Noi che eravamo belle e non eravamo vere signore

per Gabriella
Autore originale del testo: L'altra metà del cielo
Fonte: L'altra metà del cielo
Url fonte: http://laltrametadelcielo.wordpress.com/2014/12/08/noi-che-eravamo-belle-e-non-eravamo-vere-signore/

L’altra metà del cielo – 8 dicembre 2014

Dopo aver letto l’ottimo articolo di Celeste Ingrao https://www.nuovatlantide.org/noi-che-non-eravamo-vere-signore/ in risposta alle esternazioni delle “donne” di Governo dei nostri giorni, mi è venuta la voglia di esternare pure a me, donna non di governo, senza fama e senza ventura, ma indubbiamente donna, sebbene nè oggi nè ieri io sia identificabile come “vera signora”.

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Era il 1969, molti secoli fa, quando si andava ai “Do Farai”, il centro studentesco dove si faceva “politica”. Ero donna, giovane, insicura e amavo la politica.
A rigor di logica io lì non ci avrei dovuto andare, sì ero giovane, ma non ero studentessa. A dire il vero non avevo mai cominciato ad esserlo.
Ero femmina, seconda di cinque fratelli, di cui tre maschi, un padre padrone e una madre senza coraggio. Il mio destino era stato segnato fin da subito: sì ero intelligente, ma donna e sarei rimasta a casa. Inutile spendere soldi per i miei studi se poi, me ne sarei convolata a giuste nozze.
Inutile dire che ne soffrii moltissimo, ma non c’era modo di venirne fuori, inutile sbattere la testa, me la sarei rotta. Così decisi da subito:
1) Avrei lavorato per diventare indipendente
2) Sarei uscita di casa alla maggiore età (21 anni a quel tempo)
3) Mi sarei iscritta a scuola
4) non mi sarei sposata mai
E così feci, con qualche deroga, ma molto più in là nel tempo.
Ma torniamo ai “Do Farai”. Non che quella stanza disadorna e puzzolente di sigarette avesse grande fascino di per sè, ma era l’unico modo per guardare quel mondo che mi era stato negato: il mondo studentesco.
Mi sembrava di essere un’intrusa, ovviamente, e mi cacciavo negli angoli più nascosti, restando in religioso e ammirato silenzio. Ascoltavo ed imparavo, rendendomi conto che non sarei riuscita a dire mai una sola parola, senza sprofondata e morire di vergogna. Anche se qualcuno mi avesse chiesto un’opinione semplice semplice: “preferisci i Beatles o i Rolling Stone” pur avendo una mia idea, non avrei avuto il coraggio di sostenerla.
Comunque in realtà non ero l’unica donna a tacere, anche se la cosa non mi consolava affatto.
I leader erano maschi, e loro sì che sapevano cosa dire. C’era Michele, passato poi di gruppo politico in gruppo politico, c’era Massimo già da allora spocchioso e ombelicocentrico, c’era Paolo suo fratello un po’ più piccolo, ma sempre e comunque più grande di me.
Le ragazze pendevano dalle loro bocche. Erano gli ornamenti che rendevano attraenti quelle riunioni fumose e inconcludenti. Tutte ragazze che nascondevano la loro femminilità in vestiti sgualciti e senza forma, in jeans, gonnelloni a fiori, zoccoli e scarpe tendenzialmente sgraziate. Capelli lunghi con la scriminatura centrale e un filino di trucco solo per le più slavate. Le più bruttine avevano un’unica possibilità, imparare a suonare la chitarra.
Vorrei ricordare, al di là degli slogan, che andavano per la maggiore, quello che si diceva in quel consesso. Ricordo poco, so solo che, per documentarmi meglio, mi lessi saggi di economia, filosofia e politica con la strana idea di non capirci niente. Invece non era così, forse per fortuna, forse per una certa capacità di sintesi del pensiero, molte cose lette allora diventarono la mia religione, l’unica religione che mi sarei concessa nella vita.
Fu da allora che applicai, con molta estensione dei termini, il materialismo storico contro la “spiritismo” (sarebbe ridicolo chiamarla spiritualità) che andava di moda allora. Affondavo la ragione e la critica applicando con puntigliosità l’analisi corretta dalla “tesi, antitesi e sintesi” e la dialettica, non come un vuoto parlare, ma come la possibilità di comunicare e riceve informazioni, apertamente, per integrare, alla fine, la mia conoscenza.
Andare in quella “sancta sanctorum” mi stava rafforzando, mi stava rendendo più sicura e guardinga. Non erano solo i maschi a “conoscere”, ma anche le ragazze ci sapevano fare. Ogni tanto quando si usciva, scambiavamo qualche chiacchera, prima di seguire gli amici del gruppo. Anche loro erano insicure, erano incerte, incerte come può essere solo una donna che sta valutando la possibilità di saltare il fossato, di trasferire il suo genere in un campo che non aveva mai praticato, quello del genere maschile.
Tutto sommato a conoscerci meglio non eravamo così male. Io che ormai lavoravo da anni avevo una visione più pragmatica della vita, le altre, o almeno alcune di loro, si stavano scrollando dalle spalle tutti i condizionamenti dovuti all’educazione e anche valutando l’inadeguatezza dei maschi del loro ambiente.
C’era spazio intorno a noi, a guardar bene. Spazio che potevamo e dovevamo occupare.
Poche capivano i condizionamenti e gli ostacoli che incontrava l’affermazione del nostro genere. Io lo sapevo già da un pezzo: ero considerata un essere umano di minor valore perchè ero donna. Non avevo potuto studiare. Ero riuscita ad andare a lavorare fuori casa, rinunciando ad un cappotto di cui avevo grande bisogno. Mi rifiutavo di passare da padrone a padrone della mia vita e di farmi irretire in logiche perverse (fidanzamento e matrimonio o quant’altro). Volevo decidere da sola. Ballare da sola.
Se questo è femminismo, non so. La mia libertà non era solo una questione di genere, in tanti, maschi o femminine, cercavano di uscire dai binari di una vita omologata, di ruoli che non ci andavano bene e che trovavamo ipocriti e noiosi. Ma le donne lo facevano con maggior determinazione, erano certamente più motivate.
Lo sarebbero anche ora, se si rendessero conto che i valori della libertà e dell’autonomia sono stati sopraffatti dalla precarietà della vita e dalla svendita degli ideali. Ma i vecchi tempi sono passati e le donne parlano, anche se qualche volta, farebbero meglio a tacere.
Oggi ci stanno le “quote rosa” a garantire una parvenza di uguaglianza, allora per avere parola e per contare bisognava farsi il mazzo per davvero e dire cose che facevano tacere i maschi non per la violenza con cui si dicevano, ma per i contenuti e l’inconfutabilità.
Per essere belle eravamo belle e giovani, al limite, se un po’ bruttine, si imparava, come già detto, a suonare la chitarra. E passo dopo passo si creava quel futuro di libertà ed eguaglianza che ritenevamo indispensabile per la vita di tutti. Non sono per quella delle donne con gli uomini, ma per tutti quelli che venivano considerati marginali alla società in cui stavamo prendendo parte.
Ricordo una sera ai “Do Farai” che mi insegnò più di un compendio sull’emancipazione della donna e sulle possibilità che avevamo per le nostre lotte future. C’era Mao con un amico barbuto, che si era rintanato vicino al mio angolino nascosto conversando liberamente, con l’idea di non essere ascoltati.
Mao veniva chiamato così perchè era uno dei leader della rivolta studentesca, ovviamente era diminutivo di Maurizio, ma anche perchè quel nome faceva pensare alla “rivoluzione culturale” cinese.
“Sai perchè io vengo qui tutte le sere?” chiedeva Mao all’amico barbuto “La vedi quella biondina sulla sinistra? Ecco, mi piace un sacco. Devo trovare il modo per parlarci. Stasera parlerò dei Comitati Unitari di Base, che fa sempre effetto, e poi me la faccio presentare…”.
Non ricordo come finì la cosa, a dire il vero non mi interessava, quello che in quel momento avevo compreso era che la “rivoluzione” a me interessava a prescindere da chi ne parlasse e che mai mi sarei messa in mostra, in quel circo, per conquistare un ragazzo. Insomma le mie motivazioni erano serie e fondate e che quelle dei “leader massimi” non erano migliori o più valide delle mie.
Parlar di politica per farsi belli con le ragazze, non era ancora un difetto delle ragazze nei confronti dei maschi. Tutte noi sapevamo che gli uomini temono le donne intelligenti e spigliate e quindi se volevi acchiappare dovevi, se ci tenevi, trovare un altro sistema. E sia chiaro da quando ho iniziato a parlare, io non ho mai smesso 🙂 succeda quel che succeda e quell’altro sistema non l’ho mai utilizzato.
Quel che successe nel dopo “Do Farai” è storia personale ma anche Storia Generazionale. Molte disillusioni, passi in avanti di corsa e brusche stoppate. Successivamente anche tanti passi indietro, con tante storie di lotta e anche tanti morti. Ormai molti giochi sono stati fatti e molte conquiste sono messe in discussione e non solo le conquiste delle donne per le donne.
La mia vita personale fu sufficientemente coerente, con qualche divagazione perchè sono un essere umano prima di essere donna. Ho sbagliato, rimediato e risbagliato… perchè questa è la vita. Sono femminista quando mi accorgo che noi donne non siamo trattate alla pari, e sono incazzata quando vedo le ingiustizie che travalicano il genere, praticamente sono una femminista incazzata a tempo pieno, ma amo la vita e il dono dell’altro sesso che sa rendere più divertente questo mondo a volte un po’ triste.
Se questo è essere donna, io lo sono. Se questo è essere una “vera signora” io continuerò a non esserlo o almeno a rifiutare una simile etichetta. Se non altro per l’odio che ho di andare dal parrucchiere e dall’estetista. Compro scarpe comode, che comode non sono mai a sufficienza e abiti che mi facciano sentire completamente a mio agio. Piaccio? Non so, non credo e se piaccio non è certo per questi ornamenti. Garantisco però, che so parlare ed ascoltare, se necessario, e ho il senso del ridicolo e del limite, cosa poco comune di questi tempi.
Amo sempre la Politica, ma quella con la P maiuscola. Quella di oggi ha la p minuscola, come sono minuscoli gli uomini e le donne che la praticano. Salvo qualche rarità, ma questo è un capitolo a parte, e ovviamente a prescindere dal genere.

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