettere i guardia Sel da quello che poi è avvenuto, cioè lo scenario Sala. Che è uomo inadeguato a rappresentare il patrimonio della giunta Pisapia. Io a Milano sto con Basilio Rizzo».

Per l’ultima domanda però torniamo a Roma: oltre quale risultato percentuale al primo turno ritiene di poter dire che sia andata bene, che è stato un successo?

«Intanto mi lasci dire che la nostra vera scommessa non è tanto quella di strappare voti ad altri partiti o candidati, ma quella di conquistare la fiducia dei tantissimi astensionisti, delle persone che stanno fuori, che sono sfiduciate».

Quindi?

«Il nostro obiettivo non è certo il risultato classico della sinistra di rappresentanza, cioè il solito 4-5».

Quindi?

«Abbiamo la potenzialità di un risultato sorprendente. E sa quando me ne son accorto? Quando ci avevano escluso le liste. E tantissime persone che prima ci ignoravano o sembravano snobbarci, ci hanno detto che senza di noi non avrebbero saputo chi votare».

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