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di Luca Billi 15 giugno 2016
Io e mia moglie non siamo ricchi, siamo due lavoratori dipendenti “normali”. Ma siccome, purtroppo, in questo sfortunato paese essere normali è ormai una fortuna, io e mia moglie possiamo considerarci due persone fortunate. Grazie ai nostri risparmi e a qualche sopportabile attenzione nelle spese – non uso volutamente la parola sacrifici, perché quelli li hanno fatti i nostri genitori, e quindi è una parola che noi non abbiamo neppure il diritto di usare – abbiamo potuto acquistare la casa in cui viviamo, su cui ovviamente grava un’ipoteca, perché abbiamo acceso un mutuo. Quindi ne diventeremo proprietari a tutti gli effetti tra diversi anni.
Forse non sarebbe stato neppure necessario diventare proprietari, visto che non abbiamo figli a cui pensare; diciamo che è stata una scelta di sicurezza, probabilmente derivata dal fatto che veniamo da famiglie di origine contadina, che quindi danno un particolare valore alla proprietà, valore che noi abbiamo in qualche modo interiorizzato. In questa parola c’è la radice dell’avverbio latino prope, che significa vicino, e infatti noi sentiamo che è nostra questa casa perché ci è così vicina, perché ci ripara, perché è il luogo dove torniamo ogni sera. Per questo ci è parso importante possederla, diventarne proprietari, consapevoli che su questa proprietà avremmo dovuto pagare una tassa.
Invece da quest’anno mia moglie e io – come molti di voi – non pagheremo più nessuna tassa su questa nostra proprietà, perché il governo ha deciso di togliere questa imposizione fiscale alle case in cui si ha la residenza, indipendentemente dal reddito del proprietario. Noi quella tassa l’avremmo potuta pagare senza troppa fatica, come abbiamo fatto negli anni precedenti. Naturalmente non fa mai piacere pagare una tassa, ma francamente non capisco perché noi due non dovremmo pagarla e anzi trovo profondamente ingiusto che chi ha una proprietà non paghi su di questa una tassa, quando è nelle condizioni per farlo. Noi godiamo di una proprietà, che magari non sarà un furto – come diceva il vecchio Proudhon – ma è qualcosa su cui dobbiamo pagare le tasse. La proprietà è anche un privilegio, è un segno di ricchezza, e in quanto tale va tassata. Sempre.
Invece in questo paese questa proprietà non viene più tassata. Il presidente-segretario ha deciso di organizzare una festa nelle piazze italiane proprio in occasione del 16 giugno, il giorno in cui fino all’anno scorso scadeva il pagamento di questa tassa, che una volta si chiamava Ici, poi si è chiamata Imu e infine Tasi. Per lui, in evidente affanno di consensi e in vista dell’appuntamento referendario di ottobre, questa è una bella occasione per farsi propaganda, perché in questo paese chi toglie una tassa riscuote sempre un notevole successo. E infatti una decisione analoga l’aveva presa anche un suo predecessore, assicurandosi un’imprevista vittoria elettorale.
Sarebbe però riduttivo considerare questa decisione solo una regalia in vista delle elezioni, come la scarpa di Lauro o come gli 80 euro. C’è un disegno in questa scelta, perché il presidente-segretario vuole spiegarci che togliere questa tassa sulla casa è stato un gesto di sinistra. Non è vero, e non solo perché lo dice Proudhon. Il problema è che in questi anni noi che abbiamo provato a rappresentare la sinistra in questo paese non siamo mai riusciti a spiegare – spesso non abbiamo neppure tentato di farlo – che la questione non è se pagare o meno una tassa sulla proprietà della casa, ma chi dovrebbe pagarla e a fronte di quali servizi.
Il problema fondamentale, sempre eluso, è definire il reddito di chi deve pagare quella tassa. Se sei povero, veramente povero, e non solo uno che mente quando compila la dichiarazione Isee, allora è giusto che quella tassa venga molto abbassata, se non addirittura annullata. Ma se te la puoi permettere, la devi pagare. Ci sono poi altre storture. Dal momento che è stata tolta la tassa sulla cosiddetta “prima casa”, ovvero sulla casa in cui si ha la residenza, i Comuni hanno alzato – spesso a sproposito – le tasse sulle altre case, che non sono sempre “seconde case”. Se una persona possiede una casa, magari ricevuta in eredità, nel paese in cui sono nati i suoi nonni in Calabria, ma poi risiede in una casa in affitto nella città del nord dove lavora, su quella casa, l’unica di sua proprietà, paga una tassa molto alta, indipendentemente dal suo reddito. E questo evidentemente non è giusto, tanto più a fronte del fatto che io quella tassa non la pago. E anche quando la casa è veramente la seconda casa che uno possiede occorre capire qual è il reddito di quella persona, perché un conto è avere un’altra casa a Portofino e un altro conto è possederla in un paesino dell’entroterra dell’Abruzzo. C’è un principio che dovrebbe essere caro alla sinistra – e che peraltro è sancito anche nell’art. 53 della nostra Costituzione – ed è quello della progressività del sistema tributario. In questi vent’anni invece abbiamo assistito all’inesorabile cancellazione di questo criterio, perché abbiamo aumentato la tassazione indiretta, che colpisce tutti, e diminuito quella diretta, che invece colpisce di più i più ricchi. E abbiamo appunto tolto la Tasi, anche a chi potrebbe permettersi di pagarla. Come me e come molti di voi che mi state leggendo.
Il secondo punto è che vorrei sapere come questi miei soldi – e in generale tutti i soldi che pago allo stato – verranno impiegati, mi piacerebbe poter capire se sono destinati a servizi, a manutenzioni, oppure se alimentano sprechi e malaffare. Dal momento che quella tassa era destinata al Comune in cui vivo, mi era un po’ più semplice capire se quei soldi venivano spesi bene o male, se venivano utilizzati per raggiungere obiettivi che anch’io considero importanti; e avrei più facilmente avuto l’opportunità, alle elezioni successive, di premiare o punire il sindaco per quello che aveva fatto o non fatto. Adesso io non contribuisco più, almeno direttamente, a pagare i servizi per la mia collettività, per quella più prossima – l’asilo nido per i figli dei miei vicini, la casa di riposo per i loro genitori, o la manutenzione della strada che faccio tutti i giorni per andare al lavoro – e mi sento un po’ più debole come cittadino. Perché è vero il principio no taxation without representation, ma vale anche il contrario: siamo meno rappresentati se paghiamo meno tasse, abbiamo meno voce.
Quando vediamo qualcuno che gongola perché non ha pagato una tassa che potrebbe pagare e per cui riceve dei servizi, proviamo a ricordargli questi principi. Quando vediamo un politico che chiede il nostro voto dicendoci che ci ha tolto una tassa, specialmente se è un politico che dice di essere di sinistra, proviamo a spiegargli che per chi è di davvero sinistra non funziona così: le tasse sono uno strumento – l’unico strumento pacifico – per redistribuire la ricchezza, che altrimenti sarebbe sperequata, per togliere soldi ai più ricchi e offrire servizi ai più poveri. Se non ci fossero le tasse dovremmo fare come Robin Hood, ma nessuno di noi è ormai disposto a vivere alla macchia nella foresta di Sherwood. Il 16 giugno, al di là della propaganda di renzi e dei renzioti, non è una festa della sinistra perché è stata tolta la Tasi, è una festa per chi non paga una tassa che dovrebbe e potrebbe pagare, è un giorno in cui il governo celebra un’ingiustizia. E’ la festa dello sceriffo di Nottingham che ci governa, che ruba ai poveri per regalare ai ricchi.
Noi le tasse le vogliamo pagare e naturalmente vogliamo che le paghino tutti, specialmente quelli che oggi non le pagano, e vogliamo che a fronte di queste tasse vengano costruite scuole e ospedali. Capisco che per Renzi questi concetti suonino strani, vagamente rivoluzionari, perché non li ha mai sentiti e mai praticati: è la sinistra, vi ci dovrete abituare, prima o poi.