Il Papa, l’Egitto, l’Islam moderato e la memoria corta

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Franco Cardini
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di Franco Cardini – 1 maggio 2017

La recente visita del papa in Egitto non è stata affatto – al contrario di come in troppi hanno detto e scritto –  una “legittimazione” o addirittura una “benedizione” al regime di al-Sisi che viola i diritti umani e che ci nasconde ancora la verità sulla morte del nostro Regeni. Non avrebbe comunque senso rimproverare a Francesco quel che i nostri governi sono i primi a fare: al-Sisi è difatti uno dei principali “nostri” amici nel Vicino Oriente, alleato degli USA e della NATO; quanto al violare i diritti umani, chiedetene notizia all’ex presidente  Obama – premio Nobel per la pace – che anni fa, all’inizio del suo mandato, aveva formulato la promessa clamorosamente mai mantenuta  della chiusura del carcere illegale di Guantanamo; chiedetene al suo successore Trump che continua a tenere aperto quell’infame Lager  alla faccia del diritto internazionale; e magari, già che si siete,  chiedete al governo di Washington quante e quali onorificenze e promozioni abbia esso elargito agli assassini del Cermis dei quali gli italiani – a cominciare dai fieri  “sovranisti” – si sono dimenticati.

Né la visita del papa in Egitto è stata la manifestazione dell’accordo tra la Chiesa cattolica e l’Islam moderato rappresentato dalla madrasa di al-Azhar per ribadire insieme  l’indignazione del mondo civile in seguito agli attentati contro le chiese copte egiziane. Che la gloriosa Chiesa copta d’Egitto sia un vanto e una risorsa per la nazione egiziana lo sanno perfettamente tutti gli egiziani (è stato proprio lo sheykh di al-Azhar  a salutare con gioia alcune settimane or sono il ritorno da parte del governo al-Sisi alla legislazione nasseriana riguardante l’assenza sulla carta d’identità dei cittadini di quel paese della menzione della confessione religiosa: tutti i cittadini egiziani – ha ribadito il capo dell’istituzione teologico-canonica più autorevole del paese – sono anzitutto, appunto, egiziani: poi, possono essere musulmani, cristiani o quel che altro vogliono. Che poi i cristiani siano perseguitati in Egitto è una solennissima balla: la Chiesa copta (cioè monofisita, al pari di quella etiope) esiste in quel paese dal IV secolo mentre i musulmani vi sono arrivati solo nel VII e la convivenza tra gli uni e gli altri, a parte rari e circoscritti incidenti, è sempre stata esemplare.

Né il papa e al-Azhar hanno inteso esprimere insieme una condanna nei confronti dei wahhabiti, la sètta dalla quale nasce il terrorismo islamista: né l’uno né l’altra hanno aspettato oggi per farlo. L’Egitto combatte i wahhabiti dai tempi del khedivé Ibrahim Pasha, vale a dire dal secolo XIX quando quella sètta, ancora pochissimo diffusa, era attiva tra Arabia e Yemen ed era stata fondata solo da pochi decenni. L’attuale pericolosità dei wahhabiti è data dal rapporto tra la sètta e ambienti molto vicini al trono dell’Arabia saudita, una delle principali alleate dell’Occidente e della NATO; da lì nasce l’appoggio e il finanziamento ai guerriglieri terroristi, vale a dire da un paese retto da una dinastia che fu insediata nella penisola arabica un secolo fa soprattutto dalla volontà di Sua Maestà Britannica.

Infatti, la penisola arabica avrebbe dovuto esser dominata, una volta distrutto l’impero ottomano, da un sovrano arabo che le potenze liberali avevano identificato in un autorevole principe delle tribù arabe beduine, capo della famiglia hashemita, lo sharif Hussein, ch’era il custode dei Luoghi Santi musulmani della Mecca e di Medina e pertanto il più autorevole personaggio dell’Islam sunnita dopo il sultano d’Istanbul che rivestiva anche la dignità califfale. Solo Hussein aveva l’autorità sufficiente da indurre gli arabi a tradire il sultano-califfo: non certo il nuovo ideale di patria-nazione, che la cultura occidentale aveva peraltro seminato sistematicamente in tutto il mondo musulmano da oltre un secolo (la parola araba watan, “patria”, “nazione”, è in effetti un neologismo). A Hussein  i governi francese e britannico avevano promesso, alla fine del conflitto, il trono di una nuova nazione araba unita dal Mar di Levante al corso del fiume Tigri e al Golfo di Aden. Hussein era un sincero ammiratore della civiltà Liberale dell’Occidente e sognava di governare un paese avviato al progresso e caratterizzato da istituzioni democratico-parlamentari sul modello dell’impero britannico dell’India, con una copia della Camera dei Lords nella quale avrebbero seduto emiri e  sceicchi e una copia della Camera dei Comuni membri della quale sarebbero stati i protagonisti dell’imprenditoria, della finanza, del commercio e delle attività liberali (quindi il ceto diciamo così “protoborghese”, già molto occidentalizzato) delle grandi città arabe quali Aleppo, Damasco e Baghdad): quell’Arabia avviata a prendere il suo posto nel consesso delle nazioni moderne avrebbe dovuto, nei disegni di Hussein, chiedere di poter essere addirittura ammessa al Commonwealth. Ma inglesi e francesi avevano altre mire: fedeli alla vecchia concezione colonialistica (soltanto un ventennio più tardi, dinanzi alle ambizioni italiane sull’Etiopia, si resero conto e si affrettarono a proclamare ch’essa aveva ormai fatto il suo tempo), con il patto segreto Sykes-Picot si erano spartiti il territorio che avrebbe dovuto costituire il nuovo regno arabo secondo una linea approssimativamente tirata in senso longitudinario grosso modo  tra Haifa e Baghdad.

Hussein era stato costretto a stare al gioco anche dopo che –  grazie al governo sovietico che aveva trovato una copia dell’iniquo patto segreto negli archivi dello zar – la malefatta anglofrancese era stata rivelata al mondo:  come premio di consolazione per aver sottostato all’inganno egli ricevette un piccolo regno per sé in Hijaz e uno ciascuno per i suoi figli: Faysal in Iraq, Abdullah in Transgiordania (per Gerusalemme e la Cisgiordania si profilava, sulla base della “dichiarazione Balfour”, un diverso assetto che avrebbe dovuto tener conto del national home promesso al movimento sionista in cambio della contropromessa dell’abbandono della causa del Kaiser di Germania da parte dei finanzieri e degli imprenditori ebraicotedeschi che, fin lì, l’avevano patriotticamente ed entusiasticamente sostenuta durante il conflitto).

Gli inglesi, ormai “protettori” dell’area meridionale del mondo arabo, erano convinti di avere in  Hussein  un interlocutore flessibile  per pagare meno care possibile le royalties  che avrebbero loro consentito di sfruttare legittimamente sul piano del diritto internazionale la nuova straordinaria ricchezza frattanto rinvenuta in tutta quell’area: il petrolio. Ma, da buon ammiratore dell’Occidente, Hussein era perfettamente consapevole (sia pur quanto si poteva esserne un secolo fa) dell’immenso valore obiettivo dell’”oro nero”: e, per concederne i diritti di estrazione, raffinamento e commercializzazione nel suo  regno del Hijaz ch’era stato del resto appositamente creato  (allo stesso modo oggi l’ONU tiene in piedi in Libia un governo-fantoccio che nessuno considera, ma che sul piano della legittimità internazionale formale è in grado di assicurare alle multinazionali tutti i benefici che esse desiderano, derubando la ricchezza del popolo libico: poi ci si meraviglia se i gruppi terroristici raccolgono sempre più simpatìe…) esigeva royalties, ben più consistenti di quelle che gli erano state offerte. Gli inglesi non batterono ciglio: al fine di ottenere quanto volevano senza troppo allargare i cordoni della loro borsa, favorirono la detronizzazione di Hussein e l’instaurazione al posto del suo regno di quello della famiglia saudita, la protettrice del wahhabismo. In tal mondo si ponevano le basi per un problema nuovo, che si sarebbe manifestato più o meno mezzo secolo più tardi, vale a dire mezzo secolo fa: il fondamentalismo di segno salafita-wahhabita, che da al-Qaeda al Daesh turba oggi i sonni dell’Occidente per quanto il suo autentico scopo non sia la lotta contro di esso bensì la fitna, la lotta dell’estremismo sunnita contro l’Islam sciita e il potere politico che lo sorregge, l’Iran.

Al-Sisi non ama certo né l’Arabia saudita, né i wahhabiti: ma si trova con loro e con il vicino-rivale emirato del Qatar (e con Israele; e anche con la Turchia di Erdoğan; e naturalmente con la NATO) dalla stessa parte, che da un lato dovrebbe distruggere il “califfo” al-Baghdadi e quel che resta del suo “califfato”, e combatterne le estroflessioni terroristiche in Europa, dall’altro preferisce colpire gli sciiti dalla Siria allo Yemen). Il papa sa perfettamente che anche il regime egiziano, con le sue alleanze internazionali accettate o meno obtorto collo,  finisce con lo stare obiettivamente al fianco di chi sostiene e minaccia i terroristi di Daesh. Egli non tollera nel suo paese i “Fratelli Musulmani”, che nei loro confronti hanno pur blande e contraddittorie simpatìe; ma sul piano internazionale è parte del grande intenzionale equivoco in forza del quale quelle potenze che dichiarano di combattere il fondamentalismo terrorista ne  sono invece direttamente o meno, coscientemente o meno, il supporto.

Il papa, dicevo, queste cose le conosce benissimo per quanto nemmeno lui possa dirle: ma si reca nel paese più “laico” e ormai “filoccidentale” del mondo arabo (i governi tunisini e algerini sono senza dubbio “laici”, ma non “filoccidentali” con altrettanta certezza;  e dal canto suo il reis turco, nella recente ridefinizione della sua politica, non si sa ancora quanto sia l’una e l’altra di queste due cose) per ribadire che cristianesimo e Islam, nella loro sostanza profonda, non solo sono concordi nell’opporsi alla completa desacralizzazione del mondo, ma anche per sostenere quella vera pace che solo si raggiunge attraverso la giustizia. E la giustizia, oggi, sta nella soluzione del vero, primo, grande unico problema del mondo: la fine della spaventosa sperequazione che sta dividendo l’umanità in un numero sempre minore di privilegiati ricchissimi e in una massa sempre più enorme di diseredati o di masse sulla strada dell’impoverimento. E’ dalla disperazione dei poveri – uno dei sintomi più evidenti ed eloquenti della quale è l’esodo sempre più massiccio dal continente africano – che dipendono tutti i mali che stiamo subendo e che ci preoccupano, ma che a loro volta (per terribili che siano) non sono il vero male, la radice di esso, bensì ne sono dei sintomi: a cominciare dal terrorismo, che del malessere e della rivolta contro l’ingiustizia si nutre per quanto chi ne accetta il messaggio e i metodi è quasi sempre lontanissimo dal rendersene conto. Francesco non desidera che l’Islam si converta alla “moderazione”, cioè a collaborare in funzione subordinata con l’Occidente del profitto e del consumo: vuole che cristiani e musulmani, insieme, si risveglino attraverso la misericordia nella lotta contro l’ingiustizia. Perché solo la giustizia garantisce la vera Pace. E’ questo che Agostino intende quando definisce la Pax come tranquillitas ordinis.

Sono tornato più volte su questi problemi nelle varie puntate settimanali dei Minima Cardiniana. Molti mi scrivono tuttavia per e-mail chiedendomi ragguagli bibliografici atti ad approfondirli ma dichiarandosi al tempo stesso indisponibili a letture scientifiche troppo “pesanti”. Cari Amici, per capir qualcosa un certo sforzo va sempre fatto. Comunque, eccovi una traccia semplicissima. Anzitutto un libretto di un’ottantina di pagine scritto per gli studenti medi, lineare ma sconvolgente nella sua semplicità: Terence Ward, Per capre oggi il Medio Oriente. L’ISIS spiegata ai giovani, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 2017. Poi una sintesi fondamentale redatta da un giornalista colto, uno che sui teatri di guerra ci va davvero: Alberto Negri, Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del medio Oriente, Torino, Rosenberg & Sellier, 2017. Infine un vademecum ricco di cartine e di bibliografia, eccellente viatico per approfondimenti di tipo anche scientifico: Pierre Blanc – Jean-Paul Chagnollaud, L’invention tragique du Moyen-Orient, Paris, Autrement, 2017. In tutto, circa 250 pagine: si leggono bene in una settimana. Se ce la fate, raccogliete notizie sufficienti a non farvi più fregare dai media. Scoprirete così quante balle ci raccontano sui giornali e in TV e comincerete a chiedevi perfino se sia ovvio, giusto e naturale per noi restare nella NATO e se sia davvero un bene che fra una settimana in Francia sia eletto presidente quel Macron il quale promette fuoco e fulmini contro i gas di Assad: che più o meno sono reali quanto lo erano una quindicina di anni fa le “terribili armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein a proposito delle quali il tristo Bush jr. obbligò Colin Powell, ch’era pur stato un soldato d’onore, alla peggior figuraccia della sua vita dinanzi al consesso dell’ONU. Non ce la ricordiamo più, quella pagina vergognosa e indecorosa? Peccato: è per questo che continuano a fregarci. Abbiamo la memoria corta.

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