Fonte: Laterza
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NOVE SU DIECI – DI MARIO PIANTA – ed. LATERZA
Una «grande redistribuzione» per uscire dalla crisi
di Mario Pianta
Ogni ricco ha il reddito di cento poveri.
Non è l’Inghilterra di Dickens, è l’Italia di oggi. Redditi e ricchezza si sono concentrati nelle mani di una persona su dieci. Le altre nove – quasi tutti noi – stanno peggio di dieci anni fa, sono i ‘perdenti’, divisi in mille modi – tra uomini e donne, tra vecchi e giovani, tra Nord e Sud – ma uniti dal declino.
Com’è potuto succedere? Togliere ai poveri per dare ai ricchi, rendere il lavoro più debole e il capitale più forte è da trent’anni l’orizzonte del liberismo. Da qui ha origine la crisi attuale, in Europa e in Italia.
In Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa Mario Pianta traccia il declino di un’economia italiana con sempre meno produzione, lavoro e salari. Spiega l’illusoria ascesa della finanza internazionale – che ha portato al crollo del 2008 – e le ragioni della crisi europea scoppiata intorno al debito pubblico, che non accenna a finire. Mostra come è cambiata la distribuzione del reddito, con profitti e rendite finanziarie che crescono e redditi da lavoro in picchiata.
Ma ci sono anche le politiche che si potrebbero realizzare per cambiare strada: evitare una grande depressione, costruire un benessere sostenibile, avere un’economia più giusta.
Ecco qualche esempio.
Come fare una «grande redistribuzione»
La quantità e qualità dell’occupazione, e il livello dei salari stabiliscono la parte del reddito nazionale guadagnato dal lavoro. Le altre due quote sono quelle che vanno alle imprese come profitti e alla finanza come interessi e rendite; queste dipendono dalle dimensioni e caratteristiche della ricchezza. Ma tra i redditi guadagnati e quelli che si spendono ci sono […] tre passaggi: l’effetto dell’inflazione, che trasforma i redditi nominali in redditi reali; l’effetto delle imposte, che trasforma i redditi lordi in redditi netti; l’effetto delle famiglie, in cui si combinano redditi di diversa natura. Nella distribuzione del reddito c’è stata negli ultimi vent’anni una «grande redistribuzione», da nove italiani su dieci, al 10% dei più ricchi.
Questa crescente disuguaglianza è il risultato di cambiamenti nei meccanismi di mercato e rapporti di potere che decidono le tre grandi «fette» – lavoro, profitti e rendite – della «torta» del reddito nazionale; dipende dai diversi effetti dell’inflazione sui diversi tipi di reddito; ma è soprattutto il risultato dell’azione dello Stato attraverso il prelievo fiscale da un lato, i trasferimenti di risorse e la fornitura di servizi pubblici dall’altro. Nella maggior parte dei paesi europei l’azione pubblica ha un grande ruolo nel ridurre le disuguaglianze che emergono dal mercato e il dibattito sulla redistribuzione è già cominciato; in Francia il responsabile economico del Partito socialista e un dirigente sindacale hanno scritto un libro dal titolo Bisogna far pagare i ricchi (Drezet e Hoang Ngoc, 2010).
Che cosa può fare la politica in Italia per evitare una deriva che rende più ricchi pochi ricchi e rende più poveri tutti gli altri italiani?
Limitare gli eccessi nel divario tra le remunerazioni
Si può pensare a limitare gli eccessi nel divario tra i superstipendi di manager (e personaggi dello spettacolo) e quelli dei lavoratori; si potrebbe individuare l’obiettivo che il rapporto tra il dipendente più pagato e quello meno pagato di un’impresa o di un’amministrazione pubblica sia di 25 a 1. Tale rapporto dovrebbe essere vincolante per le istituzioni pubbliche. Per le imprese private, potrebbero essere introdotte misure che favoriscano scelte coerenti con una tale convergenza dei redditi; ad esempio, le imprese che superino tale rapporto potrebbero essere escluse dall’accesso ad agevolazioni fiscali, incentivi o appalti pubblici. Tale proposta è di particolare attualità negli Stati Uniti, dove il Presidente guadagna circa 25 volte lo stipendio del lavoratore del governo federale peggio pagato; anche il «guru» aziendale Peter Drucker ha suggerito che un rapporto di 25 a 1 tra i redditi più alti e più bassi assicura un equilibrato sistema di incentivi e una maggior efficienza produttiva.
Cambiare la struttura dell’imposizione fiscale
In Italia la tassazione pesa in modo del tutto anomalo sul lavoro dipendente. […] Le entrate fiscali dovrebbero venire molto di più dalla ricchezza […], dal lavoro autonomo, e da tasse ambientali. Queste ultime comprendono la tassazione sulle emissioni inquinanti (anidride carbonica e altri gas serra), sull’uso di risorse non rinnovabili e sulle risorse naturali pubbliche (acqua, ecc.) e possono essere introdotte con varie modalità (carbon tax, aliquote Iva differenziate, maggiori oneri per l’uso di risorse pubbliche). È stato stimato che, a regime, le tasse ambientali potrebbero generare entrate di 50 miliardi di euro l’anno.
Tassare la ricchezza
[…] Secondo l’Istat, la ricchezza finanziaria netta delle famiglie italiane è la più alta d’Europa. Ed è anche molto concentrata. La proprietà immobiliare è più distribuita, con la diffusione della proprietà della casa di abitazione, ma anche qui esistono grandi patrimoni che sono stati gonfiati dal boom dei valori immobiliari degli ultimi dieci anni.
La tassazione sui redditi dai patrimoni finanziari è sempre stata tra le più basse in Europa ed è stata innalzata solo negli ultimi mesi. La tassazione sugli immobili è stata drasticamente ridotta con l’abolizione dell’Ici sulla prima casa da parte del governo Berlusconi, ripristinata ora in nuove forme dal governo Monti.
Le possibilità più concrete riguardano l’introduzione di un’imposizione regolare sui patrimoni che sostituisca l’inefficace imposizione sui redditi che ne derivano. Da molti anni questa proposta viene avanzata dalla campagna Sbilanciamoci! che, nel suo Rapporto 2012, propone una tassa del 5 per mille su tutti i patrimoni superiori a 500 mila euro, da cui potrebbero essere ricavati oltre 10 miliardi di euro. La stessa aliquota per un’imposta patrimoniale annuale è stata proposta da Guido Tabellini, rettore della Bocconi, in contrasto con le proposte di una patrimoniale «una tantum» destinata a ridurre il debito. Nell’estate 2011 Confindustria ha annunciato, tra i «cinque punti» del suo programma, la proposta di una tassa dell’1,5 per mille sui patrimoni che dovrebbe sostituire il gettito di imposte sul reddito e Irap sulle imprese.
Il consenso per una tassazione dei patrimoni sembra così molto ampio, e tuttavia la manovra di Mario Monti che ha reintrodotto la tassazione degli immobili non ha previsto nulla sulla ricchezza finanziaria. Pur tenendo conto della complessità dei problemi e della ricerca delle modalità più efficaci, un intervento che introduca la tassazione regolare dei patrimoni è essenziale sia per affrontare l’emergenza dei conti pubblici italiani, sia per alleggerire il carico fiscale del lavoro dipendente e iniziare a ridurre le disuguaglianze.
Un’altra strada che è stata proposta è la tassazione «una tantum» dei patrimoni per arrivare a una drastica riduzione del debito pubblico. La proposta del banchiere Pietro Modiano è di tassare i patrimoni del 20% più ricco degli italiani, che dispongono di un valore imponibile (case escluse) di 2200 miliardi circa; se si escludono anche i titoli di Stato e si applicasse un’aliquota del 10%, le entrate sarebbero di circa 200 miliardi e il rapporto debito pubblico/Pil si avvicinerebbe al 100%. Gli effetti positivi di questa riduzione del debito sugli interessi pagati con la spesa pubblica potrebbero essere vicini ai 30 miliardi di euro.
Reintrodurre l’imposta di successione
L’ossessione di tutelare i privilegi ha fatto sì che nel decennio passato l’imposta che da sempre colpisce la trasmissione di ricchezza agli eredi sia stata attenuata dai governi Prodi e cancellata dai governi Berlusconi. Ora la chiedono gli stessi miliardari – negli Stati Uniti perfino con inserzioni a pagamento sui maggiori quotidiani – sulla base del principio che i loro figli devono essere capaci di arricchirsi, non spendere semplicemente le eredità ricevute. Anche da un punto di vista «liberale», l’imposta di successione rappresenta un meccanismo importante di redistribuzione che contribuisce a ridurre le disuguaglianze di opportunità. In un paese come l’Italia, con mobilità sociale assai più bassa degli altri, un ritorno dell’imposta di successione – con aliquote più elevate che in passato – sarebbe un elemento di equità che contribuirebbe a nuove fonti di entrate per lo Stato, da utilizzare anche per alleggerire l’imposizione fiscale sul lavoro dipendente.
Ridurre l’evasione fiscale
È un problema «storico» dei comportamenti di imprese, professionisti, lavoratori autonomi e della politica italiana. È stato aggravato negli anni dei governi Berlusconi da una successione di condoni di ogni tipo – su irregolarità fiscali, abusi edilizi, ecc. – e da riduzioni dei vincoli e dei controlli. Sono moltissime le analisi (Santoro, L’evasione fiscale, 2010) e le proposte per intervenire sui diversi fronti rilevanti: l’emersione delle attività economiche, i vincoli ai pagamenti in contanti, i controlli incrociati tra dichiarazioni dei redditi e consumi opulenti, le valutazioni di redditi presunti su cui basare la tassazione, ecc. Su questi temi è necessaria una strategia d’insieme che riduca gli spazi e la tolleranza per l’evasione e che porti a risultati significativi in termini di entrate fiscali. In questo modo sarebbe possibile ridurre il carico fiscale sui lavoratori dipendenti e si potrebbe riequilibrare la distribuzione del reddito.
Progressività, tasse di scopo, imposte indirette differenziate
In materia fiscale sono possibili infine una serie di altri interventi correttivi complementari alle politiche sopra delineate. I criteri di equità e la riduzione delle disuguaglianze richiedono un ritorno a una più forte progressività dell’imposizione. L’idea che chi più ha più deve contribuire alle attività pubbliche, con aliquote fiscali crescenti all’aumentare del reddito, è da sempre al centro dei sistemi fiscali «liberali», ma si è largamente perduta negli ultimi decenni, con la riduzione del numero di aliquote e della tassazione sui più ricchi. La giustificazione abitualmente offerta è che, vista l’elevata evasione da parte di professionisti e lavoratori autonomi, il numero di contribuenti con alti redditi da lavoro dipendente – manager, dirigenti, ecc. – è limitato, e aliquote più alte non fornirebbero un gettito significativo. Al di là delle dimensioni del gettito, tuttavia, la progressività è una questione di principio che va riaffermata. Inoltre, in una prospettiva di alleggerimento dell’imposizione sui redditi da lavoro, è necessario che gli sgravi si concentrino esclusivamente sulle fasce di reddito più basse, ripristinando significativi differenziali di imposizione.
Un secondo strumento fiscale che si può considerare è l’introduzione di tasse di scopo, cioè di imposte – a livello nazionale o locale – che colpiscono attività particolari da scoraggiare, il cui gettito viene vincolato al finanziamento di attività pubbliche connesse che migliorano il benessere collettivo.
Un analogo strumento per incoraggiare alcune attività economiche e scoraggiarne altre è la modifica delle aliquote Iva e altri strumenti di imposizione indiretta. Nella prospettiva di favorire lo sviluppo di un’«economia verde», di attività ad alto contenuto di conoscenza, di servizi per la salute e il benessere, può essere opportuno differenziare l’imposizione indiretta tra beni e attività che fanno parte dei problemi da superare e quelli che, dall’altro lato, rappresentano soluzioni da sostenere.
L’elenco delle misure possibili potrebbe essere ancora lungo e sono naturalmente necessarie valutazioni approfondite degli effetti economici, sociali e redistributivi che le proposte qui avanzate possono avere. Tuttavia, di fronte ai problemi italiani – il declino economico, l’aggravarsi del divario tra ricchi e poveri, l’emergenza del debito pubblico – soltanto una «grande redistribuzione» può trovare le risposte (e le risorse) adeguate. Va colpito in primo luogo lo stock di ricchezza accumulata negli ultimi vent’anni, che non ha sostenuto gli investimenti e lo sviluppo del paese, e va riorganizzato il sistema fiscale in modo da colpire meno il lavoro dipendente e di più profitti e rendite, spostando l’imposizione sulle attività che hanno effetti negativi sull’ambiente.
Una strategia di questo tipo potrebbe trasformare le entrate pubbliche con effetti concreti sui redditi dei cittadini. Una valutazione indicativa è che ogni anno circa 30 miliardi di euro potrebbero essere ricavati dalle misure qui proposte; nell’ipotesi di mantenere invariato il gettito fiscale complessivo, queste risorse potrebbero essere utilizzate per ridurre le imposte dirette sui lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi, che versano allo Stato ogni anno circa 150 miliardi di euro. Questi otterrebbero una riduzione media di circa il 20% delle imposte pagate, con un significativo aumento dei redditi disponibili; gli effetti sulla domanda, sulla riduzione della povertà e del disagio sociale sarebbero immediati e la ripresa dell’economia alimenterebbe nuove entrate fiscali che aumenterebbero i margini di manovra delle politiche. A essere colpito sarebbe soprattutto il 10% degli italiani più ricchi. A beneficiarne direttamente sarebbero quasi tutti gli altri. E la ripresa dell’economia farebbe poi bene anche ai più ricchi.
Naturalmente, la realizzazione della «grande redistribuzione» dev’essere attenta alle situazioni specifiche delle persone e dei gruppi sociali: giovani che non lavorano né studiano, giovani lavoratori precari, donne, immigrati, lavoratori messi fuori dal mercato del lavoro, anziani con pensioni minime, soggetti svantaggiati, residenti nel Mezzogiorno, ecc. La distribuzione delle risorse deve andare ai salari di chi lavora, ai redditi di chi il lavoro l’ha perso o non lo trova, alle situazioni di povertà. Ricordiamoci che due terzi delle famiglie italiane (quattro quinti al Sud) dichiaravano all’Istat che nel 2007 (prima della crisi) non erano riuscite a risparmiare nulla del proprio reddito e un terzo delle famiglie (quasi la metà al Sud) dichiarava all’Istat di non riuscire ad affrontare una spesa imprevista di 700 euro (Istat, 2010).
La politica, anche quella fiscale, potrebbe insomma ritrovare un ruolo che sembrava perduto, con i governi schiacciati dal «pensiero unico» liberista sul ritiro dello Stato, la riduzione delle imposte e il lasciar fare ai mercati. Ma, per far funzionare l’azione pubblica in questa direzione, è necessario che molti, tra quei «nove su dieci» degli italiani, decidano di «riprendersi» la politica.
Mario Pianta, Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa, pp. 145-149
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Mario Pianta, docente di Politica economica all’Università di Urbino, fa parte del Centro Linceo Interdisciplinare “Beniamino Segre” dell’Accademia Nazionale dei Lincei. È stato fellow all’European University Institute, alla London School of Economics, all’Université de Paris 1 Panthéon-Sorbonne e alla Columbia University ed è tra i fondatori della campagna “Sbilanciamoci!” sulle alternative di politica economica.