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di Luca Billi, 6 dicembre 2018
Attila è una delle opere risorgimentali di Giuseppe Verdi, una di quelle per cui il Maestro di Busseto è stato celebrato come uno dei padri dell’Italia unita. E certamente in quest’opera – che debuttò a Venezia il 17 marzo 1846, nel pieno delle temperie politica e culturale che portò al Quarantotto – Verdi vuole raccontare la nascita di una “nuova” Italia, che non è più Roma e il suo impero ormai morente, rappresentati dal generale Ezio, che di fronte al re degli unni che sta per sottomettere l’intero paese, non sa fare altro che proporgli un patto politico – prenditi tutto il resto del mondo, ma lascia a noi l’Italia – che noi definiremmo proprio da “basso impero”. E mentre l’imperatore fugge in fretta e furia da Roma invece che guidare la difesa del paese – è qualcosa che succederà anche in tutt’altra epoca – rimane solo il vecchio papa a difendere l’Urbe. La cosa più significativa è che questa “nuova” Italia nasce per opposizione a un condottiero venuto dal nord dell’Europa, in ultima istanza tedesco. Chissà come dovevano vibrare gli animi dei patrioti veneziani a sentire raccontare quella storia di “resistenza” al nemico invasore, tanto più che nell’opera si fa preciso riferimento alla nascita della loro città da parte dei profughi fuggiti dalla conquistata Aquileia.
I nostri animi non possono più vibrare così, visto che l’Italia è poi stata fatta, in qualche modo. Ed è stata fatta non prima degli italiani – come lamentava D’Azeglio – ma nonostante gli italiani.
Non so cosa abbia spinto la Scala a scegliere proprio questa opera per inaugurare la nuova stagione – probabilmente ragioni di carattere musicale e artistico di cui non sono competente e quindi non posso commentare – ma mi piace pensare che sia stata scelta Attila perché la vera protagonista è una donna, anzi la protagonista – ossia Odabella, figlia del signore di Aquileia – è l’unico personaggio veramente positivo di questo dramma. Attila è il conquistatore, il “nemico” sanguinario e crudele. Ezio è il rappresentante di un mondo in declino e condannato a essere travolto. Rimane la coppia dei “nuovi” italiani, Odabella e Foresto, ma tra i due non c’è confronto. Foresto è – nelle parole dello stesso Verdi – il “perfetto cornuto”, colui che, pur professando a ogni piè sospinto il proprio amore per Odabella, non sa riconoscere che lei è più forte e coraggiosa di lui. Foresto è tanti di noi, che abbiamo paura del valore delle nostre compagne, non lo sappiamo accettare, lo sentiamo come un pericolo alla nostra supposta virilità. Invece è Attila che riconosce la forza e l’energia di Odabella, e si invaghisce di lei; probabilmente Attila è un don Giovanni che non riesce ad amare, ma di fronte alla giovane italiana vacilla e rischia di essere sincero.
Giuseppe Verdi quando deve raccontare la nascita della “nuova” Italia ci dice che sta avvenendo grazie a una donna. E una donna che ama il suo nemico. Perché Attila è soprattutto una storia d’amore.
Odabella entra in scena all’inizio del dramma. Di fronte ad Attila che ha conquistato Aquileia, facendone uccidere tutti gli uomini, tra cui il padre della giovane, vengono condotte queste coraggiose guerriere, che hanno combattuto con grande valore. Il re rimane ammirato in particolare dal coraggio di Odabella, che gli chiede, con un atto temerario, le sia resa la spada per poter continuare a combattere. Attila, con un gesto che vuol esser galante, le dona la propria spada e da questo momento Odabella diventa una sorta di “prigioniera” volontaria nel campo degli unni. C’è qualcosa di strano – e di apparentemente inverosimile – in questa combattente, in questa “nemica” che, armata, gode di una notevole libertà a corte e che può seguire Attila nel corso delle sue scorrerie per l’Italia, fino alle porte di Roma. La spada è il legame tra i due amanti che non si dichiarano. Teoricamente lei continua a stare vicino ad Attila per ucciderlo, ma il momento adatto pare non arrivare mai; anzi a un certo punto, gli salva la vita, impedendogli di bere la coppa di vino che Foresto aveva avvelenato. Giustifica questo gesto con la volontà di essere lei quella che deve vendicare il padre e la sua città. C’è qualcosa che però non torna nella storia. Alla fine del dramma sarà Odabella a uccidere Attila, ma il suo è ancora un atto d’amore: il re è perduto e accerchiato, per questo vuole essere lei a toglierli la vita.
Verdi e Piave – che sistemò il libretto di Solera, che non aveva convinto il Maestro – non ci dicono cosa succede dopo la morte di Attila, ma francamente è difficile immaginare Odabella che, nella sua casa in un’isola della laguna, fa la “brava” moglie di Foresto, magari cucendo merletti. Se avessero già inventato le Americhe, forse Odabella avrebbe potuto andare a combattere in quelle terre lontane, a continuare là la sua lotta, come Garibaldi, oppure sarebbe potuta diventare un pirata e magari trasformarsi in una leggenda, come l’Olandese volante.
Chissà come sarebbe stata la “nuova” Italia se Odabella fosse diventata, anche ufficialmente, la regina degli unni, grazie a quelle nozze di cui nell’opera si celebra solo la vigilia? E se l’Italia fosse nata grazie a questo matrimonio tra nemici, tra stranieri? Dovremmo fidarci di più di quello che fanno le donne.