Fonte: IlSudEst,it
di Marianna Sturba – 1 settembre 2018
C’era una volta il diritto… C’era una volta la fattibilità del diritto.
Una storia narrata bene dalla Legge 22 maggio 1978, n. 194.
Una storia che potrebbe avere come sottotitolo:
“Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza: come scrivere una legge e rendere impossibile il suo adempimento.”
Entriamo nel tema. L’ Articolo 1 della legge 194 così recita:
“Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l’ aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite.”
Questo il primo obiettivo della legge: sostenere la maternità consapevole e dare servizi adeguati di indirizzo e conoscenza alle donne riguardo alla sessualità e alla procreazione. Il legislatore sottolinea che l’interruzione non è da utilizzare per il controllo delle nascita, ma facendo questo riconosce comunque alla donna la possibilità di determinare il corso della propria vita.
La legge stessa mette al centro di questo percorso, i consultori familiari, citati nell’art. 2 della 194, istituiti dalla legge 29 luglio 1975, n. 405, che hanno lo scopo di accogliere e seguire la donna.
Ai consultarli è affidato anche il compito di prescrivere pillole del giorno dopo o anticoncezionali e garantire i certificati alle donne che ne hanno bisogno per chiedere un’interruzione volontaria di gravidanza in ospedale.
Come può compiersi tutto questo se nei pochi consultori rimasti vi sono medici obiettori? Come può una donna arrivare a svolgere l’iter necessario all’interruzione se nei centri preposti incontra medici obiettori che allungano i tempi di accesso al servizio ponendo il freno della propria “obiezione” che obbliga l’attesa di un altro medico, magari in altra data?
Sappiamo tutti che sono 90 i giorni entro i quali la legge permette l’interruzione e in quella fase così delicata che abbraccia la scoperta, la presa di coscienza e la decisione, periodo concitato e pieno di dubbi, quei 90 giorni volano e ogni ritardo può essere determinante affinché l’interruzione si compia.
Ha sollevato un vespaio di critiche la scelta del Governatore Zingaretti, di richiamare i consultori ai propri doveri, occupandosi di prescrivere anticoncezionali, dare pillole del giorno dopo e seguire le donne nel percorso di interruzione, così come la legge prescrive e nella funzione affidata ai governatori dalla legge stessa.
Zingaretti decide, i movimenti per la vita esplodono accusando il governatore di permettere che così sia tradito il senso della legge che, a loro dire, non nasce per «preparare l’interruzione di gravidanza ma fare il possibile per evitarla», sostenendo che la delibera regionale violasse «il diritto fondamentale all’obiezione di coscienza», e le convenzioni europee.
Tutto questo Arriva in tribunale e il Tar del Lazio, con sentenza ha respinto, ritenendoli “infondati”, i ricorsi del Movimento per la vita e delle associazioni dei medici cattolici contro la delibera con cui la Regione Lazio imponeva ai consultori familiari pubblici di rispettare i loro doveri.
La sentenza fa un ulteriore passo richiamando i movimenti stessi e i medici obiettori a ricordare bene quando e come è possibile “obiettare” e sottrarsi ad alcune pratiche.
L’obiezione, secondo la legge 194, non può esonerare «dall’assistenza antecedente e conseguente l’intervento», per questo, scrivono, «è da escludere che l’attività di mero accertamento dello stato di gravidanza richiesta al medico di un consultorio si presenti come atta a turbare la coscienza dell’obiettore, trattandosi, per quanto sopra chiarito, di attività meramente preliminari non legate al processo d’interruzione».
Una riflessione che non troviamo nella sentenza ma che si lega intrinsecamente al tema riguarda l’obiettare di prescrivere anticoncezionali, o pillole post cito, che risultano essere lo strumento migliore per evitare gravidanze indesiderate e traumatiche interruzioni delle stesse.
Alle volte viene da domandarsi se l’apertura che la Chiesa ha dimostrato parlando di “maternità e paternità responsabile” è stata capita ed interpretata da chi si fa paladino contro le interruzioni.
In un mondo in cui il sesso non è più taboo e non è più il motivo per cui bruciare all’inferno, ha senso portare ancora avanti la lotta contro la contraccezione? Ha senso far rischiare ai nostri giovani paternità e maternità deleterie?
Il governatore del Lazio ha più volte dato la sua linea riguardo il tema della 194 attraverso anche il concorso fatto appositamente per medici non obiettori. Il concorso indetto nella primavera scorsa dall’ospedale San Camillo, era dichiaratamente rivolto ai ginecologi non obiettori. E per questo duramente attaccato dai movimenti del Family Day.
Anche qui il Tar si schiera a favore della linea data dal Governatore, perché riconosce in queste azioni, scelte necessarie all’applicazione di una legge.
Ora, al di là delle scelte personali ed ideologiche lo stato, in tutte le sue declinazioni amministrative e governative deve consentire che ogni singola legge, sia applicata, e deve permettere che i diritti vengano riconosciuti.
Quindi a 40 anni dalla legge che spaccò l’Italia ma la tirò fuori da un oscurantismo medievale, non si può tollerare in alcun modo che la libertà di uno, obiettore, condizioni la libertà di un altro. Non si può pensare che negare contraccezione e interruzioni porti le donne a partorire, questa becera opposizione passiva, alimenta l’aborto clandestino ancora praticato e assai pericoloso.
Non si tratta di femminismo, che sicuramente all’epoca ebbe un ruolo rilevante alla critica alla famiglia e alla società che incatenata la donna a doveri senza alcun riconoscimento di volontà; non si tratta di cattolici e non cattolici; si tratta solo di applicare una legge che uno stato moderno e avanzato socialmente ha riconosciuto 40 anni fa necessaria alla tutela della salute della donna.
Torni al centro questo, e i servizi siano organizzati mettendo al primo posto l’utenza e non la propria personale e parziale visione del mondo.