Per non arrendersi all’idea di guerra

per Luca Billi
Autore originale del testo: Luca Billi
Fonte: i pensieri di Protagora...
Url fonte: http://ipensieridiprotagora.blogspot.it/2016/07/verba-volant-294-orchestra.html

di Luca Billi – 1 agosto 2016

Le cose acquistano un senso e assumono un particolare significato anche per dove succedono. La città di Saint-Étienne-du-Rouvray nel 1923 – solo tre anni dopo il congresso di Tours – è stata una delle prime in Francia a essere guidata da un’amministrazione comunista. E qui la sinistra più radicale è sempre stata maggioranza, tanto che il sindaco è ancora un esponente del Pcf, un partito che in altre regioni è quasi sparito. In questa piccola città del nord della Francia c’è stato negli ultimi anni un dialogo attivo tra le varie chiese: i musulmani per qualche tempo hanno usato come sala di preghiera uno spazio della parrocchia e la moschea è successivamente sorta su un terreno vicino alla chiesa, messo a disposizione dalla diocesi. Dopo la strage di Charlie Hebdo i rappresentanti delle varie confessioni religiose hanno messo in piedi un comitato per rendere più stabile questo dialogo interreligioso, un gruppo di lavoro a cui partecipava tra gli altri padre Jacques Hamel. In sostanza Saint-Étienne-du-Rouvray racconta la Francia migliore, quella a cui molti di noi sono particolarmente legati. Eppure proprio qui è successo quell’episodio così grave, capace di modificare la storia di quel paese e dell’Europa e di travolgere per molti anni i rapporti tra i paesi occidentali e il mondo islamico. Al di là di quello che succederà – e di quello che riusciremo a fare noi donne e uomini di buona volontà – l’uccisione di padre Jacques segna comunque un momento di cesura, di rottura, è uno di quegli episodi che raccontano un prima e un dopo.
La strage di Charlie Hebdo e l’uccisione di padre Jacques – pur con le differenze di cui dopo dirò – ci hanno particolarmente segnato, perché in entrambi questi attacchi l’obiettivo è stata appunto questa Francia, la Francia capace di insegnare qualcosa al mondo. Quel paese è da sempre diviso, c’è una Francia conservatrice, vandeana durante la Rivoluzione, ferocemente e ottusamente antisemita ai tempi dell’affaire Dreyfus, fascista con Petain e la Repubblica di Vichy, razzista e coloniale con l’Oas, la Francia che in questi ultimi anni è rappresentata dal Front national dei Le Pen. E c’è una Francia che si è sempre battuta contro questa anima nera, una Francia di cui erano rappresentanti, seppur in modo assai diverso, sia i disegnatori anarchici e blasfemi di Charlie Hebdo sia quel vecchio canonico che presumibilmente non aveva in gran simpatia quel giornale, ma che ha tentato di costruire, a partire da quella parrocchia lontana da Parigi, un paese diverso, più accogliente, meno violento, più umano.
L’uccisione di Charb, di Cabu, di Tignous, di Wolinski e delle altre persone che si trovavano quel 7 gennaio nella redazione di rue Nicolas-Appert non è stata un caso, perché quell’attentato è stato pianificato, quel giornale e i suoi redattori erano l’obiettivo di quei fanatici nemici della libertà di espressione, della satira e soprattutto di un mondo finalmente libero dal fascismo in tutte le sue forme. La morte, così violenta e drammatica, di padre Jacques invece è frutto di un caso, della decisione di due ragazzi che, senza un piano, senza un obiettivo preciso, hanno pensato che fosse giusto attaccare una chiesa e uccidere un prete, chiunque fosse. Anzi pare che proprio la strage del gennaio 2015 sia stato l’episodio che ha spinto il giovane Adel Kermiche a radicalizzarsi, a cambiare il proprio atteggiamento verso la religione fino a convincerlo a lasciare il paese in cui era nato per raggiungere la Siria, dove avrebbe voluto unirsi alle forze dell’Isis. Ovviamente quelli dell’Isis hanno gioito, perché quella morte fa il loro gioco, tende ad approfondire il fossato tra il mondo occidentale e quello musulmano, e altrettanto hanno gioito qui da noi quelli che hanno interesse che questa guerra venga combattuta, per distrarci dalla guerra di classe, per imporci, nel nome della sicurezza, una drastica riduzione dei diritti civili e sociali e una revisione in senso autoritario delle costituzioni democratiche.
Proprio questa casualità, il fatto che l’uccisione di padre Jacques non sia stata programmata, ci fa – se possibile – ancora più male e quindi dovrebbe interrogarci di più, dovrebbe farci riflettere su quello che in questi anni abbiamo – ed evidentemente non abbiamo – fatto. Quei due ragazzi che hanno deciso di uccidere quel prete avevano dei problemi psicologici e personali che né le loro famiglie né le strutture di quella comunità hanno saputo riconoscere nella loro gravità. E anche su questo dovremmo interrogarci, perché anni di mancati investimenti sulla scuola e sui servizi sociali di comunità provocano anche questa incapacità di riconoscere il disagio, quando comincia a manifestarsi, prima che diventi un problema da affrontare esclusivamente con la forza della polizia. Ma questa vicenda ci colpisce soprattutto perché quei due ragazzi sono cresciuti in un contesto in cui qualcosa si era tentato di fare affinché crescesse una cultura del rispetto, della tolleranza, della conoscenza reciproca. Evidentemente non è stato fatto abbastanza – o è stato fatto in maniera sbagliata – se anche lì, nella “rossa” Saint-Étienne, nella città in cui il prete e l’imam collaborano, ragazzi nati e cresciuti in Francia si sono radicalizzati così in fretta. Almeno nel caso di Adel non possiamo neppure parlare di un contesto di povertà e di degrado, perché la sua famiglia non viene dalle banlieue.
Pur in questo momento di smarrimento, proprio perché sentiamo che la risposta che abbiamo dato fino a ora è stata debole e inefficace, credo che occorra non farsi prendere dallo sconforto e soprattutto non cedere a chi ci dice – e in questi giorni sono tanti – che lo scontro è inevitabile, perché – è una tesi che va per la maggiore – il mondo musulmano sarebbe per natura nemico dei diritti e della democrazia. A parte che è curioso che molti di quelli che fanno un discorso del genere si richiamino a un cristianesimo che ha avuto le stesse – se non peggiori – caratteristiche di quelle oggi criticate nell’islam, noi dobbiamo rifiutare questa impostazione troppo semplicistica, che finisce per danneggiare prima di tutto noi, perché inaridisce ogni forma di dialogo e di confronto.
Per fortuna anche dall’interno delle due religioni si levano voci che tentano di mettere in minoranza queste opinioni, sono state importanti le parole del papa, che ha messo in evidenza che una guerra si combatte sempre per le risorse economiche e sono importanti le manifestazioni di partecipazione comune ai riti. Ma io credo che da parte nostra, da parte di chi non crede, oggi sia necessario uno scatto in più, perché altrimenti rischiamo di lasciare un tema che coinvolge tutti solo a una parte della società. Il confronto tra le religioni interessa tutti non solo perché tutti possiamo finire vittima di un attentato – cristiani, musulmani, atei – ma perché forse possiamo offrire un terreno di dialogo, se rinunciamo a un laicismo isterisco.
Anche dopo quello che è successo in quella chiesa vicino a Rouen, anzi tanto di più dopo quella morte, e quelle di Nizza e quelle di tante città siriane – in un elenco di cui ormai non riusciamo più a tenere il conto – occorre costruire un confronto che non sia scontro, nel quale ciascuno di noi porti i propri valori e la propria identità con orgoglio. Atene, Alessandria, Roma, erano città multiculturali in cui non mancarono gli scontri, in cui tantissimi uomini vennero uccisi per le proprie idee e la propria fede, eppure divennero grandi proprio al fatto di aver fatto vivere questa complessità, di aver trovato un equilibrio grazie alla cultura, all’educazione, all’arte. L’errore più grande che potremmo fare è quello di costruire una società in cui queste differenze vengano annullate, che abbia come meta l’identificazione di tutti in un’unica società globalizzata che, proprio per il fatto di essere di tutti non è più di nessuno. Ho l’impressione che una parte del disagio di Adel e di tanti ragazzi che, pur nati in Europa e negli Stati Uniti, vorrebbero combattere per l’Isis, nasca da questa società omologata e omologante che francamente credo faccia paura anche a ciascuno di noi. Se siamo sempre più consumatori piuttosto che cittadini, se ci vogliono sempre più uguali, allora il rischio che la debolezza di qualcuno si trasformi in pazzia sarà sempre più alto. Come sarà sempre più facile che qualcuno offra un’identità possibile, anche la peggiore, di cui comunque faranno vedere solo gli aspetti positivi.
Alla fine degli anni Settanta Federico Fellini diresse Prova d’orchestra, un film complesso, pessimista, amaro, sulla società di allora, perché quei musicisti non sembravano più capaci di trovare la capacità di suonare insieme e su di loro pesava, non solo metaforicamente, la palla da demolizione che squarciava i muri della sala in cui stavano provando. Credo che il nostro obiettivo sia proprio quello di ripensare alla nostra società come a un’orchestra, perché è nell’orchestra che nasce l’armonia a cui tutti contribuiscono solo se se suonano al meglio il proprio strumento. Anche se, ora come allora, la sala in cui dovremmo suonare, sta per essere distrutta.

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