Riflessione personale, quasi un soliloquio sull’altro.
Ho avuto una discussione ieri con un bravissimo compagno, debbo dire molto fruttuosa, di cui lo ringrazio e da cui ho tratto una precisa indicazione di metodo, o meglio ermeneutica. Io penso che noi di sinistra, ma anche noi appassionati di politica in genere, ci dividiamo grosso modo in due schiere.
La prima schiera ritiene che si può diventare finalmente forti e pronti a comprendere la realtà, solo se si cresce come soggetti (individui, gruppi, partiti), se cresce la propria potenza, se si è capaci di cogliere le novità epocali, se si è capaci di sfidare la realtà con intelligenza e passione, e coglierla finalmente nei suoi dinamismi reconditi, spesso sfuggenti. Insomma: si è in grado di dirigere, di governare e di trasformare solo se si fa un lavoro sul soggetto e su se stessi capace di mutarci, di metterci nelle condizioni di una svolta, per essere finalmente in sintonia con le necessità storiche e le contraddizioni che si spalancano. Ma più di tutto, per questa prima schiera, conta la critica a se stessi, una critica feroce ma metodica, che è condizione essenziale per maturare la svolta, mostrarsi in grado di essere dentro i tempi nuovi e provare a mutarli profondamente.
La seconda schiera, invece, non ritiene che basti lavorare su se stessi e sulla propria accrescibile potenza. Al contrario, insiste sul carattere relazionale del soggetto, sul suo essere-per-l’altro, sul contesto che ci circonda, sulla condizione altrui e sulla forza che può derivare da un’attenzione minuta a ciò che è fuori di te. Ma, più di tutti, che può derivare dall’interazione con gli altri soggetti, nella convinzione che la vita, la storia, la politica sono ‘lotta’. E ‘lotta’ significa non solo il corpo-a-corpo, l’agonismo, la dialettica nelle sue forme più crude, persino tragiche. Ma anche una modalità dell’ascolto, una umiltà del rapporto, una disposizione a comprendere. Una forma di prossimità all’altro, opposta alla prossimità a sé. La seconda schiera vede la molteplice composizione del mondo, la fitta tessitura di altro attorno a sé, e pensa che la potenza non possa davvero crescere per sola attitudine individuale, ma per interazione reciproca, grazie anche al ‘dono’ e al riconoscimento della complessità dell’altro, e possa comprendersi solo nel vero mistero che è l’altro. Un ‘altro’ che è contraddizione e salvezza assieme, perdita e conquista. La vera potenza è, in fondo, la propria impotenza individuale. Essa è lo sguardo che rivolgi alle donne, agli uomini, alla natura, alle cose, alla terra e al cielo, più che a te stesso.
Io mi sento di appartenere a questa seconda schiera. Ma non ho nulla contro “l’altro” che sente di appartenere all’altra, anzi. Come si può ben immaginare