È un dilemma tornato oggi al centro dell’attenzione.
Fino a poco tempo fa era scontato che la vita attiva fosse un valore, l’ozio un disvalore.
Ma è stato sempre così?
Nella aristocratica società romana il lavoro era considerato cosa da schiavi, si ammetteva solo quello del contadino-proprietario di epoca repubblicana. Da ciò il proliferare, fino all’epoca imperiale, di vari trattati de agri cultura, il cui modello fu l’omonima opera catoniana – Catone, quel trombone che ce l’aveva coi costumi greci.
Dalla conoscenza della cultura e della filosofia greca a Roma infatti erano arrivati nuovi modi vita, religioni, e anche visioni del mondo, filosofie.
Tra queste, quelle che attecchirono di più furono l’epicureismo e lo stoicismo, seppure in forma borderline con altre filosofie.
L’epicureismo, come tutti sanno, fondava la sua idea di vita sulla ricerca del piacere.
Attenzione! Non il piacere fine a se stesso, il piacere smodato, come unica regola di vita; semmai proprio il contrario: un piacere abbastanza sobrio e controllato. Diciamo: più che il piacere, i tanti, moderati, piccoli piaceri della vita. La eudaimonia – lo stare bene con se stessi, diremmo noi oggi – degli epicurei nasceva da una tecnica filosofica di fuga dai dispiaceri, alla ricerca invece di quei piaceri minimi che consentono alla vita di essere sopportata: un prendersi cura di sé, che Foucault chiamava tecnologia del sé.
Perciò: è inutile partecipare alla vita politica, provoca solo dispiaceri; inutile cercare la gloria in battaglia, si rischia di morire o di essere ferito; inutile accumulare danaro, poi l’ansia per i ladri ti mangerà vivo… e così via.
La condizione ricercata dal saggio era perciò l’atarassia, la liberazione dagli affanni della vita, attraverso una progressiva desensibilizzazione dalle cose inutili rispetto ai veri piaceri della vita.
L’esaltazione dell’ozio da parte degli epicurei non era che un corollario rispetto a questo: l’inattività del saggio rispetto all’inutile e “spiacevole” fluire del mondo.
Attenzione 2!
Non si tratta dell’ozio, nel senso del banale poltrire (anche se per un epicureo conseguente la pennica post-prandiale può rientrare tra i piaceri della vita), quanto di ogni attività non rientrante nel bruto lavoro, nell’impegno finalizzato a un risultato.
Per esempio, era considerato tecnicamente ozio scrivere o leggere un libro, avere una discussione intellettuale, coltivare un piccolo orto o allevare un animale. Più in generale, era ozio, come ha scritto recentemente Maurizio Bettini, la possibilità, l’avere il tempo, o l’occasione, per fare qualcosa di piacevole.
Non va confuso infatti il nobile ozio con la “inertia”, la mancanza di ars, intesa come arte, ma pure come talento, scienza, abilità: dunque l’ozio non è l’inattività di chi non sa fare nulla; e non bisogna neppure confondere l’ozio con la “desidia”, lo stare sempre seduti a guardarsi i pollici.
L’ozio è invece per i romani il tempo libero ma ben occupato; per molti versi, il tempo liberato dagli obblighi.
In latino il contrario di ozio è negotium, negozio: che significa qualunque attività, pubblica o commerciale, ma pure incombenza, compito, incarico.
Per questo profilo, nulla vi è di più anti-romano del cd. “negozio giuridico”, che pure abbiamo studiato (quelli della mia generazione) nel corso di Istituzioni di diritto romano: genus troppo astratto per il pensiero pratico e concreto dei romani (per questo Roma è spesso detestata dai tedeschi, che amano viceversa la Grecia).
Sulla coppia otium/negotium, Catone (sempre lui) scrisse, come ci ricorda ancora Bettini, che il grand’uomo è grand’uomo sia nei negotia, gli affari e le incombenze della vita, che negli otia, per le attività che sceglie nel tempo libero.
In ogni caso, a questo punto credo sia chiaro che cosa intendessero gli epicurei romani per ricerca dell’ozio, come via per l’essere soddisfatti di sé: il piacere del tempo liberato dagli obblighi, spesso piacere intellettuale, ma non solo (la filosofia antica, a quest’altezza, è filosofia pratica, invito a una vita ben vissuta: i filosofi di quest’epoca somigliavano più agli psicanalisti che ai filosofi contemporanei, troppo spesso ossessionati dalla ricerca del concetto più originale e spericolato).
Un esempio famosissimo di ozio di matrice epicurea nella letteratura latina è il finale delle Georgiche di Virgilio.
A quel tempo mi manteneva la dolce Parthenope,
nel fiore degli impegni di un ozio senza gloria,
io, quel Virgilio, che mi divertivo a comporre canti di pastori
e, temerario per la giovinezza,
cantavo te, Titiro, al riparo sotto un faggio.
Come si vede, il poeta inserisce nella categoria dell’ozio addirittura la composizione delle Bucoliche! Nel rispecchiamento malinconicamente rovesciato, diciamo così, col pastore Titiro, anch’egli fermo, a riposo, sospeso nel suo tempo, sotto un maestoso albero.
Completamente opposta a quella degli epicurei era la visione della vita invece di accademici e stoici.
All’otium costoro preferivano il negotium, la vita attiva, gli incarichi pubblici, l’impegno, anche politico. Era questo per loro il vero significato della vita.
Certo, anche gli stoici puntavano alla eudaimonia come imperturbabilità, che chiamavano apatia, ma questa era una desensibilizzazione dal dolore non attraverso la fuga dagli impegni della vita, piuttosto grazie a una lunga pratica intellettuale di contemplazione delle leggi della natura e dei doveri che essa impone.
Un altro grande personaggio della storia di Roma, Marco Tullio Cicerone, se ne fece proprio una malattia del diffondersi dell’epicureismo nella cultura dell’Urbe. E scrisse una serie di testi, che oggi potremmo definire militanti, in cui vantava lo stare in mezzo alla gente, farsi parte, impegnarsi nelle cose, anche politicamente ecc., in quel suo latino perfetto, che tanto ci rovinò la giovinezza durante gli anni del liceo. La lingua perfetta di un intellettuale engagé, molto engagé.
E quindi, non solo per fare dispetto al mio (peraltro anche amato) Cicerone, non voglio proporre un esempio di polemica anti-epicurea tratto dalla sua sterminata e grafomaniaca opera. Invece facciamo un salto di qualche secolo e arriviamo all’ultimo grande esponente dello stoicismo romano: l’imperatore Marco Aurelio.
Marco Aurelio scrisse per sé un quaderno di appunti, o meglio, come ha affermato Pierre Hadot, un quaderno di “esercizi spirituali” (sì, perché tale letteratura non comincia certo col Cristianesimo), nei quali ricordava a se stesso i principi della sua ricerca dell’eudaimonia, la sua particolare tecnologia del sé.
Nella sua prosa lirica e filosoficamente rarefatta (tanto lirica e tanto rarefatta che la sua bellezza per secoli ha incantato tanto da non far comprenderne la sostanza filosofica), a un certo punto, scrive:
All’alba, quando sei restio a svegliarti, abbi subito presente questo pensiero: mi desto per compiere il mio dovere di uomo; dovrei dunque lamentarmi ancora di andare a compiere ciò per cui sono nato e sono stato messo nel cosmo? O forse sono stato fatto per starmene a godere il calduccio del letto? – ma questo è più piacevole – Allora sei nato per godere, per essere passivo, insomma, non per agire? Non vedi che gli arboscelli, i passerotti, le formiche, i ragni, le api assolvono la funzione che è loro propria e cooperano per la loro parte all’ordine universale? E tu allora non vuoi compiere ciò che è dovere degli uomini? Non corri a compiere ciò che è conforme alla tua natura? (Marco Aurelio, Pensieri V,1,1, trad. it. di G. Cortassa, Tutti gli scritti, Utet, 2005).
Ecco la contrapposizione tra otium e piacere personale, da un lato, e vita attiva e utile universale attraverso l’impegno personale, dall’altro, con la tradizionale polemica stoica contro gli epicurei. Nel pensiero di Marco Aurelio il “dovere di uomo”, la vita attiva indirizzata all’interesse generale, si tinge particolarmente di contenuti solidaristici e di mutua comprensione verso gli altri appartenenti alla famiglia umana: il II secolo d. C. è anche il secolo di quella che i romani chiamavano humanitas. La stessa humanitas, che troviamo addirittura giuridificata nei provvedimenti dell’imperatore, sul cruciale terreno della libertà delle persone, cioè, all’epoca, degli schiavi.
Dunque, come ho raccontato finora, la disputa tra stoici ed epicurei si può declinare anche come una lunga ed estenuante discussione su otium e negotium, tra inattività e vita attiva?
Sì, per molti versi, sì.
Ma, come sempre, c’è un’eccezione.
Torniamo indietro di un secolo, andiamo in età neroniana: incontriamo un altro dei grandi filosofi dello stoicismo romano: Lucio Anneo Seneca.
Seneca dedica all’ozio addirittura un’opera, il De otio, appunto. Nella quale a un certo punto scrive:
…immaginiamo due repubbliche, una grande e davvero pubblica, di tutti, che comprende Dei e uomini, nella quale non fissiamo lo sguardo su questo o quell’angolo remoto, ma misuriamo i confini della città con quelli del sole; l’altra di cui la nascita ci ha assegnato la condizione: questa sarà quella degli Ateniesi o dei Cartaginesi o di qualunque altra città che non comprenda tutti gli uomini, ma solo alcuni determinati. Alcuni si adoperano tanto per l’una che per l’altra repubblica, sia la maggiore che la minore, alcuni solo per la minore, alcuni solo per la maggiore. Possiamo servire fedelmente questa repubblica maggiore anche nell’inattività, anzi non so se meglio nell’inattività: indagando che cosa sia la virtù, se sia una sola o più di una, se sia la natura o la cultura a rendere gli uomini buoni, se sia un unico corpo ad abbracciare mari e terre e quanto si trova sulla terra e nel mare, o se un Dio ha disperso molti corpi di tal genere; se la materia da cui traggono origine tutte le cose sia tutta continua e piena, oppure sia discontinua e il vuoto sia mescolato ai corpi; quale sia la natura di Dio, se contempli immobile la sua opera oppure la governi, se l’avvolga dall’esterno o compenetri ogni cosa; se il mondo sia immortale o invece da annoverare tra le realtà caduche ed effimere. Chi contempla tali cose, quale servizio rende a Dio? Che le sue così grandi opere non restino senza testimone (Seneca, De otio, IV, 1-2).
Dunque Seneca immagina l’ozio proprio come il tempo in cui si dibatte l’eterna discussione tra stoici ed epicurei: le varie alternative proposte, infatti, altro non sono che le diverse ipotesi sull’uomo, la vita, l’universo, l’origine del mondo ecc., che opponevano l’una all’altra scuola. Tuttavia, sull’ozio, egli, come si vede, alla fine propende per la visione epicurea, pur interpretando quel suo nuovo stare nel mondo (Seneca in realtà si trovava ritirato a vita privata a causa della sua caduta in disgrazia presso Nerone) in chiave mistico-religiosa.
Ma c’è un’altra cosa che ci insegna Seneca: il cosmopolitismo, l’immaginarci cittadini non solo del luogo dove siamo nati, ma anche di un’altra grande repubblica, della quale tutti gli uomini sono cittadini.
Un secolo dopo, Marco Aurelio avrebbe definito così la sua nozione di “dovere di uomo”: prendersi cura di tutti gli altri uomini (Marco Aurelio, Pensieri III, 4).
E magari l’ozio di queste settimane, non sempre intellettuale, di certo non esito di un tempo liberato, non è che il preciso dovere di “prendersi cura” di sé e degli altri. Un dovere incardinato sulla comune appartenenza a quella repubblica più ampia, i cui confini sono segnati dai raggi del sole.