Fonte: il Simplicissimus
Io non so voi, ma rimango sconcertato dal chiacchiericcio politico ed economico in cui si è ripiombati non appena terminate ufficialmente le vacanze. Promesse e premesse assurde che si rincorrono come gli spari nelle feste berbere, Draghi che dice le stesse cose dell’agosto 2011, incurante dei disastri che hanno procurato, ma che diventa nella narrazione del grande Andersen mediatico, il nuovo garante della flessibilità, la riforma della giustizia immaginata perché non ci sia mai giustizia per i potenti e per uno in particolare che tiene per le palle la politica, mirabolanti piani di opere pubbliche che risorgono dalle ceneri dell’austerità come Chimere, almeno cinque o sei piani diversi per la scuola e via dicendo fra una secchiata e l’altra.
Non è difficile scorgere il caos dentro tutto questo, caos che del resto è ormai presente dappertutto, nel mediterraneo di morte, nell’Europa delle banche , mai così divisa e reciprocamente ostile, nell’esplosione del Medioriente con la mutazione rapidissima di amici e nemici e sempre nuove parole d’ordine. Ma siamo in qualche modo disposto a sopportarlo e persino a non vederlo perché questo è l’esito di trent’anni di cultura nel quale abbiamo abolito la consapevolezza dell’alea che circonda le nostre azioni, delle conseguenze che esse comportano e della stessa speranza di costruire un mondo. In termini scientifici si direbbe dei comportamenti caotici dei sistemi complessi.
Nel momento in cui si dichiarò la fine della storia e dunque si asserì l’esistenza di un’unica realtà possibile, ovvero il mercato e di un unico modello ortodosso con il quale esplorarne le dinamiche abbiamo dimenticato la dimensione del tempo: nell’eterno presente nel quale siamo costretti a vivere non esiste la possibilità che l’accumulo di piccole differenze porti a risultati del tutto imprevedibili. Ed è così che mentre milioni di persone constatano sulla loro pelle la vertiginosa caduta di reddito e di esistenza sociale, la scienza economica non riesce a concepire qualcosa di diverso dei normali cicli di fluttuazione ed è tutta tesa ad aspettare la inevitabile ripresa. Nemmeno la realtà delle numerose crisi, impreviste e imprevedibili, che si sono succedute come un annuncio dal 1987 fino alla caduta di questi anni è riuscita a scuotere la fede assoluta nell’autoregolamentazione dei mercati, nella razionalità delle scelte soprattutto a mostrare che qualsiasi azione determina una mutazione le cui conseguenze sono alla lunga imponderabili, come si scoprì alla fine dell’Ottocento per le scienze fisiche. Figurarsi poi in un ambito più complicato come quello umano dove nemmeno è possibile dimostrare l’esistenza di leggi generali e universali. Al punto che i modelli matematici adottati per descrivere le fluttuazioni delle azioni sui mercati finanziari sono – come dire – statici e presumono che le variazioni dei prezzi siano statisticamente indipendenti: il valore di un titolo oggi è indipendente da quello di ieri e di domani.
Non è un caso che il matematico Mandelbrot (proprio quello dei frattali) ritenga, in buona compagnia, che questi modelli ( e le teorie socio politiche ad essi sottostanti) siano completamente sbagliati, che invece le grandi fluttuazioni siano la norma e non l’eccezione attribuita di solito a eventi e calamità naturali (vedi le ridicole e contrastanti giustificazioni climatiche sul crollo del pil statunitense e di alcuni Paesi europei nel primo trimestre 2014, attribuito contemporaneamente al freddo eccessivo o alla mitezza dell’inverno). In realtà ciò gli ideologi del pensiero unico cercano di evitare è che lo stato si proponga come punto come centro di equilibrio: se i mercati sono imprevedibili, generano diseguaglianze, squilibri ed enormi fluttuazioni, allora è inevitabile che il pubblico sia chiamato a gestire la società. Allora meglio fingere che non sia così e dire come pappagalli che il mercato è l’autoregolatore per eccellenza.
Ora vi chiederete il motivo di questa escursione nel cassetto degli attrezzi dell’officina della crisi. Ma esso è semplice: tutte previsioni fatte dai vari organismi di econometria, anche quelle (poche) in buona fede, sono sostanzialmente inattendibili e basate alla fine su una fede ideologica. Che le bugie dette per acquisire consenso o galleggiare sul mare mediatico , non sono altro che un aspetto particolare di una grande bugia che pretende di dettarci la realtà. Il buon senso che il guappo di Rignano scorge nelle parole di Draghi è in realtà un non senso per il 99% dei cittadini.