PANCHINE. COME USCIRE DAL MONDO SENZA USCIRNE – DI BEPPE SEBASTE ed. LATERZA
da www.laterza.it
un estratto del libro:
Lo si sarà capito, ma lo dico lo stesso: io sono uno di quelli che si siedono sulle panchine. Non solo nei belvedere o sui poggi panoramici, di fronte a un lago o sul lungomare, ma anche nei parchi, nei giardinetti, nelle piazze, nei viali, negli interstizi tra le case, negli angoli, in centro, in periferia, alle fermate dell’autobus senza salire sull’autobus, e anche sotto casa. Ovunque. Potreste avermi visto, magari di sottecchi. O più probabilmente avete evitato di guardarmi: perché nelle nostre città, da qualche tempo, chi si siede su una panchina non è più soltanto anonimo, diventa invisibile.
Lo scrittore Luciano Bianciardi raccontò che nella Milano dei primi anni Sessanta, quella del boom economico, fu arrestato per strada perché camminava troppo lentamente, perché «strascicava i piedi». Ben prima che fosse detta «da bere», a Milano Bianciardi vedeva «la gente che corre, che si dibatte, che ti ignora, che deve arrivare», e che per di più «si sentono privilegiati». Oggi stare in panchina è un’anomalia sociale più grave se chi si siede si sottrae non solo alle regole non scritte della produttività e dell’efficienza, ma anche allo sguardo degli altri. Se non si è anziani, donne incinte o con carrozzina, se si è maschi o femmine adulti, chi sta seduto su una panchina è poco raccomandabile. Nel migliore dei casi è un disoccupato, uno sfaccendato, vita di riserva da ignorare.
Per molti, che a stare seduti su una panchina provano imbarazzo, è l’immagine della provvisorietà, della precarietà, forse del declino. Stare in panchina, nel lessico attuale, è il contrario dello scendere in campo. Ma la panchina è l’ultimo simbolo di qualcosa che non si compra, di un modo gratuito di trascorrere il tempo e di mostrarsi in pubblico, di abitare la città e lo spazio. La panchina è un luogo di sosta, un’utopia realizzata. È il margine sopraelevato della realtà, vacanza a portata di mano. È anche il posto ideale per osservare quello che accade. Non è necessario che sia sullo Stelvio o sulla Promenade des Anglais – anche se è bello vedere di schiena qualcuno seduto sulla panchina con lo sfondo delle montagne o del mare. O dei grattacieli di New York. È sufficiente la bellezza del sedersi su una panchina in città e guardare una strada o una piazza. Guardare la gente che si muove, che vive. Guardare l’autobus che passa, guardare i piccioni, guardare le nuvole sopra la testa. Lo scrittore francese Georges Perec lo ha fatto per interi pomeriggi, seduto a Parigi in place Saint-Sulpice, negli anni Settanta. Le pagine che riportano le sue osservazioni (Tentativo di esaurire un luogo parigino) sono una lezione di scrittura e di felicità mentale. Un lavoro di accettazione di sé e del mondo, di semplificazione dello sguardo: «sforzarsi di guardare più piattamente». Insegnano fra l’altro che, ovunque si trovi, la panchina è per chi si siede il centro dell’universo.
Sulle panchine si contempla dunque lo spettacolo del mondo, si guarda senza essere visti e ci si dà il tempo di perdere il tempo, come leggere un romanzo. Ecco alcuni dei non piccoli piaceri del sedersi su una panchina. Infine, è molto semplice: le panchine sono i posti in cui si siede la gente, proprio come le periferie – su cui si sono stratificate tante chiacchiere di esperti – non sono altro che i luoghi in cui abita la gente. Le mie preferite sono quelle verdi a onda di una volta, di legno, in via di estinzione. Ma tutte le panchine sembrano oggi in via di estinzione. Come se la loro gratuità (la loro grazia) nel nuovo orizzonte del welfare fosse assolutamente da bandire.
da Il Corriere della Sera La vita in panchina
«Oggi stare in panchina è un’anomalia sociale. Per molti, che a stare in panchina provano imbarazzo, questa è l’immagine della provvisorietà, della precarietà, forse del declino. Stare in panchina, nel lessico attuale, è il contrario di scendere in campo […]Le mie preferite sono quelle verdi a onda di una volta, di legno, in via di estinzione. Ma tutte le panchine sembrano oggi in via di estinzione. Come se la loro gratuità (la loro grazia) nel nuovo orizzonte del welfare fosse assolutamente da bandire».
Dopo una citazione come questa, non stupisce che l’ultimo libro di Beppe Sebaste, pubblicato da Laterza, si intitoli «Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne». Tra vita e letteratura, tra biografia e bibliografia, Sebaste rievoca le panchine di mezzo mondo, da Mosca a Zagarolo (come suona il titolo di un capitolo), dall’Austria di Thomas Bernhard e gli Stati Uniti di Paul Auster, ma con una particolare predilezione per Ginevra e Parigi. Eppure, in un libro così cosmopolita, anche Roma occupa una posizione privilegiata, con un susseguirsi di apparizioni spesso sorprendenti. Nato a Parma, trapiantato in Svizzera, l’autore si era già interessato della nostra capitale con il racconto «Roma. Sulle barricate di Tor Fiscale» (nel volume «Periferie», curato da Stefania Scateni sempre da Laterza). «Panchine» segna dunque un approfondimento e un ritorno, suggerendo una serie di variazioni sul tema.
Arricchito da alcune minuscole fotografie (quasi un omaggio all’uso delle immagini praticato dallo scrittore tedesco Winfried G. Sebald), il testo si apre con un ricordo delle panchine di Villa Borghese, Villa Sciarra, Villa Pamphili, Villa Torlonia, via Casilina Vecchia e piazza Cairoli, talvolta rievocate nei più minuti dettagli. E’ il caso di quella, oggi scomparsa, che un tempo si trovava sulla sommità della Scale del Tamburino, in cima a via Dandolo. Un’altra zona prediletta riguarda il Cimitero degli Inglesi al Testaccio, detto Cimitero dei poeti o Cimitero Acattolico, accanto alle tombe di John Keats, Gregory Corso e Amelia Rosselli, ma vengono menzionati anche gli accoglienti sedili di via della Magliana, «semiperiferia romana non priva di dolcezza, dove si siedono anziani e immigrati».
Altrettanto appassionata è la scoperta di Ostia, di cui il libro trasmette il fascino discreto che emana dai nomi ammaliatori di certe strade: «Le panchine incantatrici — molte di legno, altre di marmo — di piazza Calipso, in fondo a via delle Oceanine, vicino a via delle Sirene, dopo via delle Nereidi e via delle Meduse». Ma Ostia è anche la città delle villette a schiera, dove qualche anno fa venne girata la fortunata fiction «Un medico in famiglia». Così Sebaste sperimenta una panchina dentro un residence privato, prima di trasferirsi sul suo esemplare preferito, quello accanto ai binari nella piccola stazione ferroviaria, dove «l’aria è saporita e la luce brilla più che altrove».
Che dire, poi, delle lunghe soste al Giardino degli Aranci sull’Aventino, all’Orto Botanico o a piazza San Cosimato? Curioso, leggero e meditativo, il libro esprime perfettamente lo spirito della collana di Laterza presso cui è apparso, intitolata appunto «Contromano». Infatti, quella che emerge dalle sue pagine, è davvero una Roma inversa e inattesa. Forse perciò l’incontro più felice avviene alle pendici del Gianicolo, quando il protagonista riflette sul dio latino che diede nome al monte. Dio dei solstizi e degli equinozi, dio degli inizi e delle iniziazioni, Giano gli appare come una sorta di nume buddista delle «porte senza porte», un dio dell’illuminazione capace di dissolvere i dualismi. Visto dalle panchine, colto nelle sue pause, il mondo appare diverso. E’ questa la lezione di Sebaste, una lezione di prospettiva, che ci insegna a guardare il reale sotto un’angolatura defilata e sospesa.
Valerio Magrelli
da La Repubblica Il mondo visto da una panchina
Il giro del mondo in (più) di 80 panchine. Si potrebbe riassumere così il contenuto, ricco e intrigante (e dotato di carica civile), del nuovo libro dello scrittore parmigiano (e collaboratore di Repubblica, del Venerdì, e di altre testate) Beppe Sebaste. Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne (Laterza) è un libro-meditazione e un manifesto dell’otium, che arriva nel momento in cui i furori sicuritari percorrono questo nostro, a volte sciagurato, Paese e scuotono l’età liquida in cui viviamo. Ed ecco che le riflessioni di Sebaste (quale luogo migliore, infatti, di una panchina per meditare) ci invitano a prenderci il tempo di osservare la società a partire da uno degli spazi residui, non a caso sotto assedio, da cui potrebbero nascere forme di socialità casuali e, come tutte le cose inattese, «benedette».
Sebaste delinea una geografia urbana delle città, una geografia umana dei fruitori e degli utenti delle panchine e una topografia dell’anima. E lo fa utilizzando come «bussola» questo utensile gentile che è la panchina, pensata per i più deboli, che ne vengono troppe volte espropriati, dai prepotenti o, talora, persino dalle Amministrazioni, come in alcune città del Nord est che hanno deciso di individuare nell’incolpevole panca il capro espiatorio da sacrificare al Moloch (divinità davvero pagana) della sicurezza. Mentre alcuni Comuni emiliani, come Reggio Emilia, le moltiplicano, come ci racconta l’autore, riferendo di una passeggiata con un dirigente dell’Amministrazione locale, impegnata in una complicata battaglia per far vincere la «città pubblica» sull’«individualismo delle villette» (e sull’edilizia dei geometri e l’ottuso e stolido impero del mattone, non di rado infiltrato dalla malavita, che ha sfigurato e ferito la nostra piatta ma bella regione).
E poi le panchine di Parma, la città ducale, di Modena, e quelle della ricchissima e sciccosissima Ginevra, che dell’arredo urbano ha fatto da sempre il suo punto di forza (anche grazie alle «montagne di lingotti d’oro, stipati sotto il suolo dalle banche», come scrive Sebaste). E le panchine di Roma, sulle quali amava abbandonarsi uno dei profeti della beat generation, il Gregory Corso di Bomb. E, ancora, le panchine di Linosa, di San Terenzo in Liguria, del litorale laziale, della superba Mosca e quelle, che meritano un capitolo apposito, di Parigi. E c’è una panchina vicino alla tomba di Rainer Maria Rilke, nel prato vicino alla chiesa svizzera di Raron, un metaforico incontro, chissà, tra il poeta di lingua tedesca dalle straordinarie e irraggiungibili vette liriche e il bisogno, umanissimo, di ricercare un po’ di sosta e di quiete. Panchine per riposare, meditare, leggere; panchine per continuare a vivere.
Un libro di letteratura (piacevole come molti titoli della collana Contromano di Laterza, cui appartiene), che è anche un elogio della tolleranza e del multi-culturalismo nella giusta accezione che, naturalmente, non è lassismo, ma è capacità di far convivere, rispettando le regole, persone e individui portatori di visioni del mondo diverse. Un libro gentile e civile e quindi, anche, delicatamente politico. Perché la politica comincia proprio da come ci si mette a sedere, insieme, su una panchina…
Massimiliano Panarari