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di Luca Billi – 29 agosto 2016
Una tragedia serve a far capire un popolo, perché ne svela l’anima, nei pochi pregi e nei molti difetti. E’ come questo terremoto che ci ha colto nel cuore della notte, quando non indossiamo le maschere che siamo abituati a portare di giorno, e ha lasciato le nostre case aperte alla curiosità morbosa degli altri. Una tragedia fa vedere quello che non vogliamo far vedere.
Leggendo le cronache del terremoto di Accumoli e di Amatrice emerge un’Italia solidale, che si mette in fila per donare sangue, che dona generi alimentari e vestiti, che in molti casi si organizza e parte per andare là dove c’è bisogno, in sostanza un’Italia di cui andare fieri. Questa spinta altruista – in gran parte sincera – ha portato molti a dire che in fondo l’Italia vera è migliore di come ci siamo abituati a raccontarla. Mi spiace: è un’illusione. L’Italia vera è perfino peggiore di come ci siamo abituati a raccontarla. E questa tragedia ce lo ricorda ogni giorno.
Oggi piangiamo trecento vittime che, come si usa dire ai funerali, sono state tutte brave persone, oggi siamo solidali con chi ha subito questa catastrofe, ma quanti di quelli che hanno subito il terremoto avevano commesso un qualche abuso edilizio, poi prontamente condonato? Quanti di loro si erano lamentati perché per ristrutturare la vecchia casa del nonno sarebbero stati necessari pareri e nullaosta particolari e magari hanno cercato di superare l’ostacolo chiedendo un favore al parente geometra o pagando una piccola una tantum al funzionario di turno? Quanti avevano preso una finta residenza nel paesello in campagna, pur non abitandoci, per non pagare le tasse comunali, lasciando così quelle amministrazioni con sempre meno risorse? Ovviamente non è colpa di questi comportamenti se è venuto il terremoto proprio lì – Posideone, il dio dei terremoti, non è aduso a queste vendette così dirette, come non ci ha voluto punire per le unioni civili o per i gay pride – e forse non è neppure colpa di questi comportamenti se proprio quelle case sono cadute, ma certo non hanno aiutato alla cura e alla manutenzione del territorio, considerando quanto queste pratiche siano diffuse, in tutto il paese, anzi ne costituiscano un tratto unificante, da nord a sud.
Tra chi ha subito questo terremoto – e prima quello dell’Emilia e prima ancora quello dell’Abruzzo – quanti hanno considerato come Cassandre gli esperti che in questi anni hanno inutilmente tentato di metterci in allarme rispetto al nostro modello di sviluppo? Quanti hanno continuato a votare per quei politici che, pur spendendo bellissime parole a difesa del territorio, hanno continuato a far costruire anche dove sarebbe stato meglio non farlo? Quanti hanno in sostanza anteposto i loro interessi a quelli della comunità in cui vivevano? Perché, ammettiamolo pure, sia che sventoliamo il tricolore sia che lo dileggiamo, quello che ci importa davvero non è rendere più forte la comunità in cui viviamo, ma solo difendere i nostri piccoli privilegi, le nostre piccole ricchezze. Non ci importa che la casa del vicino sia crollata, siamo contenti perché la nostra non lo è, oppure ci rammarichiamo perché lui prende gli aiuti e noi no. E se li prende lui li pretendiamo anche noi.
Immagino che un po’ di persone avranno già smesso di leggere questo articolo così poco rispettoso verso i morti, verso i feriti, verso chi ha perso la propria casa. Non dico affatto che se lo siano meritato, nessuno merita una simile punizione – nemmeno chi ha scientemente costruito male pur di guadagnare di più, chi ha lucrato sulla ricostruzione, chi ha rubato in occasione degli altri terremoti e chi ruberà su questo – ma voglio invitare tutti noi a smetterla con questa retorica melensa e a guardare in faccia la realtà, per quanto nauseabonda. Voglio che pensiamo a quanto del peggio di noi mette in luce questa tragedia. A molti hanno fatto schifo quelli che in questi giorni hanno sfruttato il sisma per fare propaganda contro i migranti, ma si tratta di un pensiero largamente diffuso, che molti in maniera ipocrita preferiscono non mettere in piazza, salvo poi votare quei politici, di tutti i colori, che garantiscano che “quelli là” abbiano un po’ meno diritti.
A tutti quelli che in questi giorni hanno detto che è uno scandalo che i terremotati dormano nelle tende mentre i migranti stanno negli alberghi vorrei chiedere dove dovrebbe dormire uno straniero che ha perso la sua casa ad Amatrice: in albergo perché è un terremotato o nella tenda perché si chiama Mohammed?
Magari di questo terremoto parleremo qualche giorno in più perché, rispetto all’Emilia, gli amici di Amatrice e di Accumoli hanno avuto la “fortuna” di subire il terremoto in un momento in cui ci sono poche notizie, prima che ricominci settembre, prima che entrino nel vivo la campagna per il referendum, le presidenziali americane, il campionato di calcio, ossia cose ben più importanti che le quattro vecchie case di paesini dimenticati nell’Italia centrale. Ancora per qualche giorno gli organi di informazione ci offriranno un po’ di quella pornografia che ci piace tanto: storie di bambini senza genitori e di genitori senza bambini, di cani senza padroni e di padroni senza cani, e magari di un cane che è morto per salvare un bambino che ancora non sa di essere orfano: con una storia del genere certi personaggi ci campano per interi pomeriggi. Poi ci puliamo la coscienza inviando un sms solidale, per pentircene immediatamente dopo aver premuto il tasto invio, perché siamo convinti che qualcuno si ruberà quei nostri due euro. Forse perché noi li ruberemmo.
Sono cinico? Certamente si, ma quanti sciacalli si sono scatenati in queste ore. E non mi riferisco a quei poveri sfigati che sono arrivati fin lassù per andare a rubare nelle case lasciate incostudite dai legittimi proprietari, ma da tutti quelli che hanno approfittato – e approfittano – del sisma per scrivere un articolo commovente, per scattare una fotografia da prima pagina, gli editori che già hanno in cantiere un instant book sul sisma, i manager musicali che organizzeranno i concerti benefici, i benefattori a uso delle telecamere, i politici locali che già si immaginano a Roma, perché a qualcuno degli amministratori terremotati tocca sempre far carriera. Magari qualcuno che ha perso la casa sarà chiamato al Grande fratello, allora sì che avrebbe “svoltato”: il terremoto di Amatrice vende meglio perfino del naufragio della Concordia. Ognuno per sé, perché la mia fortuna dipende soltanto dalla sfortuna di tutti gli altri, a cui non rimane che l’invidia.
La malcelata meraviglia con cui in questi giorni raccontiamo i gesti di gratuita generosità, descriviamo l’efficienza di alcuni interventi, lodiamo l’abnegazione di tanti volontari, è il segnale che questi comportamenti non sono la regola, ma le eccezioni, a cui si guarda con invidia, perché non ne saremmo stati capaci, ma soprattutto con stupore, perché non sappiamo più riconoscerne i caratteri. In un mondo in cui tutti abbiamo un prezzo, in cui ogni nostra azione viene valutata per quello che fa guadagnare, i gesti gratuiti sono scandalosi e infatti pensiamo che lo facciano con qualche secondo fine. E probabilmente molti fanno del bene soltanto perché pensano al modo di guadagnarci, magari anche solo un’intervista televisiva o qualche like in più sotto una foto di Facebook. Eppure qualche sacca di resistenza ancora rimane: persone che fanno bene il proprio lavoro e perfino qualcuno che fa qualcosa per gli altri in maniera gratuita, senza chiedere nulla, neppure un piccolo posto in paradiso. Personalmente credo che siano destinati a soccombere anche loro finalmente, così la smetteranno di farci sentire peggiori. Sgominate queste persone perbene saremo liberi di essere tutti sciacalli con attaccato sulla schiena il codice a barre del prezzo.
Uno dei pochi episodi che mio padre considerava degno di nota della storia così poco eroica della nostra famiglia, ma che pure citava con una certa ritrosia, fu la decisione di ospitare per diverse settimane delle persone che erano sfollate a seguito dell’alluvione del Polesine del 1951. Fu una scelta difficile, perché la guerra era finita da pochissimi anni, perché la vita era dura per tutti, però quello è stato un gesto capace di raccontare una comunità. C’era in quella decisione l’orgoglio di dimostrare che i comunisti potevano organizzare gli aiuti a quelle famiglie così duramente colpite meglio dello stato e soprattutto meglio della chiesa, ma c’era soprattutto la solidarietà tra poveri, tra persone che sentivano di far parte della stessa storia, nel bene, non molto allora, e nel male, molto di più.
In fondo da allora è passata soltanto una generazione, qualcuno che ha vissuto quella stagione vive ancora, eppure siamo lontani secoli da quel mondo. Solo qualche anno prima di quella lontana catastrofe ambientale un grande intellettuale capì cosa saremmo diventati: è la forza della poesia. Eduardo in Napoli milionaria! ci fa vedere come la sua città – e tutto il paese – sia passata attraverso la tragedia della guerra: ci svela le bassezze, quello che non avremmo voluto vedere, quello che molti fingevano di non vedere, quanto l’ossessione del denaro, delle mille lire, avesse corrotto le persone. La protagonista, diventata ricca con la borsa nera, capisce solo alla fine cosa sia successo alla sua famiglia, quando tutti quei soldi non le servono neppure per comprare la medicina che può salvare la vita di sua figlia malata. Ormai sappiamo quello che Eduardo non ci ha voluto dire o che forse sperava ancora che non sarebbe accaduto: è passata la nottata e quella bambina è morta.