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di Luca Billi 17 luglio 2016
17 luglio 1936: scoppia la guerra civile spagnola.
Se devo pensare a un solo avvenimento che possa raccontare a un ragazzo nato nel nuovo millennio tutto il Novecento – nella sua grandezza e nella sua meschinità, con i suoi crimini e con le sue speranze – inevitabilmente penso alla guerra di Spagna, alla nostra sconfitta nella guerra di Spagna.
Davvero nelle vicende drammatiche di quei pochi anni e di quel solo paese possiamo leggere tutta la storia europea del secolo scorso. L’affermazione di un fascismo violentemente antidemocratico, creato, fatto crescere e sostenuto fino alla fine dal capitale e alleato con tutte le forze retrive della società, dalla chiesa all’esercito. La debolezza e l’ipocrisia di quei democratici, anch’essi al soldo del capitale, che decisero di sacrificare i valori della democrazia – che pure a parole dicevano di difendere – pur di contrastare le forze popolari che stavano emergendo. La presa di consapevolezza da parte della nuova classe dei lavoratori che il mondo poteva essere finalmente cambiato, se loro fossero entrati nelle istituzioni democratiche da cui, fino allora, erano stati esclusi. Il germinare fecondo dell’idea che la democrazia si può realizzare davvero solo se si sovvertono i rapporti di forza economici, se i contadini diventano padroni delle terre che coltivano, se gli operai controllano le fabbriche e i mezzi di produzione, se i lavoratori diventano protagonisti della vita economica, perché non ci può essere democrazia dove c’è povertà, dove c’è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La nascita di una resistenza internazionale, la consapevolezza che quello che succede in un paese riguarda anche la vita delle persone che vivono negli altri paesi, che i lavoratori possono vincere solo se rimangono uniti: le migliaia di volontari, donne e uomini, di tutte le età, di tante idee politiche, che formarono le Brigadas Internacionales rappresentano una delle pagine più gloriose della storia antifascista del secolo scorso. Il riconoscimento che troppe volte le divisioni tra le forze che rappresentano i lavoratori, l’affermazione di categorie dottrinali, il prevalere di interessi nazionali e delle forme più deteriori della tattica politica finiscono per indebolire, in maniera esiziale come è avvenuto appunto in Spagna, la lotta delle classi più povere. L’uso senza limiti della violenza, una violenza cieca, inumana, che lascia senza fiato, che solo un grandissimo artista come Pablo Picasso poteva raccontare, in quella che – non a caso – è l’opera d’arte che racconta da sola tutto il Novecento.
La guerra di Spagna è tutto questo. E per questa ragione, a ottant’anni dall’inizio di quel conflitto, quella storia ci parla in maniera così chiara, così diretta. Quella storia è la nostra storia, qui e ora. Perché quella lotta continua ancora, seppure in forme molto diverse rispetto a un secolo fa. Il capitale in questi ottant’anni si è fatto ancora più violento, più spietato, più egoista, ha ucciso e uccide milioni di persone: Guernica è ovunque, in ogni angolo del mondo. La nostra reazione è invece più debole, le divisioni tra i lavoratori, tra gli oppressi, tra gli sfruttati, sono sempre più nette e finiscono per farci soccombere. Per questo abbiamo bisogno di studiare il nostro passato, abbiamo bisogno di raccontare storie che ci vogliono far credere che siano lontane, ma che invece sono attualissime, abbiamo bisogno di esercitare la memoria. E abbiamo bisogno di studiare la realtà, di svelare quello che vogliono nasconderci, di indignarci di fronte alla verità che scopriamo. E soprattutto abbiamo bisogno di lottare, senza arrenderci, anche se è così dura, anche se ci sentiamo così deboli, anche se pensiamo che saremo sconfitti.
Ora come allora ¡No pasarán!