Non è tutt’oro quello che luccica

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Claudia BALDINI
Fonte: esseresinistra
Url fonte: https://esseresinistra.wordpress.com/2015/02/19/non-e-tuttoro-quello-che-luccica/

di Claudia BALDINI – 19 febbraio 2015

Ho studiato un poco di Economia in giro. Quello che ho imparato lo metto qui a disposizione di chi voglia prendersi 10 minuti per comprendere cosa si nasconde dietro il mito della ‘Grande Germania‘.

Pensate un po’: l’Istituto Rosa Luxemburg, illustre fondazione dedita alla ricerca e alla comparazione di modelli economici e Marcel Fratzscher, presidente del principale istituto di ricerca economica tedesca, il DIW, concordano su un’analisi puntuale e documentata che lo stesso Fratzscher ha estesamente illustrato nel libro Die Deutschland Illusion, L’illusione tedesca (che ho comprato).

Secondo Fratzscher, il mito del modello tedesco si basa su una serie di false illusioni, prima fra tutte l’idea che l’enorme avanzo commerciale accumulato dalla Germania in seguito all’ introduzione dell’euro (a fronte di un disavanzo commerciale altrettanto grande nei paesi della periferia) sia da imputare alla maggiore “produttività” ed “efficienza” dell’economia tedesca, a sua volta il risultato della famosa riforma del mercato del lavoro (detta “Hartz”) introdotta da Schröder nel 2003-2005, quella a cui si è ispirato Renzi per il suo “Jobs Act”, a cui andrebbe il merito di aver ridotto la disoccupazione e rilanciato la crescita nel paese. Questa in sostanza la narrazione autocelebrativa del “miracolo tedesco”, che però ha ben poco a che vedere con la realtà.

Tanto per cominciare bisogna sfatare il mito della Germania come “locomotiva d’Europa”: a ben vedere, dal 2000 ad oggi il tasso di crescita del paese è stato un misero 1.1%, ponendo la Germania al tredicesimo posto tra i 18 membri dell’eurozona. La riforma Hartz, poi, ha sì diminuito la disoccupazione, ma lo ha fatto allargando enormemente il bacino dei lavoratori precari, part-time e sottopagati, col risultato che il monte ore totale è rimasto praticamente invariato. E’ quello che si sta cominciando a vedere anche qui. Non c’è solo Volkswagen con un forte sindacato, il resto è ben differente.
Se andiamo infatti a vedere nel merito questa riforma Hartz, ci accorgiamo che ha soprattutto avuto l’effetto di “congelare” i salari tedeschi, comprimendo la domanda interna e permettendo al paese di acquisire un vantaggio competitivo rispetto ai suoi partner commerciali europei, che non sono riusciti a imporre le stesse condizioni ai loro lavoratori: è unicamente a questo – ricorda Fratzscher – che va imputato il successo commerciale della Germania, e non a un aumento del tasso di produttività, che è da anni uno dei più bassi del continente. E ovviamente il boom delle esportazioni tedesche è stato reso possibile solo dal fatto che gli altri paesi del continente non hanno seguito la stessa politica salariale, ma hanno invece mantenuto un livello di domanda tale da poter assorbire le esportazioni tedesche(accumulando dunque un disavanzo commerciale).

Questo è normale: all’ interno di un’area monetaria unica, il surplus di certi paesi corrisponde necessariamente al deficit di altri (se io ho un surplus nei tuoi confronti, tu non puoi averlo nei miei). Ma c’è di più: se è vero che l’alto livello della domanda in alcuni di questi paesi era in parte il risultato di bolle speculative (soprattutto nel settore immobiliare), secondo la lettura moralistica che i tedeschi danno della crisi, il risultato di una naturale tendenza all’ eccesso dei paesi periferici, da espiare per mezzo dell’austerità, è altrettanto vero che il settore finanziario tedesco ha attivamente contributo alla creazione di queste bolle. In sostanza, le banche tedesche hanno preferito reinvestire i profitti delle esportazioni all’estero piuttosto che in Germania, esportando enormi quantità di capitali verso i paesi della periferia, alimentando boom immobiliari in molti di essi (in particolare in Spagna e Irlanda) – e, soprattutto, permettendo ai consumatori di questi paesi di continuare ad importare prodotti tedeschi. È quello che gli americani chiamano vendor-financing: ti vendo qualcosa ma te ne finanzio l’acquisto. (bellissimo e semplicemente chiaro l’articolo in merito a questa pratica sul Financial Time)
Infatti possiamo vedere da come è messa tutta l’economia europea, quanto sia nefasta l’idea che il cosiddetto “modello tedesco” basato sulla compressione dei salari e della domanda interna al fine di incrementare le esportazioni, perché di questo si tratta, null’altro, possa rappresentare un modello per l’Europa nel suo complesso. Risulta evidente, infatti, che tale modello può funzionare solo se c’è qualcuno che si fa carico di trainare le esportazioni, stimolando la domanda interna. Se tutti i paesi dell’eurozona seguono la stessa politica di deflazione interna (sia sul fronte fiscale che salariale, comprimendo dunque sia la domanda pubblica che quella privata), come stanno facendo da vari anni a questa parte, il risultato è inevitabilmente un crollo della domanda aggregata in tutta l’area monetaria e conseguentemente una diminuzione delle esportazioni dell’eurozona nel suo complesso.

Il riequilibrio della bilancia dei pagamenti intra-euro, dovuto a una drammatica riduzione dei deficit commerciali dei paesi della periferia, è infatti imputabile perlopiù al crollo della domanda e dei salari e dunque all’aggravarsi della recessione in quei paesi, piuttosto che a un aumento delle esportazioni. In altre parole, il beneficio (limitato) di un incremento delle esportazioni per i paesi della periferia viene completamente azzerato dagli effetti devastanti sull’ economia di un’ulteriore riduzione della domanda in un periodo di recessione, accelerando così la spirale deflazionistica, specialmente se prendiamo in considerazione il fatto che le esportazioni rappresentano una percentuale relativamente bassa dell’attività economica di quei paesi (a differenza della Germania).

In questo senso, è lecito domandarsi se lo scopo della riforma del mercato del lavoro su cui sta spingendo il governo sia realmente quello di una semplice “sburocratizzazione” del mercato del lavoro italiano, o se sia piuttosto finalizzata a facilitare quella politica di deflazione salariale che l’asse Berlino-Francoforte-Bruxelles continua ad indicare – in barba a ogni evidenza del contrario – come l’unica via d’uscita dalla crisi per paesi come il nostro (ho letto l’editoriale di qualche giorno fa di Hans-Werner Sinn sul Financial Times, in cui il maggiore economista tedesco afferma che “la deflazione non è un pericolo per il Sud Europa ma un presupposto necessario per il recupero della competitività”). Soprattutto se si considera che la moderazione salariale fu l’obiettivo centrale della riforma tedesca a cui si ispira apertamente il nostro Presidente del Consiglio.

A nulla sembra valere il fatto che il volume degli scambi intra-europei ha registrato un crollo vertiginoso negli ultimi quattro anni, a danno anche della Germania (che non a caso ha segnato un tasso di crescita negativo nell’ultimo trimestre). È vero che finora il settore delle esportazioni tedesco è riuscito a riorientarsi verso il mercato extra-europeo, ma è opinione diffusa che di fronte a una stagnazione della domanda a livello globale una politica di questo tipo non è sostenibile nel medio termine neanche per la Germania (che infatti ha visto la sua fetta delle esportazioni globali passare dal 9.1% del 2007 all’8% nel 2013, più o meno la stessa percentuale che registrava ai tempi della riunificazione).
E di certo non è immaginabile che tutti i paesi dell’eurozona registrino un avanzo commerciale nei confronti del resto del mondo, in una corsa al ribasso su costi e salari, impossibile da vincere, con paesi come la Cina.

L’Europa e la Germania, concordano Fratzscher, l’Istituto Rosa Luxemburg, Legrain e Varoufakis, oltre a Thomas Piketty hanno una sola speranza per rimanere realmente “competitive” sul mercato globale: rilanciare la domanda interna e gli investimenti (sia pubblici che privati) e puntare su quei settori ad elevato valore aggiunto che sono gli unici che hanno il potenziale di coniugare crescita economica, competitività e sostenibilità ambientale e sociale.

Insomma finalmente mi è chiaro, dopo questo studio, perché Syriza in Grecia non possono essere accettati da Merkel, Schauble e tutto l’establishment bancario europeo. Naturalmente tutti gli altri governanti non sono nessuno: non può finire bene la Grecia. E l’Italia ha scelto di percorrere il modello germanico, per cercare di sopravvivere. Tutelando banche e Imprese e massacrando i lavoratori. In fondo è la solita Storia.

n.b. Grafici molto illuminanti per dimostrare che è la solita Storia.

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