ODI ET AMO: LA SVIZZERA E I SUOI ITALIANI

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Toni Ricciardi
Fonte: Limes

ODI ET AMO: LA SVIZZERA E I SUOI ITALIANI

Carta di Laura Canali - 2023

Carta di Laura Canali – 2023

L’immigrazione dall’Italia è storia antica, ma fino a ieri suscitava inquietudine e rigetto. Gli albori del fenomeno. Le crociate contro l’inforestieramento. Le svolte del 1970 e del 1982. Il punto sull’oggi, tra espatriati ‘per scelta’ e transfrontalieri. La lezione di Max Frisch.

1. La Suisse n’existe pas fu l’opera che Ben Vautier espose nel padiglione svizzero durante l’Expo di Siviglia del 1992. L’insolita scritta provocò scalpore; gran parte dell’opinione pubblica iniziò a interrogarsi su cosa fosse realmente l’identità svizzera e su quali basi si fondasse l’immagine del paese. Il dibattito aveva però origini remote. La Svizzera si è rivista, in quanto nazione, nel proprio spazio alpino. Il processo, sviluppatosi tra la fine del XVIII secolo – con la visione romantica del paesaggio – e il 1870, ha portato alla «nazionalizzazione della natura» 1.


Avendo largamente beneficiato della rivoluzione industriale, dal 1914 la Svizzera fu annoverata tra le grandi nazioni industrializzate. Il crescente sviluppo economico e la modernizzazione ne stavano progressivamente dissolvendo l’identità. Turbati dal nazionalismo affermatosi negli Stati vicini, perplessi di fronte all’alto numero di stranieri, disorientati dai mutamenti sociali in cui vedevano i sintomi di una degenerazione, numerosi intellettuali svizzeri all’inizio del XX secolo si interrogarono su un’identità nazionale difficile da definire. Il censimento del 1910, registrando l’aumento sensibile dell’immigrazione, pose la questione stranieri al centro del dibattito pubblico. L’Überfremdung (inforestieramento) rischiava di alterare l’identità nazionale attraverso l’introduzione di valori «non svizzeri» 2.


Il concetto svizzero di identità nazionale può fornire alcune chiavi interpretative del rapporto tra un paese ospitante e l’altro: la Svizzera scopre la sua diffidenza verso l’altro nella transizione da paese di emigrazione a paese d’immigrazione. Tra il 1850 e il 1914 oltre 400 mila svizzeri lasciarono il paese, ma nello stesso periodo arrivarono oltre 2 milioni di stranieri. Il 98% proveniva dai paesi confinanti e si collocò prevalentemente nei Cantoni con lo stesso idioma. L’Überfremdung nacque nella Svizzera tedesca contro l’immigrazione tedesca, nettamente prevalente a cavallo tra fine del XIX e inizi del XX secolo 3.


Anche se l’emigrazione di massa dall’Italia iniziò nella stagione dei grandi trafori europei (Gottardo e Sempione soprattutto 4), il periodo tra le due guerre, l’avvento del nazismo in Germania e prima ancora del fascismo (che portarono molto esuli a rifugiarsi in Svizzera) condussero a una progressiva sostituzione del «nemico altro», che divenne l’italiano. L’Expo di Siviglia è solo uno dei tanti momenti nei quali la società svizzera si è interrogata sul proprio essere e divenire. Non esiste paese europeo dove per storia, costruzione istituzionale, quadro demografico e mélange culturale il rapporto con lo straniero abbia (avuto) un ruolo così determinante.


2. Pur essendo un minuscolo Stato di 41 mila chilometri quadrati nel mezzo dell’Europa, durante il Novecento la Svizzera ha conosciuto il tasso d’immigrazione più alto del continente europeo – superiore addirittura a quello degli Stati Uniti 5 – assorbendo quasi metà dell’emigrazione italiana nel secondo dopoguerra. Negli anni Novanta un quinto dei suoi cittadini era straniero. Negli ultimi settant’anni ha raddoppiato la sua popolazione, passando da poco più di quattro milioni di persone ai quasi nove odierni. L’immigrazione è al centro dell’agenda politica e del dibattito pubblico da sempre. Anche nelle recenti elezioni federali, determinandone l’esito.


Paese multilingue, federale e incentrato su una democrazia consociativa, la Svizzera si è dotata per prima (insieme agli Stati Uniti) di strumenti legislativi complessi in materia di stranieri. Nel 1917 nacque la polizia degli stranieri, alla quale erano demandati controllo e gestione degli immigrati. Nel 1931 furono gettate le basi normative contemporanee, sperimentate fin dal principio sulla manodopera italiana. Finita la guerra, nel 1948, per la prima volta nella sua storia la Svizzera firmò un accordo di reclutamento «moderno» di manodopera straniera, che divenne un modello per i successivi e cambiò per sempre la sua storia e quella del suo principale «fornitore» di donne e di uomini, l’Italia. Paese dal quale, a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento e fino al 1985, sono giunti oltre cinque milioni di persone, la metà solo nel secondo dopoguerra. Convenzioni, protocolli, trattati e accordi di emigrazione erano già prassi consolidata dei governi italiani dall’Unità in poi. A partire dalla prima convenzione con la Confederazione Elvetica del 1868 e fino al 1956, l’Italia siglò ben 183 intese con diversi paesi europei. Dieci riguardavano la Svizzera 6, cui ne seguiranno altrettante fino ai giorni nostri.


Sugli oltre 3,5 milioni di italiani presenti in Europa, più di un quinto risiede in Svizzera, facendo di questa comunità la terza al mondo dopo quelle di Argentina e Germania. Oltre 660 mila le presenze registrate – metà avente doppio passaporto, cui vanno aggiunti almeno 100 mila frontalieri e decine di migliaia di non iscritti all’Aire – così suddivise nelle cinque circoscrizioni consolari: 111.896 a Basilea, 70.148 a Berna, 129.175 a Ginevra, 126.971 a Lugano e 217.701 a Zurigo. La comunità italiana in Svizzera resta la prima tra quelle straniere. Nell’ultimo decennio la Confederazione, insieme a Germania, Regno Unito e Francia, è divenuta una delle principali mete della nuova mobilità italiana con una media di arrivi annuali che supera le 10 mila unità 7. Queste persone arrivano in un paese dove convivono dieci comunità religiose e quasi duecento nazionalità diverse e dove uno svizzero su otto è nato all’estero.


Carta di Laura Canali - 2023

Carta di Laura Canali – 2023


L’indagine annuale sulla «convivenza in Svizzera» registra i tassi di razzismo e di insofferenza. Dai risultati del 2022 emerge che il 34% della popolazione si sente disturbato dalla presenza di persone percepite come diverse per nazionalità, religione o colore della pelle. Questa sensazione di fastidio avvertita nella quotidianità ha subìto un incremento notevole nell’ultimo quinquennio, passando dal 19% del 2018 8 al 31% nel 2022. Resta invece pressoché invariata l’idiosincrasia verso i vicini (18% nel 2018, 17% nel 2022) e i colleghi di lavoro (25% nel 2018, 22% nel 2022) 9. La maggior parte degli svizzeri è favorevole a concedere maggiori diritti agli stranieri, specie il diritto al ricongiungimento familiare, mentre il 60% vede nel razzismo un problema sociale rilevante (era il 67% nel 2016) e il 59% (55% nel 2018) ritiene che l’integrazione dei migranti funzioni bene. Questo complesso di percezioni va completato con il quadro demografico.


Nel 1945 la Svizzera contava poco più di 4 milioni di abitanti, nel 1981 si sfiora quota 6,5 milioni e a fine 2022 si superano gli 8,8 milioni, 2,3 dei quali (26%) sono stranieri provvisti di cittadinanza unica, cui vanno aggiunti i doppi passaporti (nel caso italiano, oltre il 50%). In termini di invecchiamento, la Svizzera è in linea con gran parte dei paesi europei: gli over-64 sono il 22,4% del totale, rispetto al 23% (di over-65) dell’Italia e al 22% della Germania. Il 16,4% di costoro ha nazionalità svizzera dalla nascita, mentre il restante 6% è di nazionalità straniera 10. Significativa la bassa propensione a restare in Svizzera da parte di chi, pur avendoci vissuto per decenni, tende (soprattutto nel caso italiano e portoghese) a rientrare nel paese d’origine. Questo fenomeno ha ragioni economiche: innalzamento del costo della vita, sistema sanitario governato dalle casse private. Dal 1931 al 2002 la Svizzera aveva costruito la propria intelaiatura normativa, economica e sociale sullo statuto dei lavoratori stagionali: statuto al centro del dibattito politico per cinquant’anni in un paese che ha sempre faticato ad accelerare i processi sociali e il più delle volte pare averli subiti, come nel caso dell’immigrazione.


3. «Nel XIX secolo eravamo una nazione rivoluzionaria, oggi siamo una delle più conservatrici al mondo» 11. Questo passaggio racchiude il senso dell’Helvetisches Malaise (malessere elvetico) di Max Imboden, che determinò l’inizio del processo di revisione costituzionale in Svizzera. Oltre a denunciare l’involuzione nel mezzo del boom economico, Malessere svizzero fu un modo per stimolare una riflessione più profonda su quanto stava accadendo a Losanna, dove nel 1964 si tenne l’Expo. La Svizzera voleva raccontarsi al mondo come paese proiettato verso il futuro, avvertendo la necessità di mostrarsi cambiata e pienamente dentro la moderna società dei consumi e dei trasporti individuali. Furono quasi 12 milioni i visitatori che, per la prima volta, assistettero alla timida messa in discussione del passato: l’immagine del piccolo villaggio, la cartolina delle Alpi, la rappresentazione attraverso le narrazioni dei grandi viaggiatori del XVIII e del XIX secolo.


Come nel resto dell’Occidente, si era ormai diffusa la società dei consumi. La Svizzera stava cambiando e mentre assisteva a questo processo epocale iniziò una lunga riflessione su chi, materialmente, vi stesse contribuendo. «Per anni abbiamo considerato solo il punto di vista economico. È il momento di accordare maggiore attenzione all’aspetto umano. (…) Dobbiamo renderci finalmente conto che i lavoratori stranieri non sono venuti in Svizzera unicamente a causa di una tensione congiunturale momentanea, ma che sono ormai diventati un fattore indispensabile della nostra vita economica. La nostra futura politica d’ammissione non potrà limitarsi a frenare l’entrata di nuovi lavoratori, (…) dovrà tendere piuttosto a mantenere e ad assimilare la manodopera che si è affermata. La norma derivata dai negoziati con l’Italia si muove in questo senso» 12.


Fu la prima volta, nella lunga tradizione di importatrice di manodopera, che Berna mise in discussione l’idea di temporaneità della migrazione. La posizione del governo suscitò forti reazioni nelle parti sociali. Il mondo dell’impresa, contrario ad aperture che avrebbero favorito oltremodo la manodopera italiana, chiedeva di attingere a quella economica dei paesi in via di sviluppo. Il sindacato, già qualche mese prima della ratifica del nuovo trattato con l’Italia (entrato in vigore nel 1965, rinnovava quello del 1948), invitava a fissare un tetto massimo di 500 mila unità 13: ciò avrebbe significato il taglio di quasi un terzo degli stranieri, che nel 1965 erano 840 mila e rappresentavano il 14,2% della popolazione. Tutto avvenne nel momento in cui si riaffacciava prepotentemente la paura dell’«infiltrazione straniera»: del 1965 è la prima iniziativa contro gli stranieri, rei di mettere a repentaglio l’identità del piccolo Stato nel cuore dell’Europa attraverso l’Überfremdung.


Il termine nacque nella Svizzera tedesca quando la Confederazione era ancora paese d’emigrazione, che stava progressivamente divenendo un attrattore di forza lavoro. Fino a metà anni Sessanta oltre l’80% degli stranieri proveniva dai paesi confinanti: Germania, Austria, Francia e (dopo il 1945) Italia. L’Überfremdung ricomparve nel dibattito pubblico a metà anni Sessanta con i medesimi connotati di preoccupazione e diffidenza, questa volta rivolte però verso gli italiani. Così lo scrittore Max Frisch il 1° settembre 1966 a Lucerna, durante la Conferenza annuale dei capi della polizia degli stranieri: «Che significa infiltrazione straniera? Il giovanotto che nell’albergo prende il mio bagaglio, la cameriera ai piani, il barista, più tardi il portiere di notte, l’altro cameriere che serve la prima colazione, tutte queste persone che rendono piacevole il mio soggiorno in patria sono rispettivamente: uno spagnolo, una jugoslava, un italiano, ancora un italiano, un terzo italiano, un renano. Ignoro chi fa i piatti e chi lavi le camicie. L’unico che parli dialetto svizzero è il proprietario. (…) Si fiuta un pericolo per la nazione. (…) Da una parte tutto ciò che è sano, sacrosantamente giusto, nostrano e valido, in breve: svizzero. Dall’altra eserciti di estranei che piombano sul nostro benessere, sempre più piccoli e sempre più neri, calabresi, greci, turchi. (…) Alcuni si preoccupano per il fatto che gli italiani, del cui aiuto abbiamo bisogno, siano cattolici. Altri temono che i lavoratori italiani possano essere comunisti» 14.


Per Frisch, il differente credo religioso e l’anticomunismo non erano sufficienti a spiegare l’avversione nei confronti degli italiani. Essa nasceva dalla paura che potessero essere più bravi e più abili: «In ogni modo il loro ingegno è diverso, diverso per esempio nell’assaporare la vita, nell’essere felici». Tale percezione, nonostante gli svizzeri vivessero una condizione sociale privilegiata, sfociava in atti di disprezzo e generava facili stereotipi, specie nei confronti dei meridionali. «Che i meridionali siano sporchi è, da parte nostra, una speranza: perché allora possiamo vantarci, se non sappiamo cantare, di essere almeno puliti. Ma nemmeno questa speranza trova sempre conferma: un medico condotto mi ha assicurato che gli italiani, al contrario dei pazienti locali, si presentano con i piedi lavati. (…) Si ha un bel definirli manodopera straniera: sono creature umane. Diamo loro baracche e, appena possibile, anche appartamenti: un’inserzione apparsa in un quotidiano svizzero, per mezzo della quale si offriva un pollaio come alloggio per gli italiani, dev’essere considerata un’infelice eccezione» 15.


L’autocritica e il confronto con l’altro, diverso ma strutturalmente funzionale ai dettami economici, inducono a ripensare la storia della Svizzera, la reputazione del paese e la sua immagine internazionale. Questi passaggi sono utili per comprendere quale fosse il clima che generò la stagione delle iniziative referendarie xenofobe più significative del secondo dopoguerra europeo.


4. Anche la Svizzera ebbe la sua catastrofe del fordismo. Come a Monongah nel 1907, a Dawson nel 1913 e nel 1923, a Izourt nel 1939 o a Marcinelle nel 1956 – dove la rincorsa a produrre energia aveva causato drammi – il prezzo più alto fu pagato dall’Italia, con 56 morti. Il 30 agosto 1965, 2 milioni di metri cubi staccatisi dal ghiacciaio dell’Allalin in meno di trenta secondi seppellirono sotto 50 metri di ghiaccio e detriti le baracche, la mensa e le officine degli operai della diga di Mattmark. Le vittime furono 88: 86 uomini e 2 donne, 23 di nazionalità elvetica, 4 spagnoli, 2 tedeschi, 2 austriaci e un apolide, il resto italiani.


La catastrofe suscitò scalpore in tutta Europa e rappresenta, a oggi, la più grave disgrazia nella storia svizzera dell’edilizia e l’ultima dell’emigrazione italiana. L’opinione pubblica elvetica ne fu molto scossa: per la prima volta immigrati e svizzeri morivano l’uno a fianco all’altro. Eppure, la tragedia è rimasta nell’oblio per quasi cinquant’anni, fino al 2015 16. Mattmark rappresentò l’avvio di una profonda riflessione sulla presenza italiana. Anche per la collettività italiana in Svizzera fu un’occasione per interrogarsi sul senso della propria permanenza in un paese dove, benché parte attiva e persino determinante del benessere, si sentiva rifiutata e senza voce in capitolo, anzi oggetto di discriminazione e ostilità.


Questi furono gli anni della svolta e del cambio di prospettiva. Il 1965 rappresentò un anno chiave per l’emigrazione italiana in Svizzera anche perché entrò in vigore il secondo accordo Svizzera-Italia, che migliorava le condizioni di chi arrivava. Inoltre, per la prima volta gli stanziali superarono numericamente gli stagionali e fu presentata un’iniziativa referendaria anti-italiani, poi ritirata nel 1968 probabilmente sull’onda della reazione emotiva che Mattmark suscitò.


Il 20 maggio 1969, con 70 mila firme, iniziò la stagione referendaria antistranieri in Svizzera. James Schwarzenbach, padre del populismo elvetico, il primo nell’Europa del secondo dopoguerra ad abbracciare le narrazioni anti-immigrati 17, con la sua iniziativa voleva ridurre al 10% gli stranieri su base cantonale (eccezion fatta per Ginevra, 25%). L’iniziativa puntava a tagliare 200 mila stranieri in possesso di regolare permesso di soggiorno, in barba agli accordi bilaterali sull’impresa e alla convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo sul ricongiungimento familiare. Il clima generale, rispetto alla prima iniziativa, era mutato: non erano trascorsi nemmeno quattro anni dalla tragedia di Mattmark, ma ora larga parte dell’opinione pubblica si mostrava disposta a sostenere il referendum. A tre mesi dal voto, il 16 marzo 1970, ai Cantoni e alle imprese fu concesso di limitare la mobilità della manodopera nei primi tre anni, garantendo comunque – anche se l’iniziativa fosse stata respinta – di continuare a perseguire la Stabilisierungspolitik. Cosa mai accaduta prima, si mobilitò gran parte del mondo sociale svizzero. Con esso la Chiesa svizzera (cattolica e protestante) e le missioni cattoliche italiane e spagnole, che esortarono i cittadini a bocciare l’iniziativa. Sull’altro versante, le Colonie libere e l’Atees (Asociaciòn de trabajadores emigrantes españoles en Suiza) si rivolsero al mondo operaio svizzero.


Alla consultazione del 7 giugno 1970, con un’affluenza del 74% (una delle più alte mai registrate), l’iniziativa venne respinta dal 54% dei votanti. A livello cantonale, fu approvata nei Cantoni con il minor numero di stranieri e con le performance economiche meno brillanti. Con l’iniziativa Schwarzenbach la Svizzera sfiorò una crisi politica dalle conseguenze catastrofiche. La questione stranieri aveva palesato tutti i limiti del federalismo elvetico 18 e chiuso definitivamente la politica del laissez-faire, dominante negli anni Cinquanta e Sessanta, a favore della ricerca di un equilibrio tra popolazione residente e stranieri presenti. Schwarzenbach fu solo l’inizio. Tutto il decennio fu caratterizzato da quesiti referendari volti alla riduzione della presenza di stranieri. Ossia di italiani, che ancora nel 1970 ne rappresentavano oltre il 70%. Il vero successo nell’insuccesso di Schwarzenbach fu la progressiva istituzionalizzazione dei movimenti xenofobi, che raggiungeranno il successo politico a partire dagli anni Duemila 19.


Complessivamente, dal 1970 al febbraio 2016 il popolo svizzero è stato chiamato alle urne ben 16 volte sul tema dell’immigrazione 20. Tutte le iniziative sono state respinte, eccetto quella del 9 febbraio 2014 passata per circa 18 mila voti (50,3% Sì contro 49,7% No). Quella del 2014 fu una sorta di Brexit prima del Brexit e ha incrinato fortemente i rapporti con l’Unione Europea. A distanza di nove anni non si è ancora riusciti a definire nuovi accordi bilaterali, fatto che sta compromettendo il mondo della ricerca e delle università svizzere, innovative ma ora escluse dai finanziamenti europei. Le difficili relazioni Ue-Svizzera sono attestate dall’ennesima iniziativa, del 27 settembre 2020, volta ad abolire la libera circolazione, respinta con il 61,7% di No.


La Svizzera, però, fu anche tra i pochi paesi a vivere una stagione solidale verso i propri stranieri. Nel 1977 venne presentata la prima iniziativa pro stranieri, che prese il nome dal comitato promotore «Essere solidali in favore di una nuova politica verso gli stranieri». L’iniziativa, conosciuta come Mitenand (termine svizzero-tedesco che tradotto alla lettera significa «insieme», in italiano e in francese reso come «Essere solidali/Être solidaires»), puntò a «combattere gli stereotipi esistenti e promuovere a livello federale, cantonale e comunale una legislazione fondata sui diritti dell’uomo, sulla giustizia sociale e sulla parità di trattamento. [E a perseguire] in tal modo l’integrazione reciproca fra svizzeri e stranieri, nel rispetto delle caratteristiche specifiche di ognuno». L’intento era abolire lo statuto degli stagionali.


I promotori dell’iniziativa – partiti politici (a eccezione di estrema destra e sinistra), sindacati, Chiese evangeliche, protestanti e cattoliche, Caritas, centri di contatto svizzeri-italiani, movimenti e associazioni per l’integrazione degli stranieri e associazioni dei migranti: in tutto 67 soggetti al 15 settembre 1980 – ritenevano fosse giunto il momento di intervenire sulla volontà di stabilizzazione: diritto alla libertà personale e al rispetto dell’uomodiritto alla parità e, soprattutto, diritto alla solidarietà. L’obiettivo era abolire lo status di stagionale, che vietava il ricongiungimento familiare e che sul finire degli anni Settanta aveva prodotto 50 mila bambini clandestini, negando tra il 1949 e il 1975 a circa mezzo milione di piccoli italiani il diritto all’infanzia 21.


Il 5 aprile del 1981 arrivò il responso delle urne. Il corpo elettorale del paese, che nel 1948 aveva costituzionalmente sancito il divieto di politicizzare gli stranieri, bocciò inequivocabilmente l’iniziativa in tutti i Cantoni, con l’84% di voti contrari e una partecipazione alle urne inferiore al 40%.


5. Quello che non era riuscito ai movimenti xenofobi anti-italiani riuscì all’economia, la stessa che aveva impedito il successo dei populisti. Quando le crisi petrolifere segnarono la fine dei Trenta gloriosi, in Svizzera andarono persi quasi 300 mila posti di lavoro, in gran parte a scapito degli italiani. La Svizzera aveva costruito il suo successo economico a costo zero importando disoccupazione dall’Italia; trent’anni dopo, fu l’unico paese europeo a ristrutturare il suo sistema produttivo a costo zero, esportando disoccupazione. Dopo oltre un secolo d’immigrazione di massa dall’Italia e dopo aver assorbito non senza problemi la meridionalizzazione dell’emigrazione a partire dagli anni Sessanta, la crisi e la ripartenza del sistema economico negli anni Ottanta gettarono le basi per la completa accettazione degli italiani.


Se in Belgio lo spartiacque fu rappresentato da Marcinelle e dal processo di unificazione europea, per la Svizzera (che nel 1992 decise di non entrare nell’Ue) l’evento fu la vittoria italiana della Coppa del mondo di calcio del 1982. Complice la «Milano da bere» con cui l’Italia consacrò nel mondo il suo stile, l’esser italiano, il vivere, mangiare e vestire all’italiana divenne un obiettivo da emulare. Anche dal punto di vista linguistico, soprattutto nella Svizzera tedesca l’italofonia si diffuse nella quotidianità grazie al processo migratorio 22. Quanto fosse cambiata la percezione degli italiani fu palese a partire dagli anni Novanta.


Carta di Laura Canali - 2023

Carta di Laura Canali – 2023


Nel 1995 venne replicata dopo 25 anni – utilizzando gli stessi metodi di campionatura e la stessa modalità esplicativa – un’indagine sulla percezione degli stranieri del 1969 23. Il campione era composto da mille uomini svizzeri residenti a Zurigo, diversi per età ed estrazione sociale. Le donne non furono interpellate, perché nel 1969 non avevano ancora il diritto di voto. Dovranno attendere l’autunno del 1971 e in alcuni Cantoni addirittura gli anni Ottanta. I risultati fecero emergere chiaramente come, a distanza di un quarto di secolo, fosse cambiata in positivo la percezione degli stranieri, sebbene questi fossero passati dal 17% al 28% della popolazione – mentre gli italiani erano scesi dal 45,5% a poco più del 20%. Le risposte variavano in ragione del livello culturale e alla condizione socioeconomica degli interpellati. Se nel 1969 quasi il 60% riteneva che la Svizzera fosse invasa dagli stranieri, un quarto di secolo dopo la percentuale era scesa al 38%, mentre la distanza sociale tra svizzeri e italiani risultò pressoché annullata (anche se nei contesti rurali e più piccoli la situazione si modificò più lentamente).


Tra le diverse domande poste, ve ne furono alcune molto indicative. Se nel 1969 il 25,5% riteneva inopportuno avere come vicino di casa uno stagionale, nel 1995 ne era convinto meno del 2%. Il disagio di lavorare insieme a uno stagionale passò dal 10,5% all’1,2%. Alla domanda: «Come la prenderebbe se sua figlia sposasse uno stagionale italiano?», nel 1969 quasi il 60% rigettava l’ipotesi, 25 anni dopo la percentuale era scesa al 7,6%. Nel 1969 alla domanda se gli italiani potessero essere un arricchimento per la cultura svizzera, poco più di un quarto rispose positivamente, mentre nel 1995 la percentuale salì all’88,3%. E al quesito: «Per gli svizzeri sarebbe un danno acquisire qualche elemento legato alla mentalità italiana»?, nel 1969 rispondeva No il 52,8%, un quarto di secolo dopo il 91,7% 24.


La storia degli italiani in Svizzera può sembrare a lieto fine, ma non è così. Nel febbraio 2014 per la prima volta è passata (seppur di misura) l’iniziativa «contro l’immigrazione di massa» grazie ai voti del Ticino, insofferente verso i frontalieri italiani. Nel 2016 il Cantone italofono ha approvato l’iniziativa «prima i nostri», che attende ancora di essere applicata. Questo ci ricorda la necessità di affrontare la questione della convivenza con tutti gli strumenti possibili: economici, culturali e sociali, affinché resti viva la memoria. Occorre avere il coraggio e la tenacia di ricordare che nulla è avvenuto per caso e che la convivenza e la comprensione vanno alimentate quotidianamente, con l’esempio e con la storia.


Carta di Laura Canali - 2023

Carta di Laura Canali – 2023


Gli italiani non vivono più una situazione di marginalizzazione ma di rispetto; sono molte le persone di origine italiana che ricoprono posizioni importanti nei diversi settori economici e sociali. Chi decide di vivere in Svizzera trova oggi un clima sociale aperto, l’italianità non è più un ostacolo, si è trasformata in opportunità e risorsa. Si tratta di una migrazione ben diversa da quella del secondo dopoguerra. Eppure, alle professioni specializzate si sono uniti negli ultimi vent’anni i nuovi frontalieri e i tanti che arrivano in cerca di un lavoro qualsiasi. Le nuove mobilità, in molti casi, assomigliano a quelle del passato. La formazione è indubbiamente superiore, vi sono molti più diplomati e laureati. Alle motivazioni classiche della migrazione si aggiungono ora la ricerca di una migliore qualità della vita, il desiderio di studiare all’estero, la voglia di lasciare un paese incapace di coltivare le nuove generazioni.


Tuttavia, si tratta di mobilità in molti casi temporanee, che progressivamente si trasformano in permanenti in luoghi multipli. Il ridursi dei tempi e dei costi di viaggio consente di mantenere rapporti più solidi con le aree di provenienza, con la conseguenza di essere «diversamente presenti» 25. Una caratteristica che negli ultimi anni ha avvicinato la nuova mobilità alla vecchia ed è legata a una sorta di irregolarità momentanea: specie nell’ultimo decennio, molti partono alla volta dei paesi dell’Ue e della Svizzera facilitati dalla libera circolazione. In alcuni casi, soprattutto per le professioni generiche e a bassa specializzazione, trovano un lavoro in nero che poi (nella Confederazione) si trasforma in regolare. Questa plurisecolare vicenda fa comunque della migrazione italiana in Svizzera un vero e proprio unicum.


Note:

1. O. Zimmer, «In Search of Natural Identity. Alpine Landscape and the Reconstruction of the Swiss Nation», Comparative Studies in Society and History, vol. XI, n. 1, 1998, p. 643.

2. G. Arlettaz, «Démographie et identité nationale (1850-1914). La Suisse et la question des étrangers», Etudes et Sources, n. 11, 1985, pp. 115; 125.

3. T. Ricciardi, Breve storia dell’emigrazione italiana in Svizzera. Dall’esodo di massa alle nuove mobilità, Roma 2018, Donzelli, p. 32.

4. Id., Morire a Mattmark. L’ultima tragedia dell’emigrazione italiana, Roma 2015, Donzelli.

5. H. Mahnig, «Introduction», in H. Mahnig et al., Histoire de la politique de migration, d’asile et d’intégration en Suisse depuis 1948, Zürich 2005, Seismo, p. 15.

6. T. Ricciardi, «Una Repubblica fondata sull’emigrazione», in Storia dell’emigrazione italiana in Europa I. Dalla Rivoluzione francese a Marcinelle (1798-1956), a cura di T. Ricciardi, Roma 2002, Donzelli, pp. 159-212.

7. D. Licata (a cura di), «Rapporto Italiani nel mondo», Fondazione Migrantes, 2023, Tau editrice.

8. «Indagine sulla convivenza in Svizzera. Risultati 2018», Dipartimento federale dell’Interno, Ufficio federale di statistica, Neuchâtel 2019.

9. Ibidem.

10. Ibidem.

11. M. Imboden, Helvetisches Malaise, Zürich 1964, Evangelische Zeitbuchreihe, p. 19.

12. «Message du Conseil fédéral à l’Assemblée fédérale concernant l’approbation de l’accord entre la Suisse et l’Italie relatif à l’émigration des travailleurs italiens en Suisse du 4 novembre 1964», Edizioni del Foglio federale 1965, II, p. 1038.

13. E. Piguet, L’immigrazione in Svizzera. Sessant’anni con la porta semiaperta, Bellinzona 2009, Casagrandep. 22.

14. F. Venturini, Nudi col passaporto. La verità sull’emigrazione italiana in Svizzera, Milano 1969, Pan, pp. 7-9.

15. Ivi, pp. 10-11.

16. T. Ricciardi, Morire a Mattmark, cit.

17. C. Vecchio, Cacciateli! Quando i migranti eravamo noi, Milano 2019, Feltrinelli.

18. W. Linder, Politische Entscheidung und Gesetzesvollzug in der Schweiz, Bern 1987, Paul Haupt, p. 18.

19. D. Skenderovic, The radical right in Switzerland: continuity and change, 1945-2000, New York 2009, Berghahn Books; D. Skenderovic, G. D’Amato, Mit dem Fremden politisieren: rechtspopulistische Parteien und Migrationspolitik in der Schweiz seit den 1960er Jahren, Zürich 2008, Chronos.

20. In ordine cronologico: 1970, 1974, 1977, 1984, 1987, due volte nel 1988, due volte nel 1996, 1997, 2000, 2009, 2010, due volte nel 2014, 2016.

21. T. Ricciardi, «Infanzia e genitorialità negata nella Svizzera del miracolo economico», in S. Mignano, T. Ricciardi (a cura di), Più svizzeri, sempre italiani. Messo secolo dopo l’iniziativa Schwarzenbach, Roma 2022, Carocci, pp. 61-78.

22. S. Cattacin, I. Pellegrini, T. Ricciardi, Dalla valigia di cartone al web. La rete sociale degli italiani in Svizzera, Roma 2022, Donzelli.

23. J. Stolz, «Einstellung zu Ausländern und Ausländerinnen 1969 und 1995: eine Replikationsstudie», in H.-J. Hoffmann-Novotny (cura di), Das Fremde in der Schweiz, Zürich 2001, Seismo, pp. 33-80.

24. Ivi, pp. 37-51.

25. D. Licata, L’Italia e i figli del vento. Mobilità interna e nuove migrazioni, Roma 2022, Donzelli.

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