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di Luca Billi, 12 ottobre 2018
Gli etimologisti riconoscono nel verbo latino dolére – da cui è venuto l’italiano dolore – un’antica radice indoeuropea, che infatti ritroviamo anche nel sanscrito, che significa spezzare. Mai come questa volta l’etimologia descrive bene questa parola, perché il dolore è qualcosa che ci può lacerare, che ci può distruggere.
Molti pensano che il dolore sia la dimensione naturale dell’uomo e probabilmente noi uomini siamo nati per soffrire. Non so se sia davvero così, ma certo senza il dolore non avremmo tanta della nostra poesia.
Filottete è uno dei comandanti della spedizione delle città greche contro Troia, è uno degli uomini partiti per sottrarre a quella città il controllo dei Dardanelli e quindi del commercio dei cereali e dei metalli preziosi con le regioni affacciate sul mar Nero. La sua flotta contava sette navi e su ciascuna di esse c’erano cinquanta abili arcieri. Anche Filottete sa usare benissimo quest’arma, anche perché possiede l’arco e le frecce di Eracle. L’eroe gli aveva donato le sue armi: Filottete aveva acceso la sua pira funebre sul monte Eta e si era impegnato a non rivelare a nessuno dove Eracle fosse morto. Ma Filottete non arrivò mai a Troia: durante lo scalo all’isola di Tenedo, un serpente gli morse un piede, forse come punizione per aver violato la promessa e aver fatto sapere agli uomini dove Eracle era morto. Filottete non ha resistito a rivelare quel segreto, non ha resistito allo scoop: evidentemente è qualcosa che succedeva anche quando non c’erano i social.
La sua ferita non si rimarginava, continuava a emanare un fetore insopportabile e gli altri comandanti, aizzati da Odisseo, decisero di abbandonarlo sull’isola di Lemno, che allora era deserta. Odisseo, Agamennone, Achille, perfino il vecchio e saggio Nestore, e tutti gli altri eroi non dimostrarono alcuna solidarietà verso Filottete, verso il loro compagno d’armi. Sembra di leggere le cronache che raccontano le vicende di quelle famiglie che impediscono ai loro figli di andare alle feste di un loro compagno malato. Gli uomini non vogliono “toccare” il dolore degli altri, ne provano un senso di fastidio, quasi di ribrezzo. Lo vogliono vedere da lontano, a volte hanno una curiosità morbosa verso il dolore degli altri, ma ne vogliono rimanere distanti. E così, nonostante le pubbliche dimostrazioni di riprovazione, nonostante fingano di disinteressarsene, vogliono guardare in televisione il dolore di una madre che prova il dolore peggiore che una madre può provare. E su quella madre e sul suo dolore si costruisce un circo per il pubblico pagante.
Filottete rimase dieci anni sull’isola di Lemno, si salvò grazie al suo arco e alla sua abilità di cacciatore, perché riusciva a catturare gli uccelli, ma la ferita non rimarginava: era una specie di cancro che non progrediva né regrediva. L’eroe in questo lungo periodo non riesce a elaborare il dolore, è capace forse a resistergli, ma non lo accetta. Rimane vivo per inerzia. In quei lunghissimi dieci anni chissà cosa avrebbe pensato di una persona che gli avesse detto che il dolore, anche quel dolore terribile, quel dolore che ti toglie la speranza, può essere un dono? Filottete non è ottimista, non cerca di riprendersi, anche se non diventa cattivo; forse non avrebbe usato parole acrimoniose verso quella persona che provava a resistere con le proprie armi, anche se le considerava spuntate. Semplicemente l’eroe greco rinuncia alla speranza: anche in questo Filottete è un nostro fratello.
Ma all’improvviso i comandanti greci si ricordano di lui: anche loro non ne possono più di quella lunga guerra, forse cominciano perfino a invidiare la sorte di Filottete. La guerra è una malattia che ti sei scelto. E così, quando un indovino, anzi l’indovino dei troiani fatto prigioniero, profetizza che Troia cadrà soltanto se il figlio di Achille potrà combattere con l’arco di Eracle, capiscono che occorre tornare da quell’uomo malato, bisogna tornare a sentire il fetore del dolore.
E sarà Odisseo a dover compiere l’impresa. Ma il re di Itaca sa bene che non può presentarsi davanti a Filottete e allora escogita uno dei suoi trucchi, usando il giovane Neottolemo. Questi dovrà fingersi anch’egli vittima di Odisseo, dovrà raccontare a Filottete che gli sono state rubate le armi del padre e dovrà chiedergli l’arco di Eracle. L’inganno riesce, Filottete prova solidarietà per l’ingiustizia patita da quel giovane soldato. Curioso come sia il malato a dover sostenere i sani, anche questa è un’esperienza che talvolta abbiamo provato.
Neottolemo ha eseguito il suo compito, ha l’arco, lo sta per consegnare a Odisseo, che ha assistito di nascosto alla scena ed è pronto a celebrare un’altra vittoria della sua astuzia, ma si ribella e svela il trucco a Filottete, riconsegnandogli l’arma. A questo punto tutto appare ormai perduto: Filottete non riconsegnerà l’arco e Troia non cadrà. Ma la città deve cadere, la malattia della guerra deve finire e, secondo Sofocle, è compito di Eracle sciogliere il nodo: il dio ordina a Filotette di seguire Odisseo e Neottolemo e di andare a combattere, lì sarà guarito dai medici greci – tra l’altro con il primo intervento chirurgico in anestesia totale raccontato in letteratura – e quindi sarà lui, con il suo arco, a portare i greci alla vittoria. La storia ci racconta che Filottete combatté sotto Troia, uccise dei guerrieri troiani, forse lo stesso Paride e tornò sano e salvo in patria. Ma stava cambiando il mondo, non era più il tempo dei re e anche lui fu cacciato, per arrivare esule in Calabria.
Chissà se ha mai pensato all’ingiustizia che ha subito? Perché i medici del contingente greco non lo curarono immediatamente? Perché aspettarono dieci anni? Perché serviva. Di quanti nostri fratelli che soffrono ci siamo dimenticati nell’isola di Lemno? Solo perché non ci servono più.