Fonte: il Corriere della Sera
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il giornalista: dai comunisti guerra agli altri partigiani. Nel nuovo libro («Uccidete il comandante Bianco») il racconto della vita di Bisagno
Giampaolo Pansa, chi è il «comandante bianco», Aldo Gastaldi, nome di battaglia Bisagno, cui lei dedica il suo nuovo libro?
«Era un eroe. L’unico comandante partigiano non comunista della terza divisione Cichero, la più importante della Liguria. Morto in circostanze misteriose subito dopo la fine della guerra. Sono convinto che sia stato assassinato».
Come lo descriverebbe ai lettori del Corriere?
«Un Gesù Cristo con il fucile. Profondamente cattolico. Mi ha raccontato un testimone che ogni settimana spariva nella notte della Val Trebbia. Prendeva la sua motocicletta, andava da un parroco, picchiava con le dita sul vetro della canonica per farsi riconoscere, si confessava, riceveva la comunione. Talora assisteva alla messa. Poi tornava dai suoi uomini. Quando è morto, a 24 anni, era ancora vergine».
Perché?
«Per lui un buon cattolico non doveva avere rapporti prima del matrimonio. Come disse Amino Pizzorno, nome di battaglia Attilio, capo del Sip, il delicatissimo Servizio informazioni e polizia: “Il nostro commissario politico, Miro, andrebbe da solo nella Genova occupata dai nazisti per scoparsi una ragazza; e il nostro comandante militare ha fatto il voto di castità”».
Miro si chiamava in realtà Anton Ukman.
«Un nome che suona come una fucilata».
Lei nel libro ipotizza che Miro avesse avvertito Bisagno, a mezze parole, del pericolo che correva a causa dei suoi compagni comunisti.
«È possibile che l’abbia fatto davvero. Anche Miro sognava la rivoluzione e la dittatura del proletariato; ma disprezzava i capi comunisti di Genova, li considerava burocrati, mentre lui era un combattente vero, duro».
Perché i comunisti volevano uccidere Bisagno?
«Non era un docile strumento nelle loro mani, come l’avrebbero voluto. E aveva proposto l’abolizione dei commissari politici. Tentarono in ogni modo di farlo fuori. Prima il comando della Sesta divisione ligure cercò di sottrargli la guida della sua divisione. Poi gli ordinarono di lasciare il suo territorio, dove aveva salvato 1.200 uomini dai terribili rastrellamenti dell’“inverno dei mongoli”, i caucasici al servizio dei nazisti, e di andare in esilio in un’altra valle. Lui però si presentò all’incontro accompagnato da trenta facce da patibolo, armate di mitragliatori, e i comunisti non la sentirono di insistere. Ma ormai gliel’avevano giurata».
Bisagno tentò di fermare le vendette dopo il 25 aprile.
«A Genova il sangue dei vinti corse a fiumi: oltre 800 morti. Molti non avevano mai toccato un’arma. Si racconta, ma non ci sono conferme, che i fascisti venissero gettati negli altoforni ancora vivi. Bisagno non poteva tollerare questo. “Ci vuole più coraggio a uccidere che a essere uccisi” diceva. Infatti propose di sostituire la polizia partigiana con la polizia militare Usa».
Da qui la sua fama di amico degli americani.
«Bisagno aveva legato con loro. Era stato invitato in America a insegnare la guerriglia. Un motivo in più per farlo fuori. Sono convinto che dietro il finto incidente stradale in cui morì si nasconda un delitto».
Come andò?
«Bisagno aveva promesso a un gruppo di alpini della Monterosa, che avevano disertato per unirsi a lui, di riportarli a casa, sul Garda. Fu di parola. Partì da Genova il 20 maggio 1945 con un autocarro Fiat 666 e una grossa camionetta Volkswagen. C’erano due suoi partigiani più l’autista; ma forse c’era anche un quarto uomo mai identificato. Bisagno dormì a Riva del Garda. Il giorno dopo, sulla via del ritorno, cominciò a comportarsi in modo strano».
Cosa fece?
«Aprì la borsa con i documenti riservati che portava sempre con sé, e li distribuì. Poi cominciò a regalare banconote: una follia per un ligure sparagnino come lui. Infine salì sul tettuccio del camion: una scelta assurda, pericolosissima. Quando l’autista sterzò per evitare una colonna di prigionieri tedeschi, Bisagno fu sbalzato e schiacciato da un camion. Morì all’ospedale di Desenzano. L’autopsia non fu mai fatta».
Cos’era accaduto, secondo lei?
«Qualcuno sostiene che sia stato avvelenato, che quando cadde stesse già morendo. Io penso che sia stato drogato, in modo da provocare l’incidente. Ma alla radice di tutto c’è un problema più generale».
Quale?
«La storia della Resistenza come la conosciamo è quasi del tutto falsa; e va riscritta da cima a fondo. Gli storici professionali ci hanno mentito. Settantatré anni dopo, è necessario essere schietti: molte pagine del racconto che viene ritenuto veritiero in realtà non lo è. Le guerre civili furono due. Oltre a quella contro i nazifascisti, ci fu la guerra condotta dai comunisti contro chi non la pensava come loro».
Non dobbiamo avere paura della verità. Resto convinto che la Resistenza non appartenga a una fazione, neppure a quella che ne ha sequestrato la memoria nel dopoguerra, ma alla nazione.
«Leggo sempre con interesse quello che lei scrive sulla Resistenza. Ma la penso diversamente. Lei dà una lettura delle nostra guerra civile che a me sembra troppo generosa. Troppo buonista. Come succede in tutte le guerre civili, anche in Italia il conflitto del 1943-1945 è stato feroce e senza riguardi per nessuno. Non sto parlando dei tedeschi e dei fascisti, avversari destinati a soccombere. Parlo della guerra all’interno dello schieramento antifascista, dominato dall’unico partito che si era sempre opposto al regime di Mussolini: il partito comunista».
Molti partigiani non erano comunisti.
«Gli altri partiti non esistevano, a cominciare dai moderati. Stavano nei Comitati di liberazione, ma non contavano nulla. Invece i comandanti partigiani non comunisti contavano e spesso molto. Ma quando iniziavano a opporsi alla supremazia del Pci contavano sempre di meno. C’erano eccezioni: Mauri in Piemonte, Bisagno in Liguria. Ma è proprio la figura di Bisagno che ci aiuta a comprendere l’asprezza del confronto interno al fronte antifascista. Finché Bisagno si è occupato della guerriglia, non ha mai incontrato ostacoli. Quando ha iniziato a essere troppo forte e a fare politica, per lui sono cominciati i guai».
La Resistenza non fu fatta solo dai partigiani, ma dai civili. Dalle donne, dagli ebrei, dai carabinieri, dai militari che combatterono accanto agli Alleati, dagli internati militari in Germania che preferirono restare nei lager piuttosto che andare a Salò.
«Ma la maggioranza degli italiani voleva solo che passasse la bufera per dedicarsi agli affari propri; e questa è la radice stessa del fascismo. Sa qual è la differenza tra me e lei? Che io ho una visione molto più pessimista dell’Italia. Appena assunto alla Stampa, nell’estate 1961, il vicedirettore Casalegno mi mandò a intervistare Saragat, che mi disse: “Governare gli italiani non è difficile; è inutile”. Prima di lui l’aveva già detto Mussolini».
Che effetto le fa oggi l’allarme antifascista?
«Sono fesserie. Oggi il vero dramma è che abbiamo una classe politica incompetente e pericolosa. Per questo stavolta non andrò a votare. Sono preoccupato per chi ha figli. Io il mio l’ho perso tre mesi fa, per un infarto, a 55 anni. Solo l’amore per Adele mi ha impedito di uccidermi».
Lei disse che la Resistenza è la sua patria morale.
«Lo dico ancora. Ma non la Resistenza di chi voleva una dittatura agli ordini di Mosca».
Nel ’43 lei aveva solo otto anni. Se ne avesse avuti dieci in più, cos’avrebbe fatto?
«Mia madre Giovanna mi diceva in piemontese: “Giampaolo, tu sei un volontario”. Sarei andato con i partigiani. Ma rispetto chi in buona fede fece un’altra scelta. E non ho bisogno di patenti per scrivere i miei libri revisionisti. Avessi più tempo davanti a me, riscriverei la storia della Resistenza. Tocca ai giovani storici farlo. Cosa aspettano?».