Fonte: lantidiplomatico.it
di Alessandro Bianchi 26 novembre 2014
Alain de Benoist. Filosofo politico francese e saggista. Fondatore del movimento culturale denominato Nouvelle Droite. Direttore delle riviste Nouvelle Ecole e Krisis. Autore di “L’impero interiore. Mito, autorità, potere nell’Europa moderna e contemporanea”, “Sull’orlo del baratro. Il fallimento annunciato del sistema denaro” e “La fine della sovranità”. (L’antidiplomatico)
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Nel suo libro La fine della sovranità (Arianna, 2014), Lei scrive che la crisi attuale del capitalismo, iniziata con il fallimento della Lehman Brothers nel 2008, è una « crisi strutturale ». Secondo la sua visione, nessuno riuscirà a trovare soluzioni valide seguendo i meccanismi interni al sistema e l’unica via percorribile è quella che definisce « un nuovo inizio ». Ci può spiegare meglio a cosa si riferisce?
Parlo di crisi “strutturale” in opposizione alle crisi di natura essenzialmente congiunturali, perché il sistema capitalista, nella sua interezza, deve oggi affrontare una prospettiva di grave deprezzamento del valore del capitale. Si tratta di una fase inevitabile nel passaggio da un capitalismo principalmente industriale ad uno principalmente speculativo e finanziario.
All’indomani della questione dei subprimes, scoppiata nel 2008 negli Stati Uniti e poi estesa al mondo intero, i governi hanno perfino aiutato le banche ed i fondi pensionistici, elargendo loro milioni di dollari. Hanno scelto perciò di indebitarsi pesantemente con i mercati finanziari, cioè con il settore privato, mentre molti di essi affrontavano già deficit di bilancio sostenuti. Gli stati hanno poi attuato delle politiche di austerità insopportabili, immaginando, erroneamente, che avrebbero potuto ristabilire l’equilibrio in questo modo.
Ma niente di tutto questo si è verificato. La politica del debito raggiunge oggi un tale livello che la si può paragonare ad una forma moderna di usura: incapaci di onorare i loro debiti regressi, gli Stati sono costretti ad indebitarsi ulteriormente per pagare gli interessi, il che aumenta nello stesso tempo l’ammontare principale del debito e quello degli interessi. Si tratta di un vortice mortale che non potrà durare a lungo. Ad un certo punto, la realtà finirà per prevalere sulla fuga in avanti. Il problema è che non esiste una soluzione interna al sistema. L’unica via è uscire dal sistema. È quello che intendo con nuovo inizio.
Con le politiche di austerità, i paesi dell’Europa del sud sono stati catapultati nella depressione, nella deflazione e nella disoccupazione di massa. Nessun paese è al momento in grado di frenare la caduta della sua economia e Lei scrive di attendersi un’ « esplosione generalizzata ». Fino a che livello potrebbero arrivare i conflitti sociali in Europa ? E quale l’ultima goccia che potrebbe far traboccare il vaso?
Non pretendo di leggere nel futuro e la storia è per definizione imprevedibile! Ma sono a volte infimi eventi (che Lei chiama goccia d’acqua) che hanno le conseguenze più deflagranti. Una cosa certa, è che la società è oggi totalmente bloccata. Nessuno dei programmi adottati per migliorare la situazione ha funzionato. La disoccupazione ed i programmi sociali si moltiplicano, le delocalizzazioni proseguono, come la deindustrializzazione. In Francia, il debito ha raggiunto i 2000 miliardi d’euro, quasi il 100% del PIL. Tanti giovani preferiscono espatriare verso destinazioni lontane. Le classi popolari e le classi medie sono le più colpite.
Nonostante tutto questo, gli ambienti liberali rimangono convinti che bisogna mantenere la rotta, accelerando anzi in quella direzione. Quanto alla situazione politica, è anch’essa bloccata, con una classe dirigente sempre più lontana dal popolo, che cerca di negare la sovranità popolare e che non nasconde di preferire la sottomissione alla globalizzazione economica piuttosto che badare agli interessi delle nazioni. Aggiungiamo a questo una crisi decisionale generalizzata. Questa miscela è esplosiva. La vera domanda è se ci dirigiamo verso un’esplosione o verso un’implosione, vale a dire un crollo.
L’introduzione del Mes e del Fiscal Compact, oltre al commissariamento vero e proprio di interi paesi da parte dell’Europa, ha portato intellettuali come Raoul Marc Jennar e Paolo Becchi a parlare di « colpo di stato ». Gli Stati hanno rinunciato alle loro prerogative principali, in particolare la sovranità fiscale, trasformando Parlamenti e governi in meri passacarte di decisioni prese altrove. I partiti storici di destra e sinistra hanno accettato la fine della sovranità, in favore di un modello che sta distruggendo le Costituzioni e i diritti sociali garantiti. Credete che esistano nuove forze politiche in grado di riconquistare la sovranità persa? Qual è il modello socio-economico a cui dovrebbero far riferimento?
I colpi di stato sono generalmente degli atti politici. Bisognerebbe trovare un’altra espressione per descrivere il modo in cui gli Stati hanno rinunciato alla loro sovranità per collocarsi sotto l’autorità dei mercati finanziari. Il vero punto in causa è la presa di possesso della sfera politica tramite quella economica. Rovesciare tale priorità non è facile, perché non basta proclamare che bisogna “ritrovare la sovranità perduta” per riacquisirla effettivamente. Ci si può anche chiedere se degli Stati-nazione isolati possano raggiungere tale obiettivo. È la ragione per cui sono abbastanza pessimista su questo punto. Credo più nella capacità del sistema nell’autodistruzione, suo malgrado s’intende, piuttosto che nella capacità dei suoi avversari ad abbatterlo. Per quanto riguarda i modelli da seguire, credo che bisogna prima inventarli!
In passato, sosteneva di essere favorevole ad una federazione politica dell’Europa e non considerava l’euro un problema per gli stati membri. Nella « fine della sovranità » riconoscete tuttavia che la federazione politica sembra ormai irrealizzabile e che la nuova integrazione (Mes e Fiscal Compact) serve solo a tutelare i crediti della grande finanza a danno degli Stati. Non crede che, al momento, per uscire dalla crisi l’unica soluzione sia un ritorno alle monete nazionali e la riconquista di una piena sovranità monetaria, con una Banca centrale di nuovo dipendente dal Tesoro?
Una federazione politica è realizzabile in principio, ma, nelle circostanze odierne, implicherebbe trasferimenti di capitali massicci ai quali i paesi più ricchi, a cominciare dalla Germania, non consentirebbero, ovviamente. Rimango legato al principio della moneta unica, fosse solo per far fronte al dollaro, ma sono anche il primo a riconoscere che la sua introduzione si è fatta contro ogni logica. Considerando la disparità dei livelli economici, delle legislazioni fiscali e sociali, etc., la grande maggioranza dei paesi europei non era in grado di usare una moneta tanto forte quanto lo era allora il marco tedesco. Questa sopravvalutazione dell’euro ha incontestabilmente aggravato la crisi finanziaria globale degli ultimi anni.
Per quanto riguarda il ritorno alle valute nazionali, alcuni economisti lo consigliano, ma, ad ora, nessuno Stato lo vuole. Al contrario, tutti dimostrano di essere pronti a “salvare l’euro” – il che non significa certo che ci riusciranno. D’altronde, un “ritorno alle monete nazionali” non implica per forza di riprendere la lira, il franco, la peseta, etc. Si potrebbe anche immaginare vari euro nazionali (un euro tedesco, uno francese, un italiano), persino un euro per il Nord-Europa e un euro per il Sud, esattamente come esiste un dollaro statunitense, un dollaro canadese, etc. Ma credo anche che, se si abbandonasse l’euro come moneta unica, sarebbe necessario conservarlo come moneta comune per gli scambi extraeuropei. Moneta unica e moneta comune non solo la stessa cosa…
Lo scorso settembre, l’Ue ha firmato un trattato di libero scambio con il Canada (Ceta) e sta negoziando con gli Usa (TTIP), la via scelta sembra quella della privatizzazioni di massa, delle agevolazioni per i capitali internazionali e dei benefici per le multinazionali, a danno ulteriore delle piccole imprese e dei lavoratori. Lei scrive che con il TTIP il progetto di Washington e di Bruxelles sarebbe quello di un’unione politica transatlantico, in cui la sovranità dei Parlamenti nazionali sarebbe soggetta alle volontà degli Stati Uniti (con la mediazione di Bruxelles). Siamo ancora in tempo per fermare questo scenario drammatico?
È difficile da sapere. L’Unione europea è nell’insieme molto favorevole alla conclusione di quell’accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, ma il progetto del Trattato transatlantico si arena su due punti essenziali: gli ostacoli non tariffari, vale a dire la questione delle norme sociali, fiscali, ambientali, etc., che non sono le stesse dai due lati dell’Atlantico. Il rischio più grande è che le norme europee siano abbandonate a favore delle norme americane, considerate meno vincolanti.
Il secondo problema riguarda le procedure che permetterebbero a delle multinazionali di intavolare delle procedure giudiziarie contro gli Stati o altre collettività che potrebbero prendere decisioni considerate dalle società in questione pericolose per i loro interessi ed i loro profitti. È difficile venire a capo di questi due punti, a meno di seguire supini la linea di Washington. Per gli Americani, quest’unione commerciale transatlantica non sarebbe infatti che una tappa verso un’unione politica. Ma faccio comunque fatica ad immaginare che una tale unione possa venire alla luce, vista la divergenza degli interessi americani ed europei: sarebbe contraria ai dati geopolitici più elementari. Detto ciò, il fatto più preoccupante risiede nell’opacità nella quale si svolgono attualmente i negoziati, così come nell’indifferenza dei cittadini nei confronti di questo progetto che sembra così lontano.
Con l’introduzione delle sanzioni contro la Russia, Mosca ha iniziato ad intensificare le sue relazioni con la Cina, azionando un processo domino di de-dollarizzazione, che riguarda ormai tutti i paesi Brics e non solo. Si è arrivati all’accordo di Fortaleza che, nell’ottica dei paesi firmatari, dovrebe offrire un modello alternativo al cosiddetto Washington consensus. Ritiene davvero che si riuscirà a formare un sistema finanziario internazionale capace di sfidare l’egemonia americana e può essere questo lo strumento di emancipazione da sfruttare per l’Europa?
Il sistema finanziario internazionale è oggi stremato. I Russi, i Cinesi e la maggior parte dei paesi emergenti intendono rimpiazzarlo con un altro sistema più equilibrato. Aspettando che sia possibile, assistiamo già al moltiplicarsi di scambi bilaterali che non ricorrono più al dollaro (pagamenti in euro, rubli, yuan, escudo, etc.). L’aggressività degli Stati Uniti nei confronti della Russia, il ritorno della guerra fredda, l’adozione delle sanzioni controproducenti contro il Cremlino come conseguenza della crisi ucraina, hanno avuto come unico effetto quello di spingere Vladimir Putin ad avvicinarsi sempre più alla Cina e ai BRICS, e ad accelerare l’attuazione del suo progetto di unione economica eurasiatica. In questo senso, non è esagerato parlare di un inizio di dedollarizzazione. Ora, bisogna vedere fin dove può arrivare. Gli Stati Uniti che sono ormai sulla difensiva, faranno ovviamente di tutto per opporvisi. Ma si troveranno di fronte a partner più risoluti a far valere i propri interessi di quanto lo siano gli Europei. Si tratta, come sempre, di un rapporto di forza, in cui il politico è chiamato a giocare il ruolo essenziale.
Traduzione a cura di Sandra Vailles.