Il NO ha vinto e adesso?

per luciovalerio

di Luciovalerio Padovani – 30 dicembre 2016

Difficile intervenire oggi, all’ordine del giorno dell’assemblea sembrano esserci temi molto diversi: il referendum, le amministrative, il programma, troppi per una riunione sola. Si diceva comunque di tentare un’analisi politica del voto sul referendum, ci provo, consapevole che se si tratta di considerazioni provvisorie che necessitano di ulteriori approfondimenti.

Primo, è stato ovviamente un voto nel “merito”. E stata respinta con forza una proposta di riforma che poteva avere effetti deleteri sul funzionamento democratico della nostra Repubblica. Tuttavia, diciamocelo con chiarezza, questo referendum non l’hanno certo vinto i costituzionalisti.

Secondo, è stato un voto contro il governo. Aldilà del merito, gli elettori si sono espressi con un sonoro no alle sue politiche ed alla strada scelta per fronteggiare la crisi. Nonostante il controllo assoluto dei media, l’ottimismo del governo non ha convinto. La narrazione renziana ha fallito perché ha dovuto fare conti con la condizione sociale reale di molti, una verità che nessun racconto demagogico può negare, visto che una parte significativa della popolazione si ritrova più povera, senza protezione, senza servizi e magari senza lavoro.

Terzo, e l’analisi del voto lo conferma, è stato un “voto di classe”, o per meglio dire, un “voto antisistema”, visto che la classe (quella soggettivamente dotata di coscienza) probabilmente non cè più. Il voto ha diviso i ceti più deboli della società da quelli più forti, i giovani precari e senza lavoro dagli anziani pensionati e garantiti, il centro delle città dalle proprie periferie, i quartieri popolari da quelli borghesi, le grandi città da quelle più piccole, il Nord, come “centro” politico ed economico, dal sud paese.

Chi ha subito maggiormente la crisi si è sentito emarginato, escluso, periferico, questa volta ha espresso la propria distanza tornando a votare e dopo anni di assenteismo e ha votato “no”, mentre al voto dei quartieri popolari si è aggiunto anche quello di un ceto medio impoverito sempre più arrabbiato.

Se la profonda mutazione genetica che si è abbattuta sul PD si rispecchia anche nel consenso raccolto dal SI, noi non possiamo dirci del tutto estranei alla stessa dinamica, siamo intrappolati in uno schema simile, l’analisi rinvia allora a quella delle elezioni precedenti, dove anche la sinistra non ha raccolto il consenso atteso nei quartieri popolari e sembra non riuscire  a dare rappresentanza a quei settori proletari e marginali che dice di voler rappresentare.

Siamo di fronte a una sinistra senza popolo e a un popolo senza sinistra? È un dato di realtà su cui riflettere molto seriamente per formulare azioni conseguenti, a maggior ragione se ci vogliamo candidare a diventare, come dice qualcuno, il “quarto polo” e tornare ad essere una sinistra “popolare”. È proprio da qui che bisogna ripartire, non possiamo sottrarci, se non facciamo qualcosa in fretta, il voto di protesta, genericamente antisistema, può trasformarsi in consenso per i populismi variamente declinati, con il rischio reale che il paese  imbocchi un’uscita a destra dalla crisi.

Nella relazione introduttiva si sottolineava che dall’analisi dei questionari (fatti compilare da “Rete a Sinistra”) emergeva un dato, per certi versi imprevisto: il 25% di coloro che hanno dichiarato di aver sostenuto la rete alle regionali ha optato per il voto favorevole alla riforma. La cosa mi lascia un po’ perplesso, ma può essere. Probabilmente questi compagni, pur trattandosi di un referendum, hanno subito il richiamo delle sirene del cosiddetto voto utile. Hanno votato una brutta riforma “tappandosi il naso” , condizionati dall’ansia per le conseguenze di scenario, su cui la propaganda renziana, anche in questa circostanza, ha fatto ampiamente leva.

Del resto che il diffuso sentimento antisistema possa portare in un futuro prossimo anche ad “avventure pericolose”, non si può escludere del tutto. L’analisi è quindi condivisibile, ma, come al solito, è sulle soluzioni che la sinistra si divide. Si diceva che ci siamo ridotti a svolgere il ruolo della “sinistra di opinione”, che incontriamo migliori risultati nei quartieri in cui c’è un alto numero di piccolo borghesi illuminati e riflessivi. Ora, con il referendum, si rileva che,  rispetto a questo voto, si è perso qualche consenso.

Le opinioni possono cambiare in fretta, le classi medie sono un po’ più garantite, anche nell’attuale congiuntura e hanno bisogno di governabilità a prescindere. Sono “compagni che sbagliano” e anche con loro bisognerà confrontarsi, si parla con tutti, va bene, giusto, ma non credo però sia il caso, soprattutto in questa fase, di inseguirli cercando di interpretarne le ambivalenze. Il voto d’opinione è mobile e volatile per definizione, credo che dobbiamo guardare in tutta altra direzione.

Sono convinto che per noi, in questa fase, la strada obbligata da percorrere per uscire dalla marginalità, sia invece quella di andare alla ricerca del consenso perduto tra i ceti popolari, nelle periferie delle città e cercarne di guadagnarne di nuovo tra il ceto medio impoverito dalla crisi. Inutile negare che la strada è in salita e che ci sia molto lavoro da fare, non sarà una passeggiata, ma non mi sembra ci siano alternative credibili.

Si apre però una stagione potenzialmente molto  interessante, se è probabile che alcuni nostri voti siano andati al SI, è invece del tutto certo, che il PD ha subito una fortissima emorragia di consensi, quasi una diaspora. Sono andati al NO, flussi importanti di voti, con percentuali che variano da città a città (dal 20% di Firenze, al 33% di Torino, fino al 40% di Napoli e Palermo) ma che restano consistenti in tutta Italia. Per la seconda volta, era già successo per il voto sulle trivelle, l’elettorato PD perde compattezza e si conferma che una comoponente, minoritaria ma significativa, di elettori guarda con interesse alle posizioni di sinistra.

Renzi, dal canto suo enfatizza, cercando di intestarselo, il 40% di consensi a favore della riforma. Purtroppo per lui ha torto. L’analisi dei flussi dimostra che molti voti vengono da altri partiti: dai centristi che hanno votato SI all’unanimità e da Forza Italia che ha votato SI con percentuali significative, dal 20 al 40 %. Siamo quindi in presenza di un voto trasversale che potrebbe sancire, nei fatti, un’area omogenea di consenso, organica alle politiche del governo che ha aperto la “stagione riformatrice”, infine del tutto sovrapponibile al progetto del cosiddetto “partito della nazione”, più coerente con il disegno renziano, sicuramente più credibile, rispetto ad un improbabile e tardivo ritorno del PD ad un programma di centrosinistra.

Altro dato abbastanza certo è che l’attuale direzione del Pd, sulla scorta di questa narrazione azzardata ma non priva di un qualche fondamento, stia tentando di trasformare la sconfitta in un parziale successo (ripartiamo dal 40%) ed ha ottime probabilità, non solo di restare egemone, ma anche di arrivare alla resa dei conti definitiva con la minoranza interna a cui viene interamente attribuita la responsabilità della sconfitta. Insomma, se la condizione posta da alcuni per poter nuovamente cominciare a parlare di progetto di centrosinistra era il cambio al vertice del principale partito della coalizione, questa non si realizzerà, quantomeno non in tempi brevi.

Nonostante la bruciante sconfitta, il PD non si de-renzianizzera’, con buona pace di quella parte di sinistra che aspettava l’esito del referendum per esprimersi sulla questione delle alleanze. D’altro canto, se in questa sala provassimo a fare il “gioco del referendum” per testare il nostro gradimento delle politiche renziane (jobs act, buona scuola, sblocca italia, esteri, f35, grandi opere, ponte sullo stretto, italicum, tanto per citarne alcune), sono convinto che il 99% delle persone presenti voterebbe no a tutti i quesiti “senza se e senza ma”. Le distanze si sono ormai fatte siderali, basta per sostenere che bisogna costruire un progetto di sinistra coerentemente e radicalmente alternativo a queste politiche?

Per avere qualche speranza di successo e recuperare consenso serve una comunicazione chiara, non ambigua, in grado di esplicitare le differenze, ciò che ci distingue dall’avversario (o dagli avversari). Se abbiamo una proposta politica autonoma, non complice delle scelte del governo e dello status quo, allora dobbiamo dirlo con forza ed in modo comprensibile e semplice, altrimenti saremo definitivamente confusi con chi è altro-da-noi e corriamo il rischio di condannarci per sempre alla marginalità, se non addirittura all’estinzione.

Nelle assemblee, nelle riunioni, che si sono susseguite nell’arco di questi lunghi mesi, cè stata molta mobilitazione, si sono incontrate molte persone diverse accomunate da un obiettivo comune, abbiamo fatto molto lavoro, espresso molta militanza. Le giornate che hanno preceduto il referendum hanno dimostrato che esiste una forte e convincente “sinistra del no”. È soprattutto da quì, dalla rete di relazioni che siamo riusciti a mettere in campo in campagna elettorale, da quegli uomini e quelle donne, che bisogna ripartire. Una rete di cittadini, di intellettuali, di politici, di sindacalisti, di attivisti, di militanti che hanno dimostrato di essere accomunati da valori importanti.

Possiamo spingerci oltre? Dire che la difesa e l’attuazione dei principi contenuti nella nostra costituzione un po’ troppo socialista (come direbbe JP-Morgan) possa rappresentare un confine che stabilisce un campo, una visione condivisa del mondo e prefigura un progetto di società distinguibile e distintivo?

Quello che mi piace pensare è che, intorno alle iniziative promosse dai “Comitati per il No”, si è rivisto, per un attimo, non solo un “popolo di sinistra” intenzionato a impegnarsi e dare battaglia per le proprie idee ma anche una “classe dirigente” in grado potenzialmente di governare il paese: molte persone diverse per età, genere, professione, appartenenza ma tutte di alto livello morale, civile e politico.

Si tratta di vedere se questo “fronte largo”, che è stato protagonista della campagna vittoriosa,  è in grado di formulare una proposta politica coerente, un progetto comune, capace di far uscire il “fronte progressista” dalla marginalità in cui si è cacciato.

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