Non piangere più, Argentina!

per Maddalena Celano
Autore originale del testo: Maddalena Celano
Fonte: Ideologia Socialista
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Non piangere più, Argentina!

di Maddalena Celano

Su la testa, Argentina!, Desaparecidos e recupero della memoria storica (Libri Liberi, Firenze, 2017), un intrigante saggio documentaristico di Orlando Baroncelli, scrittore fiorentino e redattore di “Testimonianze”, conosciuto durante la mia intervista, tenutasi questo martedì 16 marzo 2021 a Radio Revoluciòn, sul mio ultimo saggio Donne cubane l’ altra metà della Rivoluzione (CTL Libeccio, Livorno, 2020).

Leggendo il saggio di Baroncelli, si potrebbe dire che l’Argentina abbia fatto i conti con il suo passato: nel 2017, ventinove ex ufficiali della marina hanno fatto notizia, dopo essere stati condannati all’ergastolo per aver preso parte ai cosiddetti vuelos de la muerte, un metodo di uccisione che consisteva nel narcotizzare e gettare via le vittime, da aerei militari, per garantire che i corpi dei sovversivi rapiti “non venissero più ritrovati”. Poco dopo, gli sforzi della società civile sono stati ripagati con il recupero dell’identità delle nipoti 126 e 127, due delle centinaia di bambini rubati che sono nati in cattività, che hanno cambiato identità e hanno vissuto per decenni ignari dei loro veri nomi, e quello dei loro genitori biologici. All’inizio dell’ agosto del 2018, Marcos Eduardo Ramos è diventato il nipote 128, l’ultima persona a scoprire la sua vera identità dopo la guerra sucia.

Man mano che emergono più informazioni, nuove speranze di riconciliazione riaffiorano in una società profondamente fratturata. Si potrebbe credere che gli argentini – o almeno alcuni segmenti della popolazione – siano desiderosi di comprendere le reali complessità che hanno dato origine a un periodo di terrorismo sponsorizzato dallo stato. La riconciliazione, tuttavia, rimarrà lontana dall’essere realizzata se l’Argentina non promuoverà un discorso più completo sulla violenza inflitta dai guerrieri urbani come i Montoneros e l’Esercito Popolare Rivoluzionario (di seguito ERP) e la repressione seguita sotto la dittatura come parte della sua memoria. L’animosa, necessaria opera di memoria  è ricostruita dal libro di Orlando Baroncelli, Su la testa, Argentina!, Desaparecidos e recupero della memoria storica (Libri Liberi, Firenze, 2017), un testo documentaristico che ricostruisce, con accurati dossier, il processo di riorganizzazione nazionale [“El Proceso”], riferendosi agli anni 1976-1983, in cui un gruppo di giunte militari salì al potere in Argentina tra gravi tensioni sociali, radicalismo politico e inflazione sconcertante. “Su la testa, Argentina!”, (Libri Liberi), che nel 2009 vinse il premio “Firenze per le culture di pace”, ha lo scopo di richiamare alla memoria la tragedia dei “desaparecidos”, a trent’anni dal ritorno dell’Argentina alla democrazia. L’autore, Orlando Baroncelli, ha affrontato la questione del lungo e doloroso percorso che ha portato Buenos Aires alla democrazia, alla consapevolezza e all’accettazione di quanto accaduto. Nel 1983, con il presidente Raúl Ricardo Alfonsín, fu varata sia la cosiddetta legge dell’obbedienza finale che lasciava impunito chiunque avesse commesso un crimine sotto un ordine, compreso l’omicidio o la tortura, sia la legge del punto finale che sospendeva tutti i processi penali. Tali leggi, ha ricordato Baroncelli, furono dichiarate incostituzionali solo nel 2005 dietro l’impulso dei processi che si svolsero in contumacia nei Paesi europei e grazie all’operato del nuovo presidente Néstor Carlos Kirchner che già nel 2003 aveva annullato le impunità. «Con l’incostituzionalità di quelle due leggi – ha commentato Baroncelli – giustizia fu resa alle madri e alle nonne di plaza de Majo». Il generale Jorge Rafael Videla, prese il controllo del paese nel 1976 dopo aver rovesciato la presidentessa Isabel Martinez de Perón, la terza e ultima moglie di Juan Domingo Perón, un populista che ha gettato le basi dell’apparato politico argentino all’inizio del XX secolo. Baroncelli sottolinea che comprendere l’ascesa della dittatura che ne è seguita, richiede uno sguardo al contesto politico dei primi anni Settanta e un’evidenziazione dell’influenza del movimento peronista nella moderna politica argentina. Juan Perón, è noto per aver condotto un periodo di breve stabilità postbellica stringendo alleanze strategiche con sindacalisti e industriali. La popolarità di Perón è stata rafforzata anche dal carisma di “Evita” , la sua seconda moglie, che gli valse l’accettazione tra i poveri e le classi lavoratrici prima della sua morte prematura nel 1952. Nel 1955 Perón, lui stesso militare, fu estromesso dall’esercito e mandato in esilio fino al ritorno al potere nel un contesto di frammentazione tra l’ala sinistra e quella destra del movimento peronista, una drastica recessione economica e la violenta radicalizzazione della guerriglia urbana. Baroncelli ricorda che, dal 1976 al 1983, durante una brutale campagna della giunta militare al potere per “purificare” la società sradicando i dissidenti di sinistra, le forze di sicurezza in Argentina hanno strappato decine di migliaia di civili dalle loro case o dalle strade, rinchiudendoli nelle prigioni clandestine e nei centri di detenzione. Interrogati, torturati e talvolta violentati. La maggior parte di queste vittime – tra le quindici e le trentamila persone – furono infine giustiziate. Molte erano donne e alle donne che partorivano in prigione sono stati portati via i loro neonati e affidati a nuove famiglie, legate al regime. Molti dei parenti delle vittime non hanno mai saputo cosa fosse successo ai loro cari, che sono diventati noti come “los desaparecidos”, ovvero “gli scomparsi”. Questi terribili eventi, all’epoca inclusi nella rubrica ufficiale del “Processo di Riorganizzazione Nazionale” (PNR), sono popolarmente conosciuti come “Guerra Sporca”. Nei decenni trascorsi dal ritorno del paese alla democrazia nel 1983, gli argentini hanno lottato per venire a patti con questa eredità di violenza. Le successive amministrazioni politiche hanno vacillato tra la concessione della piena amnistia agli autori e la richiesta di indagini, portando alla fine alcuni di loro al processo e alla condanna. Una simile lotta per la riconciliazione sta avvenendo all’interno della Chiesa cattolica argentina. Negli anni ’60, la stragrande maggioranza degli argentini, circa il 90%, era cattolica. Chiesa e Stato erano strettamente legati e la gerarchia cattolica godeva di una posizione privilegiata; molti membri del governo militare si consideravano cattolici e contavano numerosi ecclesiastici e civili cattolici tra i loro sostenitori. Allo stesso tempo, centinaia di sacerdoti, membri del clero e laici sono diventati obiettivi del regime militare. Influenzati dalla Teologia della Liberazione, dal Concilio Vaticano II e dalla Conferenza di Medellín del 1968, questi cattolici si sentirono chiamati a trasformare il mondo lavorando per la giustizia sociale, in particolare ministrando i poveri. Le loro azioni sono state viste con crescente sospetto dalla giunta. La guerra sporca, quindi, era un conflitto tra vittime cattoliche, autori cattolici e testimoni cattolici. Il libro di Orlando Baroncelli “Su la testa, Argentina” (Libri Liberi, Firenze, 2017)  offre una valutazione incisiva ed equilibrata del contesto storico, culturale ed ideologico della “guerra sucia”. Utilizzando un’ accurata bibliografia, interviste approfondite, memorie e documenti governativi, Baroncelli racconta la storia inquietante delle numerose vittime della “guerra sucia” che furono rapite, torturate e imprigionate nelle prigioni clandestine delle maggiori città argentine dell’ epoca. Baroncelli lascia intendere che anche i cattolici, in Argentina, durante la Guerra Sporca, dovrebbero essere classificati in tre gruppi. I primi sono i reazionari antisecolari e conservatori che “volevano ricostruire una fortezza cattolica da difendere dal mondo” e che hanno lavorato all’interno della dittatura militare, o collaborato con essa, per purificare l’Argentina “facendo sparire” le persone che percepivano come sovversive – compresi quei cattolici che hanno lavorato con i poveri. Il secondo gruppo, i cattolici istituzionali, inclusi molti all’interno della gerarchia cattolica, cercò principalmente di preservare la posizione privilegiata della chiesa nei confronti dello stato; di conseguenza, in genere hanno sostenuto il regime militare, evitando pubbliche condanne per le violazioni dei diritti umani, anche se, come sottolinea Baroncelli, molti hanno lavorato dietro le quinte per venire in aiuto dei cittadini perseguitati. Il terzo gruppo, i cattolici impegnati, hanno cercato di affrontare la povertà e l’ineguaglianza nella società. Questo gruppo era quello preso di mira dalla repressione statale, lavoravano nei quartieri più poveri dell’Argentina per educare e difendere i residenti. Le divisioni ideologiche tra i gruppi cattolici sono sorte nel contesto di una svolta repressiva all’interno della politica argentina. Baroncelli afferma che, per diversi anni, prima della dittatura militare, la società argentina era stata afflitta dalla violenza: rivolte di guerriglia da parte della sinistra radicale e successive rappresaglie da parte dello stato peronista indebolito e delle sue bande paramilitari. Di conseguenza, vaste fasce della società, tra cui la Chiesa, gli uomini d’affari, i leader sindacali, i media, i membri della classe media e gli intellettuali, hanno sostenuto la conquista militare, considerandola l’unico modo per portare la pace nel paese,  mai immaginando lo spargimento di sangue che ne sarebbe derivato. I cattolici argentini furono ulteriormente divisi dalla geopolitica della Guerra Fredda. In tutta l’America Latina durante gli anni ’60 e ’70, le dittature militari intrapresero una guerra contro-insurrezionale contro i “nemici dello stato” (di sinistra o accusati di essere di sinistra), con un sostanziale sostegno finanziario e logistico da parte del governo degli Stati Uniti. Queste dittature giustificavano misure extralegali come la tortura, l’interrogatorio, la detenzione e l’esecuzione in nome della campagna anticomunista. In Argentina, il presidente Jorge Videla e altri leader statali, paranoici sull’infiltrazione marxista nella chiesa, hanno bollato i cattolici che hanno lavorato con i poveri come “comunisti” – “nemici che interpretavano male la dottrina cattolica” – e hanno strombazzato la “missione divina” dello stato di purificare il cattolicesimo argentino per liberare il Paese dai cattolici “compromessi”. Verso la metà degli anni ’70, i raid, gli attacchi e gli omicidi del clero cattolico erano diventati quasi all’ordine del giorno.

Uno degli elementi più tragici di questa storia è l’incapacità dei cattolici istituzionali di stare con quei cattolici impegnati che sono diventati vittime della persecuzione di stato; in effetti, l’incapacità di questo gruppo è la ragione per cui molte persone vedono la Chiesa cattolica in Argentina come una “complice” del terrorismo di stato. Troppi leader all’interno della chiesa argentina erano cauti, eccessivamente rispettosi dell’autorità e, in alcuni casi, “spaventati a morte” dai militari. Tali atteggiamenti ha impedito a molti cattolici argentini di vedere i loro correligionari come veramente cattolici e di percepire la necessità di difenderli dalle depravazioni del regime militare. Il libro di Baroncelli rappresenta un vero punto di partenza per la ricostruzione di strategie di rappresentazione appropriate, per  fenomeni di estrema violenza sociale, esplorando il caso della sparizione forzata di individui in Argentina. L’analisi inizia con un paradosso: questo processo rappresenta il culmine delle politiche per la ricostruzione e la gestione della popolazione nell’America postcoloniale, ed è contemporaneamente applicabile ai prodotti di questa politica, vale a dire i singoli cittadini. A causa di questo paradosso, la sparizione forzata di individui implica problemi irrisolvibili in termini di re-interpretazione  (o nuove interpretazioni) del problema dell’ identità sociale e del linguaggio che sono caratteristici del “processo di civilizzazione”, l’individuo-cittadino e la sua rappresentanza diretta. Ovvero: siamo di fronte alla descrizione di un’ autentica catastrofe sociale.  La causa della catastrofe non scompare: è l’eccezione permanente, l’anomalia della norma, uno stato di lutto permanente. È un trauma che non si risolve, un evento che dura, l’ambivalenza normalizzata. La sparizione forzata di migliaia e miglia di individui è un esempio di catastrofe sociale, sebbene ci siano anche altri esempi meno gravi come le identità dei “privi di documenti” o determinate situazioni che comportano un lavoro precario. A seguito di una catastrofe sociale, si costruisce uno spazio sociale molto problematico, che è definito dalla rottura delle relazioni convenzionali tra realtà sociale e linguaggio, quando questa disgregazione si consolida, e in particolare quando il consolidamento crea difficoltà permanenti in termini di rappresentazione di ciò che avviene nei territori definiti. La sparizione forzata di individui e la descrizione delle figure dei detenuti-scomparsi, all’interno di un particolare sociale e contesto storico: il processo di civiltà come si è manifestato (in forma esacerbata) in Argentina e Uruguay, si manifestano, a mio avviso, come un dispositivo che incarna la destrutturazione e la “rottura” del prodotto più tipico della soggettività moderna, l’individuo come cittadino. Bisognerebbe ricordare che le metafore che danno forma alle nostre soggettività sono un’eredità diretta, a livello collettivo, dello Stato nazione e, a livello individuale, dell’individuo -come cittadino. Entrambi sono strettamente correlati e come tali sono simili, anche se danno un’impressione di rivalità e conflitto. Che lo vogliano o no, hanno sempre condiviso la stessa parentela (modernità) e la stessa logica: entrambi sono figure organizzate, coerenti, stabili – come lo Stato – e indivisibili – come l’individuo sociale. Sono sempre incontaminati e hanno il loro posto; non sono mai sporchi o disorganizzati. Entrambi costituiscono il modello per la vita moderna, nella misura in cui sono diventati nostri produttori di solidità, generatori di significati e di senso. Costituiscono la “nostra canzone”, la melodia che ci seduce, l’unico modo che abbiamo di vedere e intendere la vita sociale. Riflettendo sulla tragedia o/e catastrofe sociale, riportata nel saggio di Baroncelli, si evince che il compito di colonizzare la realtà ha una sua storicità e territorialità: sebbene possa sembrare che lo facciano, la storia dell’invenzione della società in Europa e la storia che spiega questo processo in America Latina non coincidono completamente. Nel primo caso (in Europa) furono combattute battaglie contro lo stato feudale e il guardacaccia (Bauman, 1987). Di fronte a questa politica, il “governo della consapevolezza e della conoscenza come forza dominante” è stato stabilito nella vecchia Europa. Tuttavia, non accadde la stessa cosa in America Latina: lo Stato non si preoccupava di sostituire i vecchi guardacaccia ma prevedeva di installare “giardinieri” (il giardiniere qui è usato come “simbolo” e “metafora” di controllo sociale, per la creazione di un nuovo ordine), prima per di crescere le civiltà e poi per mantenerle e prendersene cura. In America Latina, a differenza della norma europea, secondo cui la città emerge dopo un lungo processo di sviluppo o, in alcuni casi, imponendosi di fronte alla resistenza della struttura feudale, il punto di partenza è l’ideale della civiltà (costruire una società perfetta: ex novo). Quindi la civiltà non è un risultato, ma un inizio. In sostanza, il “giardinaggio” (come compito poliziesco) è un compito difficile come qualsiasi altra forma di ingegneria sociologica. Inoltre, si tratta di ordine: il giardiniere, come sappiamo, è incaricato di progettare il giardino e anche di ripulire le erbacce e mantenere l’ ordine, con ammirevole pazienza e tenacia, ciò che si trova all’interno delle mura. La cultura moderna è una cultura del giardino. Si definisce così, con la metafora del giardino,  il progetto per una vita ideale e una perfetta disposizione delle condizioni umane. Costruisce la propria identità dalla sfiducia della natura.  Oltre alla planimetria generale, l’ ordine artificiale del giardino necessita di attrezzi e materie prime. Ha anche bisogno di difesa – contro il pericolo inesorabile di ciò che è, ovviamente, un disordine. L’ordine, concepito inizialmente come un disegno, determina cosa è uno strumento, cosa è materia prima, cosa è inutile, cosa è irrilevante, cosa è dannoso, cos’è un’erbaccia o un parassita. (Bauman, 1989: 92)

Ángel Rama ha esplorato l’idea che la città latinoamericana sia nata dall’esecuzione di un piano erudito e accademico. L’America Latina, un continente vuoto nell’immaginario collettivo del colonizzatore, era un luogo promettente per un buon inizio di vita, terra vergine, tabula rasa, creazione ex nihilo, un mondo perfetto dominato dalla rappresentazione: Nuova Spagna, Nuova Helvetia, Nuova León, Nuova Parigi… La stessa di prima, ma senza errori. Questo è l’ordine di rappresentazione moderno, cioè un prototipo trasposto nella realtà. Un “principio di pianificazione”, secondo le parole di Rama, governava questa traslazione del modello sul terreno. Ancora oggi, i risultati di questo lavoro di rappresentazione (poiché è rappresentazione che combatte il vuoto da colonizzare) sono sorprendenti: sono nate città, si sono creati nuovi stati, stati immaginari o ideali, pieni di utopie, definiti dal piano di su cui sono stati progettati, compreso l’obbligo di mantenere la terra libera da pestilenze. Ciò è rilevante per l’argomento qui affrontato, ovvero la catastrofe delle sparizioni forzate: ha influenzato un futuro che avrebbe continuato a pensarsi in termini di civilizzazione, conservazione e pulizia. Alla fine della giornata, questo futuro, il nostro presente, non è poi così lontano da queste origini.

Nella modernità, nello stato parossistico, la società sottoposta allo sguardo dell’ingegnere / giardiniere è vista come “un oggetto di amministrazione, come un insieme di tanti ‘problemi’ da risolvere, come la natura da ‘controllare’, ‘dominare’, “migliorata” o “rifatta”, come obiettivo legittimo per l ‘”ingegneria sociale”. In generale un giardino da progettare e mantenere con la forza nella forma pianificata ”(Bauman, 1989: 18). Chi ha sostenuto questo sogno? Rama si riferisce ai revisori dei conti, ai notai, ai geografi, agli avvocati, agli impiegati, ai burocrati… ma l’elenco può essere esteso fino a includere scienziati e sacerdoti (Blengino, 2005) e, al limite, a varie sfumature dell’esercito.

Il soggetto che vive in questo bellissimo giardino moderno è l’individuo. La sua gestione dipende in parte dal suo buon rapporto con la macchina statale, per la registrazione e la socializzazione, che esiste negli stati nazione dal XVIII secolo (il censimento, le scuole, i documenti di identità, i documenti personali …). Dipende anche dalla risposta che può dare all’elenco di domande allegate al processo di civilizzazione e alle sue richieste di buone maniere e autocoscienza (Elias, 2000). Questo argomento ha una storia, per quanto oggi sia diventato astorico e considerato un “universale sociologico che accompagna la condizione umana” (Béjar, 1988: 15). Questo non è il caso; è, al contrario, qualcosa che è stato inventato di recente. Il retroscena della sparizione forzata è una società basata su una retorica in cui si gioca il discorso della creazione ex nihilo e quello dell’eliminazione del surplus. Baroncelli ribadisce spesse che i responsabili del colpo di stato del 1976, in Argentina, si battezzarono anche pomposamente i leader del “Processo di riorganizzazione nazionale” e mobilitarono i vecchi immaginari (e ideologie) degli stati nazionali nella regione, come stati formati dalla dialettica di ordine e disordine, civiltà e barbarie.

Tuttavia, contrariamente all’ipotesi di un crollo della civiltà o dell’improvvisa comparsa della barbarie, l’ipotesi a cui stiamo assistendo è che si tratti di un parossismo della razionalità (è forse l’ ipotesi più corretta). In altre parole, le dittature degli anni ’70, piuttosto che violare le società argentine e uruguaiane o rappresentare eccezioni nella loro storia, rivelarono in realtà che contenevano un numero non insignificante di corpi “prontamente preparati a servire la macchina dello sterminio”. Questa è dunque l’ipotesi: la sparizione forzata di individui non è barbarie, ma piuttosto una forma aggravata di modernità. Questa è infatti la proposizione sulla base della quale Zygmunt Bauman (1989) analizza l’Olocausto, quando sostiene che la logica di questo fenomeno non è estranea alla nostra modernità illuminata, sia nelle sue manifestazioni più spettacolari (razionalità scientifica e costruzione dell’idea di cittadinanza) e il suo più banale (il minuzioso compito di sgombero del giardiniere, il rapporto del medico dedicato con un paziente…). L’Olocausto è stato un enorme “laboratorio sociologico” che ha inviato molti segnali, non dei pericoli di un ritorno alla barbarie pre-sociale, ma delle “possibilità nascoste della società moderna”. Questa devastazione è l’apoteosi del sogno civilizzatore: l’Olocausto era “pienamente in linea con tutto ciò che sappiamo sulla nostra civiltà, il suo spirito guida, le sue priorità, la sua visione immanente del mondo – e dei modi appropriati per perseguire la felicità umana insieme a una società perfetta”. I suoi custodi si sforzano di garantire che l’Eden continuasse, contenendo e riorganizzando “i corpi estranei”. L’obiettivo rimane ancora quello di plasmare la natura selvaggia attraverso la civiltà, avendo cura di garantire che ciò che è stato piantato cresca bene. In questo caso, il potere è stato esercitato come sempre, su entità che hanno sfidato l’ordine. Non facevano eccezione – poiché avevano una lampante particolarità: le entità soggette a sparizione forzata erano i prodotti più raffinati del processo di civiltà, cittadini eruditi, razionali, istruiti e “puliti” (o macchiati per loro libera scelta). I frutti perfetti della modernità erano quelli che sarebbero stati lacerati dai macchinari che li avevano portati in essere.

Baroncelli afferma:

“I trentamila desaparecidos erano quasi tutti civili (94%), solo il 6% era costituito da guerriglieri (montoneros, dell’ Erp e della Far) e da pochi militari che si erano ribellati contro la dittatura. Nella gran maggioranza degli scomparsi, si trattava di giovani tra i 20 e i 30 anni. Per questo motivo, la saggistica apparsa sull’ argomento parla quasi sempre di “scomparsa di una generazione”: quella delle ragazze e dei ragazzi più idealisti, più sognatori e allo stesso tempo più impegnati nel cambiamento sociale (molti di loro scomparvero perché lavoravano, gratuitamente, nelle villas miserias, le barraccopoli argentine, per alfabetizzare le fasce più povere della popolazione). Così fu eliminata la generazione di giovani più impegnati nella difesa delle strutture democratiche della società argentina dal regime militare.”[1]

Questa forza enorme, la forza civilizzatrice, crea questo paesaggio. E, se necessario, lo disfa. Prende come oggetto del suo lavoro – e direi anche che questo è storicamente senza precedenti e quindi teoricamente affascinante e moralmente terribile – il proprio prodotto, l’individuo moderno e razionale, la cui identità è referenziata con credenziali civiche e amministrative. Prende l’individuo “pulito” e autocosciente dello stato nazionale, della cittadinanza liberale, e lo disfa. Questa è, ripeto, una vera invenzione, tanto da meritare un nome per il paradosso da cui è nata, “il paradosso del detenuto-scomparso”, che può essere formulato così:

(1) la sparizione forzata è una degli strumenti di costruzione e gestione della popolazione che appartengono all’ordine civilizzatore / moderno;

(2) la sparizione forzata è applicata ai prodotti più completi dell’ordine civilizzatore / moderno. Quindi, la routine civilizzatrice è stata applicata al prodotto più finito della civiltà: i cittadini più coscienti ed evoluti. È una macchina civilizzatrice rovesciata, una macchina che perde-civiltà, che non è la stessa cosa della barbarie.

Le forze militari addestrate nella School of the Americas, la dottrina della sicurezza nazionale e la produzione generalizzata del nemico interno vedevano nella persona “da far scomparire” un’emergenza, una singolarità, una conseguenza non voluta, qualcosa di imprevisto. È un individuo frammentato; un corpo separato da un nome, una coscienza sottratta al suo supporto fisico, un nome separato dalla sua storia, un’identità privata della sua essenza di cittadino. È un “corpo a cui accadono le cose”, pura vulnerabilità.

Stiamo affrontando un nuovo stato dell’essere, in un luogo precedentemente sconosciuto. Avevamo pensato che all’interno dell’architettura dell’esistenza non sarebbe stato possibile trovare un posto tra la vita e la morte, e che se esistesse (purgatorio, limbo, fantasmi, spettri…), sarebbe di breve durata. Ma la scomparsa inventa uno spazio perennemente instabile, una sorta di liminalità permanente. D’altronde è irrisolvibile: non c’è nemmeno la certezza della morte del soggetto scomparso a portare la chiusura. Si tratta di un’enorme catastrofe, di una dissociazione permanente: un’entità che aveva avuto lo status di individuo-cittadino viene espulsa oltre ogni limite, dove in precedenza venivano inviati vagabondi e feccia e, come loro, trasformata in un NN.  Smettono di essere cittadini e diventano gli scomparsi. Pertanto, il verbo desaparecer (scomparire) non è coniugato con il verbo estar [per indicare una condizione temporanea] ma con il verbo ser [per indicare uno stato]: “Quando mi dicono “tu estás desaparecida”, non è effettivamente “estás desaparecida”  [sei qualcuno che è scomparso], ma “és un desaparecida” [tu sei una degli scomparsi]”. Viene creato niente di meno che un nuovo stato dell’essere (“Tu sei uno degli scomparsi, né vivo né morto”, “Una non persona, una cosa che non sa se esiste o no”). Uno status senza precedenti, “un nuovo abisso”. Accade ancora oggi in campi come Guantanamo, o nella stessa Argentina, nella zona indigena di Tucumán, dove la politica di sparizione forzata era particolarmente virulenta e gli effetti terribili, come quelli delle aree urbane. In ognuno di questi casi, la strategia, applicata sistematicamente, oltre ad essere perversa, è anche efficace. Nelle capitali civilizzate del Cono Sud, la sparizione forzata colpisce e distrugge radicalmente le forme di rappresentazione dell’identità e del soggetto, mentre negli altri luoghi citati è plausibile ricorrere a dispositivi che, in termini di tradizioni locali, spiegare l’esistenza di corpi senza identità o nomi senza corpi.

Ciò che viene demolito qui è il pilastro dei nostri mezzi di comprensione dell’identità. È l’individuo che viene distrutto: perde il suo nome, non ha territorio ed è separato dalla sua storia. Questa è la catastrofe: le cose non hanno più parole per dar loro consistenza. Le parole che esistono sono inutili: ci troviamo di fronte a una figura rappresentata come senza luogo (“Gli scomparsi non lasciano traccia, creano un vuoto”), corrispondente a nessuna entità riconoscibile, contemporaneamente assente e presente (“[Con loro ] l’assenza diventa presenza “), senza logica (” La scomparsa è un attacco alla logica. Crea un senso dell’assurdo “), e senza un corpo (“È un corpo senza identità e un’identità senza corpo”). È un territorio nebuloso tra la vita e la morte, una vera palude: parole e cose si sciolgono e la loro unità viene distrutta.

[1] Orlando Baroncelli, Su la testa, Argentina!, Desaparecidos e recupero della memoria storica, Libri Liberi, Firenze, 2017, pp. 12-13.

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