Norberto Bobbio: Contro il presidenzialismo
Riproponiamo l’articolo di Norberto Bobbio, grande filosofo, pubblicato su La Stampa l’1 febbraio 1996 in occasione del dibattito di allora sul presidenzialismo.
Che Gianfranco Fini fosse un presidenzialista convinto e intransigente, lo sapevamo da un pezzo. Si dice che il presidenzialismo non è di per se stesso una forma di governo antidemocratica, quando il Presidente è eletto dal popolo. Ma come mai il più accanito presidenzialista nello schieramento politico italiano è il leader di un partito che affonda le sue radici nell’Italia fascista, e ne ha conservato, nonostante le ripetute dichiarazioni in contrario, alcune idee fondamentali, come ha giustamente scritto ieri Sergio Romano su questo giornale?
Si cerca di sedurre il cittadino raccontandogli che il presidenzialismo non solo non è antidemocratico, ma è addirittura un sistema politico che gli permette di “contare di più”. Ma è proprio vero? Affinché il singolo cittadino possa contare politicamente, occorre che fra l’elettore e l’eletto vi sia un rapporto di fiducia. E invece, chi elegge un Presidente per quattro anni, come negli Stati Uniti, o addirittura per sette, come in Francia, una volta gettata la scheda nell’urna, non conta più nulla. I cittadini americani lo sanno così bene che circa la metà non va neppure a votare.
Se non avessimo sempre saputo che Fini è un presidenzialista, lo avremmo bene appreso in questi giorni dal modo brutale con cui ha sconfessato il professore Domenico Fisichella, l’esperto che lui stesso aveva nominato come membro del piccolo comitato cui era stato dato l’incarico di redigere un primo abbozzo di riforma. Sconfessato perché quell’abbozzo cercava di venire incontro alle richieste di riforma senza essere presidenzialista.
Infantile è l’idea che non ci siano altre soluzioni che la repubblica presidenziale per rafforzare l’esecutivo, separarlo dal legislativo, e quindi eliminare la piaga dei governi che durano pochi mesi. (A ogni modo, sempre meglio cinquanta governi in cinquant’anni, che uno solo in venti!). Infantile, e proprio per questo poco gradita alla maggior parte dei costituzionalisti italiani. Non capisco perché Giovanni Sartori – e sono un po’ a disagio nel dirlo per la stima e l’affetto che ho per lui – abbia intrapreso con tanta ardimentosa tenacia, e non c’è che dire, con tanta competenza, la crociata per il presidenzialismo alla francese. È stata, questa, una forma di governo, oggi in crisi, inventata apposta per il generale de Gaulle, cui le vicende tragiche della Francia (come, del resto, di tutta l’Europa) avevano dato una legittimazione storica a governare il Paese come capo indiscusso della Resistenza alla dominazione nazista.
C’è da domandarsi con una certa apprensione chi oggi potrebbe essere in Italia il maggior beneficiario di un’elezione diretta del capo dello Stato in uno dei momenti più oscuri della storia del nostro Paese. Tra l’altro, proprio in questi giorni abbiamo appreso che il 67 per cento degli italiani, quelli che dovrebbero eleggere il nuovo Presidente chiamato a salvare il Paese dalla crisi morale e politica in cui è caduto, sono favorevoli alla pena di morte. In realtà, quello che Fini vuole ottenere ponendo il veto alla soluzione proposta, pur mostrandosi dispostissimo, perché non costa niente, alla continuazione delle trattative, non è tanto riaffermare il principio irrinunciabile della repubblica presidenziale, quanto – ostacolando il confronto tra il polo di destra e il polo di sinistra – affrettare le elezioni. Sempre più difficile, lo riconosco, a questo punto, far finta di niente.
In molti siamo convinti che anche le elezioni senza una nuova legge elettorale e senza un minimo di soluzione del conflitto di interessi con il principale leader del polo di destra, siano per il nostro Paese un gravissimo errore. Se ne può fare a meno? Siano almeno, le nuove elezioni, per entrambi i poli (o, se non altro, per la parte più assennata di entrambi) un’occasione per raccogliere le proprie truppe sparse, ristabilire tra i vari gruppi e gruppetti in continua rissa fra di loro quel minimo di unità senza la quale la battaglia è perduta prima ancora di cominciare. L’Italia dei due poli alternativi è ancora molto lontana. La prima prova è già fallita. C’è da temere che fallisca anche la seconda. Durante l’incontro tra Berlusconi e D’Alema, Bruno Vespa, che lo conduceva, diede notizia di un sondaggio, secondo il quale il 32 per cento degli interpellati preferisce il centro-sinistra, il 29 per cento il centro-destra, il 20 per cento li rifiuta tutti e due. Come si vede, il bipolarismo è contestato. In quel 20 per cento ci sono da un lato gli indifferenti, dall’altro coloro che occupano le ali estreme, dure a morire, fascisti e comunisti che hanno sempre resa malferma e pericolante la nostra democrazia.