Neuroscienze cognitive: un nuovo umanesimo?

per nicola

di Nicola Boidi

«La precedente analisi materialista…. risolse i fenomeni storici in fenomeni biologici, quest’ultimi in fenomeni chimico-fisici, giù giù fino alla “base” atomica di ogni cosa … anche di fenomeni ultradensi di storia, per esempio la battaglia di Maratona, restavano solo movimenti di muscoli, e dunque i greci e i persiani, insieme con il contenuto sociale di questa battaglia scomparivano in movimenti muscolari completamente substorici… Mancava quello che proprio Democrito, il primo grande materialista aveva chiamato “salvare i fenomeni”, e che sul piano del metodo aveva favorito».

 Ernst Bloch, Il principio speranza.

Negli ultimi anni si sono notevolmente accresciute le fila degli specialisti delle scienze umane – storici,filosofi, psicologi, antropologi, sociologi – affascinati dall’enorme sviluppo che le neuroscienze ( «scienze della mente o del sistema nervoso») e le scienze «cognitive» – intelligenza artificiale, linguistica, psicologia empirica, psicolinguistica – hanno conosciuto negli ultimi cinquant’anni. Il fascino o la «folgorazione sulla via di Damasco» in questione e che coinvolge sia gli umanisti che gli specialisti di scienze della mente e del linguaggio, la seduzione da cui si è tentati di farsi catturare, è quella di poter costituire un nuovo paradigma di «umanesimo», un orizzonte comune che abbracci in sé l’umanesimo e la scienza , allo scopo di determinare un nuovo modello di natura umana su basi laiche e razionaliste. E’ percorribile una tale strada?

Nel panorama degli accademici italiani si distingue attualmente per l’impegno profuso in tale direzione il professore di storia moderna dell’università Cà Foscari di Venezia Giorgio Politi, che in diversi suoi saggi tenta di tracciare i lineamenti di una nuova epistemologia che rivitalizzi la scienza storica. La storiografia, chiusa nel suo specialismo privo di ricomposizioni e di orizzonti generali, è a suo dire giunta a un punto morto, declinata in una lingua o linguaggio ormai morto ( non a caso La storia lingua morta s’intitola una raccolta di saggi pubblicata dallo stesso Politi) , non più in grado di comunicare e interessare una vasta platea di studenti o semplici lettori, sopratutto tra le generazioni più giovani. Questo perché, argomenta Politi, nell’epoca della cosiddetta «fine delle ideologie» e della «fine della storia » ( l’omonimo celebre titolo del saggio di Francis Fukujama) in cui pare disegnarsi l’appiattimento su un eterno presente senza più alcuna prospettiva o proiezione in un collettivo destino futuro, l’interesse per lo studio del passato come oggetto canonico della storiografia sembra perdere qualsiasi valore e significato.

La reazione dello storico a questa costatazione oggettiva prende forma in particolare concentrando la propria riflessione su un tema ricorrente nella storia, quello che egli chiama il «paradigma elezionista»: l’idea sulla cui base l’unico Dio stipula un patto con un gruppo umano determinato , che trasforma le vicende di quel popolo «eletto» in significato e fine dell’intera storia, una storia sacra o escatologica. Specificatamente nella sua Introduzione al convegno Popoli eletti. Storia di un viaggio oltre la Storia, Politi teorizza che l’«elezionismo» si dimostra storicamente capace di scavalcare le differenti epoche storiche per riproporsi immutato a distanza di millenni: un «modello metastorico».

Nato storicamente nella cattività babilonese del popolo ebraico ad opera del suo ceto sacerdotale, il paradigma elezionista si mostra in grado di rovesciare la prospettiva di disperazione senza prospettive del popolo schiavo nel suo opposto, poiché la catastrofe stessa è la conferma «in negativo» della natura eletta di quel popolo, punito dalla disgrazia perché avrebbe offeso il suo Dio. Necessario complemento di tale concezione viene ad essere l’attesa mitica di un salvatore che sia in grado un giorno di ripristinare il patto con Dio e riportare il suo popolo alla salvezza: l’attesa del Messia.

Politi vede il modello elezionista, originariamente ebraico, dopo la diaspora arricchirsi di componenti apocalittiche di derivazione presumibilmente zoroastriana e trasmettersi al cristianesimo delle origini , grazie all’opera di Paolo di Tarso, (e con presenza manifesta nel Vangelo di Giovanni), influenzare l’Islam delle origini, trovare una riscrittura all’interno del medioevo cristiano sotto lo sguardo profetico di una storia sacra in cammino nelle sue tre età con Gioacchino da Fiore; il paradigma elezionista conosce poi nell’età moderna una forte ripresa all’interno del calvinismo e del puritanesimo inglese, ponendo le basi della nascente cultura americana.

La stessa cultura illuminista europea e poi l’idealismo tedesco saranno attraversati dal modello del popolo eletto e dal suo cotè messianico-apocalittico; tale paradigma giungerebbe infine, a giudizio di Politi, al suo approdo di una «terra promessa » totalmente mondana nel materialismo storico-dialettico di Marx ed Engels. La prospettiva elezionista/ messianica inoltre innerverebbe di sé i maggiori movimenti di massa del XX secolo : la teoria stalinista del «Paese guida» e il «millenarismo » nazista. Le stesse forme contemporanee di «reviviscenza» religiosa presenterebbero tracce della continuità del paradigma elezionista (sarebbe interessante conoscere il parere di Politi sul rapporto tra elezionismo e fondamentalismo religioso evangelico americano da una parte e islamismo radicale dall’altra parte, ma su questi temi lo storico non si sofferma).

Ciò che interessa Politi in questa sede è capire se la prospettiva elezionista manifesti un «nucleo» e una «struttura di fondo» che, al di là di modifiche temporali e contestuali molto numerose e ampie, si mantengano inalterati nel corso dei secoli e dei millenni di storia . I casi storici concreti già citati e altri riscontrabili nel cammino storico dell’uomo suffragherebbero la suddetta tesi che il paradigma di un popolo eletto e di una terra promessa come meta finale, discendendo dalla metafora e dalla trasfigurazione ideale della «Gerusalemme Celeste», trovino una loro sia pure assai parziale e caduca realizzazione pratica in terra in alcuni casi temporalmente e storicamente assai distanti tra di loro.

Nella casistica rientrerebbe la costruzione della città eletta da parte dei riformati boemi «taboriti» –contadini e artigiani –in attesa della Parusia, la breve stagione della Firenze di Savanorola , l’affermazione in più casi del paradigma elezionista nelle città tedesche della prima metà del cinquecento, anche come reazione al loro declassamento da parte della dieta imperiale. E ancora la Ginevra di Calvino sarà nella stessa epoca eletta nuova Gerusalemme e fornirà un modello imperativo per i puritani pellegrini del May flower nel nuovo mondo.

Infine, a distanza di secoli , in tutt’altro contesto storico, nella Russia dei Soviet, una volta esaurita la prospettiva della realizzazione di una rivoluzione bolscevica a livello internazionale, l’attuazione della Gerusalemme in terra si volge verso la dottrina del «Paese guida» e del «socialismo in un solo paese» , in cui il paradigma elezionista agisce in chiave difensiva, pur proiettandosi , per la prima volta nella storia, su orizzonte planetario. Per decenni il sogno comunista si è diviso tra la realtà in atto dell’Unione Sovietica e quella che Politi chiama «comunità prolettica», la proiezione per cui un gruppo umano determinato ritiene di vivere secondo regole che anticipano quelle destinate ad estendersi in futuro all’umanità intera, ossia di vivere nel futuro.

Il suo ricorrere immutato in contesti geografici e temporali così diversi induce Politi a constatare che il paradigma elezionista non si esaurisce nelle situazioni storiche specifiche in cui si manifesta ma si presenta dotato di un «fondamento metastorico» e che dunque «va oltre la storia stessa». E’ nel suo portatore, la mente umana stessa, argomenta Politi, che andrebbero rintracciati i fattori costitutivi strutturali e immutabili di tale natura «sovrastorica». Se l’ipotesi avanzata da Politi si dimostrasse fondata, a suo avviso andrebbero ricostruite organicamente le origini contestuali e la trasmissione nel tempo, fino ad oggi, della supposta natura umana sovrastorica ( un nuovo «idealismo» su basi differenti, in cui «la ragion pura kantiana trova una nuova conferma al di là del suo astratto razionalismo», nelle parole di Politi). A suffragio della sua tesi Politi svolge una ricognizione di quelli che si potrebbero configurare quali lineamenti costitutivi permanenti del paradigma elezionista.

1) Tra questi innanzitutto l’elemento «compensatorio » per cui dichiararsi popolo eletto da Dio non sarebbe affermazione di superiorità etnica o razziale rispetto agli altri popoli ma al contrario l’estrema difesa di popoli caduti in schiavitù e in situazione di estremo pericolo che, a compensazione del fatto che incontrano un’ostilità generalizzata,s’inventano una posizione di superiorità puramente fantastica.

2) Assolutamente complementare e integrativo di questo primo elemento sarebbe però la capacità di «adattamento» che nel caso dell’essere umano si arricchisce, oltre le abituali attitudini a modificarsi in ragione di fattori fisici ed esteriori dell’ambiente vitale delle altre specie viventi, anche di una plasticità nell’«adattamento mentale » richiesta dagli aggregati sociali complessi e di grande dimensione, estremamente instabili, quali si presentano le società umane. Si tratterebbe dunque di una forma di adattamento a «sé stessi», alla propria identità psicologica. Il paradigma elezionista agirebbe in tali contesti come una capacità compensatoria/ adattiva in grado di rovesciare mentalmente i fattori costitutivi di una situazione esperienziale di estrema difficoltà, mobilitando e orientando le energie psichiche necessarie verso la costituzione – in termini biologici– di un «involucro culturale» per il gruppo umano in difficoltà.

Il paradigma elezionista dunque, anche se in qualche misura comporta necessariamente una natura aggressiva e militante, si doterebbe principalmente di una natura costruttiva capace di assicurare resistenza e sopravvivenza ai soggetti che l’applicano. Tale paradigma compensatorio/ adattativo, osserva Politi, non può essere di conseguenza interpretato come un meccanismo di difesa passiva e inerte, come una pratica di mero adeguamento, «un chinarsi in attesa che passi la piena», ma piuttosto «il tendersi di un arco», « la posta in tensione delle proprie più formidabili energie,  per resistere certo,ma nella prospettiva di una riscossa». Il tutto con il sottinteso che tali formidabili energie dovranno essere tanto più potenti e persistenti quanto più indeterminato e differito in un incerto futuro si presenta il momento della riscossa.

Se il paradigma elezionista si configura con tali elementi costitutivi – compensazione, adattamento, «involucro culturale difensivo» quale attivazione reattiva di energie psichiche profonde – allora esso non sarebbe affatto un «oppio dei popoli» ( una droga ideologica) ma al contrario una pratica «psicoattiva». E’ su questo punto, sostanziando in tali termini il suo concetto di «modello sovrastorico», che Politi compie il salto logico-argomentativo per cui la rilevazione storica o più genericamente umanistica di lungo periodo, incontrerebbe o troverebbe un punto di contatto con le neuroscienze cognitive contemporanee. Lo stesso Politi avverte che qui «si tratti, ne sono consapevole, di una prospettiva spericolata e del tutto inedita», ma «d’altra parte la prospettiva non manca di fascino».

Politi dichiara di essere perfettamente consapevole che sul piano delle ricerche sperimentali delle scienze della mente ( neuroscienze) o della scienza di punta delle scienze cognitive , l’intelligenza artificiale, è assai difficoltoso e problematico distinguere ciò che è predeterminato nella nostra mente da ciò che deriva dall’interazione tra strutture genetiche di base e l’ambiente, così come da ciò che è meramente acquisito sul piano culturale. Infatti il punto preciso in cui iniziano il rapporto con l’ambiente e la comunicazione interindividuale o socio-culturale non è in alcun modo determinabile e non coincide con il momento della nascita, non è riconducibile ad alcun determinismo oggettivista.

Tuttavia la ricorrenza di lungo periodo di strutture mentali e ideali identiche in contesti storici tra di loro lontanissimi incoraggia lo storico a cercare la sua spiegazione in strutture cognitive specifiche fondamentali dell’uomo. A ulteriore sostegno del suo teorema Politi porta un celebre esempio di attivazione di un meccanismo analogo al modello elezionista: l’elaborazione della propria teologia da parte di Martin Lutero. Il tema teologico cruciale, su cui si arrovella Lutero, notoriamente è: come è possibile sapere se si è salvi oppure no ( come è possibile stabilire con certezza la propria destinazione ultraterrena?). La Chiesa apostolica romana indica come via tradizionale alla salvezza le buone opere; il problema però è in questo caso sapere quando una opera è buona oppure no. La risposta abituale è : quando fosse disinteressata, cioè compiuta per puro amore di Dio. Ma insorge in Lutero il dubbio che la buona opera nasconda un secondo fine strumentale – acquisire dei crediti quando sarà l’ora da poter rivendicare davanti a Dio stesso – mutandosi nel peccato umano per eccellenza, il peccato d’orgoglio: la buona opera rischia allora di trasformarsi in bestemmia contro Dio.

Il dubbio, la disperazione e il terrore che assalgono Lutero a questi pensieri e che lo tormentano da anni, si risolvono di colpo, dopo aver fatto esperienza che tutti i tentativi di meritare la salvezza conoscono esiti fallimentari, volgendo improvvisamente la mente a pensieri completamente diversi : invece di sforzare invano la propria debole volontà il buon cristiano si deve abbandonare a subire l’azione potente di una verità soprannaturale, non deve più disperare della inadeguatezza delle proprie opere e sfuggire l’inferno ma accettarlo come meritato e porsi sotto la benevole provvidenza di Dio, chiedendogli il dono della salvezza, la predestinazione alla grazia.

La lettura di un famoso passo della Lettera ai Romani di Paolo rafforza questa sua improvvisa illuminazione: «poiché noi riteniamo che l’uomo è giustificato mediante la fede, senza le opere della legge». Lutero estende l’esclusione delle opere dal guadagno della salvezza dal formalismo della legge mosaica contro cui si volgeva Paolo di Tarso alle opere tout court, poiché appunte le opere sono irrimediabilmente macchiate di egoismo. Lutero interpreta questa lettura come il messaggio di Dio che dice a lui, come a qualsiasi altro cristiano : «tu non devi fare nulla , devi solo credere in me».

La più grande frattura religiosa d’Occidente , osserva Politi, non avviene tramite una teoria alternativa, un altro cristianesimo a base gnostica o neoplatonica o la dottrina catara: Lutero si muove all’interno della medesima dottrina cattolica, organizzata nei medesimi punti, letti però in un ordine differente, cioè basati sulla giustificazione per sola fede. Non è stato elaborato nessun nuovo concetto teologico, ma, annota Politi, «si è semplicemente cambiato direzione a un vettore».

Queste riflessioni sulla «conversione» di Lutero Politi le ricava dall’opera di Lucien Febvre Martin Lutero. In quel contesto Febvre parla di un «rimedio, terapia, metodo» ricercati da Lutero con cui potesse placare la sua angoscia; dunque Febvre rimane nel campo metaforico dell’analisi e terapia di ascolto e di parola della mente, della psicoanalisi. Politi invece ritiene di poter trasferire la metafora al campo della «macchina computazionale o «calcolatoria» , di potere rinvenire nel rovesciamento della dottrina della salvezza sviluppata da Lutero «come l’applicazione di un algoritmo adattativo che potremmo descrivere nei seguenti termini: in presenza di un ‘immagine mentale insostenibile è possibile ricombinare gli elementi in modo tale che diano luogo a un immagine speculare (identica ma rovesciata, n. d.r.) con effetti non depressivi ma euforizzanti». In analogia a noti esperimenti di psicologia della percezione, annota Politi, potremmo parlare, nella messa in atto di un tale algoritmo mentale, del verificarsi nel cervello di un autentica «tempesta biochimica»; dunque metafora computazionale più osservazione neuronale, un perfetto paradigma «cognitivista».

Il paradigma elezionista nella sua originaria matrice storica, quella del popolo di Israele, mostrebbe all’opera tale algoritmo o ragionamento rovesciato rispetto ai suoi termini iniziali: non era importante per la casta sacerdotale, in condizioni di calamità del proprio popolo, invocarne la salvezza dal suo Dio, ma «salvare Dio» saldando la sua immagine con l’esperienza del suo popolo in modo che ponesse le fondamenta di una resistenza anche su un periodo molto lungo.

Politi ribadisce che non vi è coincidenza tra paradigma elezionista e il metodo informatico dell’algoritmo, ma ne costituisce un suo prodotto specifico che lo porta al suo interno criptato, pronto a decodificarlo in condizioni storiche temporalmente distanti ma analoghe, per utilizzarlo in vista dei propri scopi. Quel metodo computazionale così come quelle strutture neuronali, quali strutture di base della nostra mente, così argomenta Politi, hanno dimensione metastorica e carattere meramente formale. Ma questo che potrebbe essere giudicato il loro limite, sarebbe a un tempo il loro punto di forza: quello di essere plastici, dinamici, capaci di adattarsi agli ambienti spazio-temporali più diversi.

Se l’uomo nel suo cammino storico ha appreso a modificare il suo proprio ambiente, non solo quello esteriore, naturale -sociale, ma anche il suo ambiente interiore, la sua propria mente ( assunzione di determinate sostanze,esercizi di pratiche ascetiche, di danze rituali, di meditazione , di trance , di estasi, etc. ), nel caso della messa in atto del paradigma elezionista, in particolare, è stato necessario mobilitare energie immense, «a prima vista energie morali, ma che possono essere anche viste , a livello mentale , come energie psichiche, o a un livello più profondo, di linguaggio-macchina cerebrale, come energie biochimiche».

Ciò che accomuna il paradigma elezionista e quello che Politi chiama «metodo psico-attivo», in grado di mobilitare queste immense energie, sarebbe dunque un paradigma cognitivista che andrebbe oltre i confini della mera ideologia per approssimarsi alla «centrale nucleare della mente umana», a quella che in altri termini sarebbe chiamato «la fede che sposta le montagne». Una risorsa psicoattiva che può, come storicamente è anche avvenuto, degenerare in fanatismo catastrofico, ma in grado in altre circostanze di determinare la nostra salvezza. La conclusione del ragionamento di Politi è : «Perciò, specie in epoche di grande trasformazione, com’è a mio avviso, quella che stiamo vivendo, non si ha forse bisogno di tenici ma di profeti».

Due fuochi concettuali dalla riflessione di Politi intorno al paradigma elezionista emergono evidenti: 1) l’elezionismo costituirebbe, con le sue caratteristiche costitutive di compensazione, di capacità plastica di adattamento, di accumulo di energia reattiva o psicoattiva,un cosiddetto «paradigma metastorico» capace di ripresentarsi immutato attraverso le diverse epoche e da attribuirsi alla «centrale nucleare della mente umana», ossia a quelle profonde energie biochimiche delle mente, oggetto di studio delle neuroscienze , che avrebbe la sua «riproduzione simulata » nel modello del linguaggio artificiale della macchina celebrale: il perfetto paradigma cognitivista delle neuroscienze+intelligenza artificiale.

2)Il secondo fuoco dell’argomentazione di Politi sarebbe di conseguenza: questa forza psicoattiva che congiunge l’oggettivazione scientifica con la profondità della psicologia soggettiva, scavalcando le contingenze del processo storico, delineerebbe un possibile nuovo paradigma di natura umana, un nuovo ideale di umanesimo capace di rilanciare la prospettiva di un progetto di un futuro o destino comune per il genere umano ( «non si ha forse bisogno di tecnici, ma di profeti»).

Affrontiamo il primo tema. Abbiamo inizialmente accennato alla seduzione che l’enorme sviluppo che le neuroscienze cognitive hanno conosciuto sopratutto negli ultimi cinquant’anni ha suscitato presso gli specialisti di scienze umane. Dei due «volani» di tale sviluppo – neuroscienze e intelligenza artificiale – il primo, le scienze della mente o scienze del sistema nervoso, ha conosciuto due fasi ben distinte. Nella prima fase, tra la fine dell’ottocento e la prima metà del novecento, la scoperta del microscopio e la colorazione tramite il sale cromato d’argento permette di rivelare le strutture complesse del singolo neurone e di sviluppare l’ipotesi( da parte di Golgi e Ramon y Cajal) che il neurone sia l’unità costitutiva, funzionale, del cervello. Parallelamente il lavoro con pazienti cerebrolesi da parte di Paul Broca suggerisce che alcuni regioni del cervello siano responsabili di determinate funzioni , e più specificatamente che il linguaggio sia localizzato e che certe funzioni psicologiche(intellezione o apprendimento, memoria, affetti e passioni) siano localizzate in aree specifiche della corteccia cerebrale. Anche le osservazioni su pazienti epilettici condotte da Jackson servono a dedurre l’organizzazione della corteccia motoria. La mappa cerebrale citorchittetonica di Broadmann, studiando la struttura della singola cellula, conferma questa localizzazione di compiti specifici in aree determinate della corteccia.

Questa neuroscienza «pioneristica» si presenta come una sorta di «fisiologia topologica » delle funzioni psicologiche localizzate nelle diverse aree della corteccia cerebrale, ancora priva di specifiche cognizioni del funzionamento della singola cellula neuronale e della sua «selva di relazioni» con le altre cellule. La topologia «oggettiva » della mente priva della sua soggettività ha il suo pendant nella psicologia empirica della prima metà del novecento, la psicologia behaviorista ( da behavior, «comportamento»), e la sua traduzione in medicina, in prassi terapeutica delle malattie mentali, nella coeva psichiatria moderna.

Il behaviorismo o «comportamentismo» è una psicologia empirica oggettiva, senza soggetto psicologico, basata sì sulla constatazione del comportamento ( behavior ) di individui o soggetti umani sottoposti a sperimentazione, così come la fisica lo fa sul comportamento di altri corpi, ma in realtà «depurata» dal suo rapporto immediato con le percezioni, con l’auto-osservazione , avendo invece unicamente come sua materia oggettiva dei dati di fatto confermati da più osservatori obbiettivi, cioè formulati in giudizi «protocollati» o certificati (le cosiddette «proposizioni protocollari») .

La psicologia comportamentista vuole elaborare un’antropologia che si rifà esclusivamente a teorie e metodi empiristici delle scienze inorganiche della natura. In essa la soggettività sparisce dietro la catalogazione delle differenze dei comportamenti individuali quale serie di fatti riconducibile a una regola generale di ricerca determinabile in modo preciso. Nel behaviorismo se i processi storici sembrano distinguersi dai processi fisici perché in essi assumono importanza gli atti della volontà umana, però la stessa volontà risponderebbe a principi di regolarità che vigono in natura.

Il bambino osserva che può fare determinati movimenti se prima pensa ad essi, non vi sarebbe alcuna differenza tra la motivazione ( finalità, aspirazione , idealità, etc.) e la causa di un determinato movimento. Motivazione , causa e «stimolo», sarebbero un ‘unica cosa, quali condizioni seguite regolarmente da un determinato comportamento o «risposta». Ad A segue B, un modello di conformità a una legge obiettiva. La connessione immediata e meccanica tra pensiero e azione ( tra stimolo e risposta) può essere sospesa o interrotta solo se interferiscono le conseguenze di altri pensieri o circostanze. Dunque ogni atto di volontà andrebbe inteso come esito delle diverse regolarità del comportamento umano in gioco nella situazione data.

Che un comportamento, reso probabile da una ripetizione della sua osservazione in presenza di determinati stimoli, diventi certo e necessario dovrebbe essere in potere dei soggetti, ma questo non è contemplato nelle categorie fondanti il behaviorismo ( dottrina del comportamento obbligato o necessitato). Ogni azione o comportamento sarebbe solo un accadimento o stato di fatto oggettivo deducibile da regole generali,e come tale osservabile passivamente. Nella prospettiva behaviorista solo cancellando a priori il costrutto teorico di mente (psiche), di soggetto psichico, si può a giungere a una psicologia scientifica del comportamento umano.

Una neurologia «topologica» e una psicologia empirica comportamentista non potevano non indirizzare la cura delle malattie mentali, la psichiatria allora povera di soluzioni farmacologiche, verso la sperimentazione di determinate tecniche di stimolazione di specifiche risposte o comportamenti nei pazienti affetti da disturbi mentali gravi o cronici ipoteticamente localizzati in diverse aree del cervello. Tra le più le celebri tecniche impiegate erano annoverate le molto discusse e per molto aspetti inquietanti «terapia elettroconvulsivante»( più nota con il termine di elettroshock) e l’ancora più raccapricciante «lobotomia» ( consistente nel recidere le connessioni della corteccia frontale dell’ encefalo ).

Il complesso di neurologia topologica, di psicologia behaviorista e di psichiatria sperimentale della prima metà del novecento, trova il suo comune paradigma di pensiero nel cosiddetto «fisicalismo». Si tratta di quella filosofia della scienza denominata «empirismo logico» – sussumente in sé le scuole di filosofia analitica e del neopositivismo logico – che assume a modello la fisica matematica. Effettivamente nel linguaggio della fisica matematica si ha sempre già a che a fare con giudizi formati di osservatori e non immediatamente con le percezioni. Il criterio dell’esperienza sensibile o dei dati di fatto oggettivi, che pure secondo l’empirismo logico dovrebbe costituire il principio ultimo da cui deriverebbe tutta la conoscenza degli oggetti, è nella fisica matematica ogni volta il giudizio finito (determinato e protocollato) sulla sensazione. Dice Rudolf Carnap, «sacerdote» viennese dell’empirismo logico: «compito esclusivo della scienza sarebbe la costruzione di un sistema dal quale si possono dedurre dei principi chiaramente confermati da giudizi di osservatori , da “proposizioni protocollari”».

In questo contesto un concetto descrittivo è legittimo quando le definizioni o i nuovi principi che esso introduce sono riconducibili a concetti base che compiano in proposizioni protocollari, ossia in giudizi condivisi e confermati tra più osservatori. Per quanto riguarda i dati, la scienza e di conseguenza la filosofia scientifica hanno a che fare sempre e solo con proposizioni che parlano dei dati. Il mondo dello scienziato è unicamente quello fissato nel linguaggio, quello che è adeguatamente messo a protocollo. Per l’empirismo ciò nonostante la legittimazione mediante la percezione è tutto ( tutto deve essere riducibile a dato o fatto oggettivo).

Certamente nella fisica teorica il dato , inteso come percezione isolata, svolge un ruolo subordinato rispetto ai complicati processi di formulazione e riformulazione teorica, su modelli logico-matematici. Ma la stessa concezione fisica dell’empiria, con gli sviluppi della fisica contemporanea, la fisica quantistica e della teoria della relatività, modifica e ristruttura l’universo dell’esperienza della vita quotidiana. Ma l’empirismo logico non sembra darsene per inteso, se il suo modello risulta essere altamente astratto tanto dal lato del suo concetto di empiria che dal lato del suo concetto di logica.

L’esperienza come viene concepita dagli empiristi logici deve avere come sua premessa una conoscenza esatta delle «abitudini della lingua parlata» ( del linguaggio del senso comune), così che , a suo avviso, il linguaggio vivente, dell’«esperienza viva e autentica», possa trovare la sua fedele traduzione in un qualsiasi linguaggio inventato dalle discipline specialistiche, ad es. nel linguaggio fisico, senza perdere nulla. Questa «fisica del linguaggio» non corrisponde all’empiria della fisica update del tempo ma è semplicemente un’astrazione dell’esperienza di senso comune, percezioni atomistiche che ben si adattano al modello dei giudizi o proposizioni protocollari. I contenuti o descrizioni fenomeniche di questi giudizi di senso comune si presentano «aproblematici» ossia tali che sulla loro condivisione da parte di N osservatori non vi può essere alcun dubbio: «Tommy ha il raffreddore», «L’artropode è un animale dal corpo articolato», «Humboldt andò in America».

La banalità o evidenza indiscutibile di tali contenuti deve costituire la base strutturale comune su cui poter poi costruire un modello di pensiero formale, logico-matematico, altrettanto astratto. É l’empiria che viene astratta tanto dall’esistenza individuale (dall’auto percezione, dal vissuto personale, dall’introspezione, etc.), l’esperienza «intraindividuale», che dalle relazioni sociali, «interindividuali» (l’esperienza oggettivamente mediata), per poi elevare determinati momenti atomistici di tali contesti ( i «giudizi protocollari» appunto) a modello della conoscenza. Solo tali modelli di esperienze aproblematiche, tali da essere in linea di principio ripetibili in ogni istante da chiunque e sulle cui qualità e strutture non vi sono possibili discussioni, permettono all’empirista logico di assegnare alle singole espressioni linguistiche un significato fisso, per cui il giudizio è considerato segno combinato di più segni, ed ogni segno parziale in esso è collegato con una cosa determinata o con una cosa indeterminata.

Con ogni giudizio si può dunque procedere come con qualsiasi cosa naturale, si possono lasciare dei vuoti o riempirli, sostituire o scambiare i segni. Nell’effettuare questo scambio di segni bisogna rispettare certe regole, se non si vuole distruggere il carattere del giudizio producendo una struttura logicamente insensata. Ma proprio utilizzando i concetti e i giudizi come semplicemente isolati, solide pietre di costruzione autonome, che si possono combinare, sostituire e rinnovare parzialmente, nella maggiore parte dei casi il modello empirista determina la distruzione del loro significato. Solo questo modello astratto o banalizzato dei fenomeni dell’esperienza quale è dato dalle proposizioni protocollari, che esclude da sè ogni altra fenomenicità, consente all’empirismo logico di staccare da questo contenuto astratto una forma del pensiero altrettanto astratta, di ridurre il soggetto pensante all’attività di ricondurre proposizioni protocollari ad enunciati più generali (ad assiomi o postulati) per poi dedurle nuovamente da questi principi generali.

Dal lato della forma del pensiero – della logica puramente formale – per l’empirismo logico l’unica sostanza soggettiva pensante ammissibile, cioè capace di un ragionamento sensato e produttivo, è solo quella che si occupa di sintassi logica del linguaggio e di calcolo delle probabilità. Per l’empirismo le uniche tendenze oggettivamente pronosticabili sono quelle relative al probabile comportamento di oggetti calcolabile sulla base di regolarità osservate. I comportamenti noti di tutti gli oggetti di un determinato campo scientifico sarebbero le tendenze parziali e l’evento probabile è la combinazione risultante a partire da esse. La soggettività, «i fattori soggettivi», tendono a sparire da questo modello di conoscenza, comprese le scienze in cui il soggetto umano dovrebbe essere fattore determinante – psicologia, sociologia, storiografia, antropologia, economia,etc.– trasformando l’osservazione delle differenze tra gli stessi individui come una serie o successione di fatti; tale serie sarebbe una regola generale di ricerca determinabile in modo preciso.

Nel modello della logica formalizzata il pensiero si riduce alle funzioni di pura registrazione di dati di fatto «protocollati» e, su questa base «contenutistica», di calcolo combinatorio e probabilistico sugli eventi futuri. Nel modello protocollare il concetto di forma generale viene ridotto a conoscenze particolari accumulate per scopi determinati, a un pensiero che si muove rigorosamente nel campo di sistemi di classificazione di volta in volta riconosciuti e che studia unicamente le relazioni tra concetti fissi.

La nuova logica matematizzata dichiara di non cogliere nulla e di essere assolutamente priva di contenuti. Le sue proposizioni non si propongono affatto di rivelare la verità essenziale delle cose che era invece lo scopo dichiarato della logica metafisica del razionalismo e dell’idealismo antichi e moderni. La logica tradizionale (platonico-aristotelica, e poi kantiana-hegeliana) si poneva consapevolmente il compito di cogliere i principi o le qualità più universali dell’essere, i principi metafisici( per quanto illusori o trasfigurati questi possano sembrare al nostro sguardo contemporaneo).

Se la metafisica presenta falsamente l’armonia e l’esistenza sensata come la realtà «essenziale» esistente effettivamente ( una realtà trascendentale o contemplativa essenziale, un «puro pensiero di pensiero») in contrapposizione alle contraddizioni della realtà che appare, della realtà dei fenomeni, questa falsificazione non è di per sé puramente negativa nè irrilevante. Perché essa, sia pure in forma trasfigurata e sublimata, pone come reale quell’ideale di felicità e libertà, nella vita teoretica tanto quanto in quella pratica, che è insito nella natura umana, che è il paradigma dell’umanesimo.

La logica formalizzata, da parte sua invece, trasforma la matematica in una parte della logica allo scopo di «purificarsi» , e insieme le due discipline costituiscono unicamente un sistema altamente differenziato di proposizioni relative a concetti, giudizi, deduzioni e argomenti impiegati nella scienza e in ultima istanza anche nel linguaggio della vita quotidiana( con la mediazione delle proposizioni protocollari). Per Bertrand Russel compito della logica è l’analisi di questi elementi logici e lo sviluppo di un sistema di fondazione per le diverse forme di giudizio. È una logica puramente formale in quanto gli elementi linguistici sono esaminati in maniera totalmente astratta dal loro rapporto con la realtà, e cioè dalla verità o falsità dell’idea con cui essi sono associati.

La forma , secondo Russel, non sarebbe uno degli elementi, ma il modo in cui essi vengono combinati. Di conseguenza la logica sarebbe la possibilità , mediante l’analisi degli elementi formali della scienza , di scoprire oscurità concettuali, antitesi apparenti, contraddizioni, di proporre alternative trascurate, di sostituire strutture teoriche complesse con altre più semplici e chiare. Per tutti gli elementi formali come per le singole operazioni la logica impiega segni modellati sui simboli matematici e nel processo deduttivo essa procede come in un calcolo con le proposizioni simbolicamente fissate, il che rende più difficile i fraintendimenti e accresce la chiarezza dell’insieme.

La logica formalizzata non si propone in nessun modo di aumentare la conoscenza concreta delle singole scienze al loro stato attuale, ma semplicemente di aiutarle nelle formulazioni dei risultati e nella reciproca intesa, ossia di razionalizzarne l’attività ( una sorta di pratica «burocratico-amministrativa»). Tale configurazione autonoma del pensiero rispetto all’esistente, è assai modesta, una filosofia che non si propone più alcuna ricerca filosofica o veritativa. Il pensiero come calcolo, modello della logica formale, presenta una capacità di riflessione inadeguata sul senso della sua attività teorica. Si tratta di una teoria chiusa su sé stessa , che si astrae dal corso esteriore del mondo storico e perviene sempre solo a una armonia fittizia chiusa al mondo. E’ il modello dell’ intelletto calcolante in base alle possibilità date che viene confuso con la ragione «pura» e semplice; tale modello ipostatizza l’individuo monadologicamente chiuso nei confronti degli altri ( è il cosiddetto «individualismo metodologico»).

L’empirismo logico, ipostatizzando a paradigma assoluto la scienza specialistica, si propone di trovare dietro le scienze naturali una scienza carica di rappresentazioni viventi e mossa dalla forte tensione a trovare risposte ai problemi dello spirito che cerca la conoscenza. E’ il tentativo di realizzare l’unità e l’armonia tra le contraddizioni della coscienza moderna attraverso l’ interpretazione della scienza specialistica in chiave romantica , «metafisica», vedendo nelle dottrine delle scienze naturali la prova che «l’uomo cresce con la conoscenza e porta in sé la possibilità di forme di pensiero che a un livello precedente non era ancora in grado di presagire». Così facendo la filosofia della scienza o scientismo diventa ingenuamente metafisica quando si confonde con la conoscenza e la teoria generali, screditando il nome stesso di filosofia , e cioè di ogni istanza critica nei suoi confronti. Questo paradigma di pensiero ignora la realtà del mondo storico dato, che non è semplicemente costituito di dati oggettivi atomistici, meramente individuali e monadologici, chiusi in sé stessi, isolati e irrelati tra di loro, dati autoevidenti o «protocollati», un materiale contenutistico facilmente trattabile e manipolabile dal formalismo logico-matematico. Nel mondo storico abbiamo a che fare con dati o fenomeni sociali, economico-politici, psicologici, antropologici e culturali , costituiti essenzialmente da processi, da mediazioni, da relazioni.

Nel mondo storico i singoli fenomeni definibili o oggettivabili secondo le categorie, i principi e le leggi costitutìve delle scienze umane, per cui si possono «individuare» sotto specie di fenomeni riconducibili ai differenti campi disciplinari, sono anche «interpretabili» quali manifestazioni singole in cui si esprimono le leggi della totalità sociale, fenomeni sociali «fisiognomici» , che portano inscritti in sé quali «segni» o «sintomi » ( a seconda se li si considera semplicemente quali segnali rimandanti alla rete strutturale a cui sono annodati, o invece manifestazioni di una condizione profonda patologica) la «fisiognomica» o il sistema di leggi che governa la totalità del mondo storico. Tale sistema è a un tempo «strutturale» ( economico-sociale ) e sovrastrutturale ( politico-giuridico, psicologico, culturale), in cui la distinzione netta tra i due livelli in base all’importanza del loro ruolo si è ormai dissolta, e in cui è avvenuta la loro reciproca compenetrazione, come traspare nel pensiero più maturo di Karl Marx.

I dati oggettivamente riscontrabili nel mondo storico sono anche considerabili fenomeni «allegorici» ossia tali che in essi si stratifica temporalmente il depositato del processo storico, in cui si mostra in modo immediato e trasparente ciò che è il frutto di un complessivo processo di mediazione, rispetto a cui i singoli dati appaiono quali maschere allegoriche, sue pietrificazioni o reificazioni. Tale totalità del mondo umano è a un tempo teorica e pratica, soggettiva e oggettiva, per il semplice motivo che un concetto di società adeguato è solo quello che coglie la sua natura non solo dinamica o processuale ma anche e sopratutto funzionale : la società è la dipendenza di tutti i suoi singoli membri dalla totalità che essi stessi formano.

Per questo motivo la relazione soggettiva-oggettiva mediatrice di ogni oggettivo dato sociale presenta una sua peculiarità. In questa totalità sociale che potremmo definire la società post-borghese o «globalizzata», la relazione di esperienza soggettiva-oggettiva è a un tempo comprensibile, ossia in essa il soggetto conoscente può identificarsi con l’oggetto conosciuto, e al contrario «incomprensibile», cioè motivata con forte oggettività, e quindi estranea , cosale, rispetto al soggetto . Tutto ciò che è umano dovrebbe essere riconducibile ad una comune natura umana, a un soggetto costitutivo, pur nel suo esternarsi oggettivo; è ciò che sostenevano nelle loro teorie sociali sia Max Weber che Wilehm Dilthey. Per Emile Durkheim invece l’individuo incontra primariamente la realtà sociale come un oggetto estraneo, con cui non può identificarsi, come «costrizione», per cui i fatti sociali devono essere trattati come cose, bisogna rinunciare per principio a comprenderli, a conoscerli da loro interno, dalla loro causa.

In Durkheim la riflessione sulla società comincia là dove finisce la sua comprensibilità. Come osserva Theodor Adorno, nel sociologo francese la sua difesa del metodo «naturalistico» registra la «seconda natura» hegeliana in cui la società si è coagulata di fronte ai soggetti viventi. Ma Adorno osserva anche che la non comprensibilità durkheimeriana della società rimane altrettanto particolare della sua antitesi, la comprensibilità weberiana. Invece bisognerebbe comprendere quella non comprensibilità e mostrare come quei rapporti che sono diventati indipendenti dagli uomini e per loro impenetrabili derivino da rapporti umani. Per Adorno , e per noi con lui, oggi il dovere della sociologia così come di qualsiasi altra scienza umana, o di una filosofia umanistica, sarebbe «quello di comprendere l’incomprensibile, ossia l’ingresso dell’umanità nell’inumanità».

Gli stessi concetti sociologici di comprensibilità da una parte, e estranea oggettività naturale ( incomprensibilità) dall’altra sono frammenti di una teoria filosofica dimenticata o rimossa. Il concetto weberiano di comprensione, secolarizza lo spirito hegeliano, il tutto che si tratta di pensare e di comprendere , traducendolo in atti singoli o «tipi ideali», senza considerare la totalità della società, da cui soltanto i fenomeni da comprendere ricevono il loro senso. Dall’altra parte «l’adesione all’incomprensibile», che non è altro che la traduzione del fisicalismo in sociologia, traduce il persistente antagonismo sociale in problemi di carattere fattuale. L’astensione ascetica dalla teoria si limita ad accettare la realtà non conciliata, ed infine l’accettato viene esaltato, ossia viene esaltata la società come meccanismo collettivo di costrizione. Con non minore fatalità anche le categorie che dominano nella sociologia contemporanea sono frammenti di connessioni teoriche che esse positivisticamente rinnegano.

Per questo i singoli dati oggettivi, i fatti, vanno colti di volta in volta nello specifico contesto teorico (di specifica disciplina scientifica con il suo statuto epistemologico) e questo a sua volta va riportato a una teoria sociale o storica globale , a una filosofia della storia, la sola in grado di riannodare le membra disiecta, i frammenti di teoria filosofica sparsi tra le diverse teorie sociali, economiche, politiche e storiche, di ridare fiato a un modello laico e razionalista di umanesimo, di ridare una prospettiva di un progetto collettivo futuro al processo storico.

Il modello di un umanesimo laico e razionalista dovrebbe dunque essere quello di un soggetto o di una spontaneità superiore, un soggetto non coatto che non può coincidere con quel soggetto che si ritiene, sic stantibus, autonomo e padrone di sé, ma quello in grado di costituirsi come soggetto comunitario( ossia una soggettività ricettiva e intersoggettiva o sociale) e questo l’individuo singolo non è in grado di decretarlo; non può nemmeno, d’altra parte, esserne modello l’intelletto calcolante in base alle possibilità date, che presenta il paradigma fisicalista.

Rispetto al paradigma «fisicalista», il «cognitivismo» determina un notevole salto di qualità. Esso si appoggia al rivoluzionario sviluppo della biologia molecolare e della genetica e alla nascita della scienza dell’ intelligenza artificiale, nella seconda metà del novecento. La «trinità» di topologia fisiologica del sistema nervoso, di psicologia comportamentista e di psichiatria sperimentale del precedente paradigma viene minata nelle sue fondamenta dal nuovo paradigma sotto più punti di vista, a iniziare dall’indagine che porta nelle neuroscienze a studiare la trasmissione elettrochimica tra i singoli neuroni ( «neurotrasmissione») nei loro interstizi chiamati «sinapsi». I neuroscienziati hanno potuto usufruire degli enormi progressi della biologia molecolare, dell’elettrofisiologia, della progressiva «mappatura» del Dna interno alla singola cellula o «gene» umano ( il Genoma ) da parte della genetica, per giungere a studiare ulteriormente il sistema nervoso in tutti i suoi aspetti: nella sua struttura, nel suo funzionamento, nel suo sviluppo, nel suo cattivo funzionamento.

Si è determinato che i singoli neuroni sono cellule specializzate nella comunicazione con altri neuroni e altri tipi di cellule tramite le sinapsi; si costituisce così un «circuito» di segnali elettrochimici o elettrici tra le differenti cellule. Altri strumenti di trasmissione elettrica utilizzati dai singoli neuroni per comunicare con parti distanti del corpo dell’individuo (diremmo, nei mammiferi e organismi vertebrati in genere, dal «sistema nervoso centrale» a quello «periferico») sono gli «assoni», i lunghi filamenti di protoplasma che influenzano l’attività di altri neuroni, muscoli, o ghiandole nei loro punti terminali. Il sistema nervoso più complesso risulta essere quello centrale localizzato nel cervello, contenente100 miliardi di neuroni , 100.000 miliardi di sinapsi, con migliaia di sottostrutture collegate in reti sinaptiche.

La maggioranza dei circa 25.000 «geni» ( principi originari) appartenenti al genoma umano ( la mappatura del dna presente in ogni singola cellula) sono prodotti nel cervello. Il sistema nervoso centrale a sua volta presenta più livelli di complessità, a cominciare dal livello molecolare e cellulare, per giungere ai superiori livelli sistemici in cui i circuiti neurali producono funzioni quali i riflessi, l’integrazione dei sensi, la coordinazione motoria, i ritmi circadiani, le risposte emotive( passioni e affetti) , l’apprendimento ( intellezione) e la memoria, ossia i livelli propriamente cognitivi.

Ed è qui che le neuroscienze s’incontrano con la scienza dell’intelligenza artificiale , così come con la psicolinguistica e linguistica contemporanee, formando il nucleo delle scienze cognitive (o dei processi di apprendimento e conoscenza). L’intelligenza artificiale , come è noto, ha avuto come base di partenza il celebre esperimento di Turing che tendeva a dimostrare che «in condizioni di laboratorio» le prestazioni cognitive di un computer e quello di un essere umano erano pressoché identiche, da cui derivava l’identità tra intelligenza umana e intelligenza artificiale. Base comune a intelligenza artificiale, psicologia cognitiva e linguistica , è stata la considerazione del processo di conoscenza e apprendimento dell’uomo, della mente umana in genere, quale sistema di elaborazione d’informazioni. Su questa base le scienze cognitive si sono impegnate a sviluppare modelli di elaborazione dell’informazione controllabili tramite esperimento.

La sperimentazione si costruisce ponendo dei soggetti umani nelle condizioni di dovere svolgere determinati compiti di apprendimento e di conoscenza, vincolando a queste condizioni la costruzione dei modelli cognitivi e dei programmi di intelligenza artificiale. Ne sono derivati dei modelli computazionali realistici capaci di rappresentare la peculiarità o specificità dei processi di cognizione umana che non sempre sono riconducibili alle regole della teoria logica. Il ragionamento umano nella vita quotidiana si dimostra assai più flessibile e insieme più complesso di quello che suppone la logica formale o matematizzata (ossia non è sempre riconducibile a proposizioni protocollari).

Risoluzioni di problemi, attività di rappresentazioni mentali di base per l’apprendimento e i procedimenti deduttivi o inferenze, costituiscono le simulazioni principali di tali modelli computazionali. In questo campo i programmi di simulazione della risoluzione dei problemi di vita quotidiana di Newell e Simon si sono dimostrati limitati nella loro portata a problemi strutturati di criptoaritmetica, logica e scacchi, cioè vincolati a ben definite regole, soluzioni e ambiti di applicazione. Una maggiore aderenza ai più comuni processi di cognizione umana hanno dimostrato altri modelli e teorie computazionali, tra cui in particolare le «reti semantiche» ( sistemi di rappresentazione delle interconnessioni dei concetti e dei significati) di Quillian, la «teoria dei prototipi di Rosch» e sopratutto la «teoria dei frames» di M.L. Minsky ( recentemente scomparso).

I frames ( «schemi» o « scenari») sono strutture-dati presenti nella memoria, un insieme di conoscenze implicite con cui vengono rappresentate situazioni o eventi stereotipi( una tipica riunione di lavoro o una festa tipo, un ambiente di abitazione, etc.). Ciascun frame costituisce un insieme di aspettative e presupposizioni (attivate da opportune esperienze percettive come la visione di un ambiente, la lettura di un testo, la narrazione di una serie di eventi) che possono essere soddisfatte o deluse: il veloce recupero dalla memoria a lungo termine dei frames pertinenti, la capacità di attivare più frames e subframes per comprendere situazioni particolarmente complesse, di trovare plausibili giustificazioni per le situazioni non corrispondenti alle aspettative dei frames attivati o di integrare, modificare o sostituire quelli che non si adattano alle situazioni esperite, costituiscono in larga misura caratteristiche tipiche dell’intelligenza e della comprensione umane, di cui si deve tener conto nella realizzazione di programmi che intendano adeguatamente simularle.

Ulteriore sviluppo della teoria dei frames è la teoria dello script; lo script ha lo scopo di rappresentare sotto forma di algoritmo, in modo da fornire istruzioni pertinenti a un calcolatore, l’insieme delle conoscenze implicite e delle aspettative che si suppone permettano a un essere umano di comprendere, attraverso adeguate deduzioni, sequenze di eventi che sono ricostruibili da narrazioni coerenti (per es., andare al ristorante, chiamare il cameriere, ordinare ecc.).

In una visione d’insieme, quali sono le potenzialità delle neuroscienze e dell’intelligenza artificiale, «volani» del paradigma cognitivista? E quali i loro limiti? C’ è il rischio di una mitologia del «cognitivismo»?

La neuroscienza mostra indiscutibili e straordinari progressi nel campo di applicazioni della medicina, dalle possibilità di trovare terapie efficaci tramite sperimentazioni e produzioni farmacologiche per combattere a livello bio-molecolare malattie degenerative del cervello quali ad esempio l’alzheimer, l’autismo o le forme di epilessia, al contrasto psico-farmacologico alle forme più gravi di malattie mentali, alle psicosi, in psichiatria. La stessa psichiatria contemporanea incontra però il suo limite fondamentale, e anche forti e accese polemiche, là dove pretenda di legittimare in maniera indiscutibile tanto la sua ricognizione e determinazione biologico-fisiologiche delle sindromi psicotiche, quanto la somministrazione massiccia e generalizzata, mediante procedure protocollari, delle differenti classi di psicofarmaci a soggetti che manifestano sintomi di disagio psichico tra i più vari, dalla psicosi alle nevrosi, a semplici stati depressivi o di esaurimento nervoso.

Le stesse ricerche neurologiche sulla struttura neurale del cervello incontrano i loro limiti «interni» nella constatazione che il modo in cui l’insieme delle sterminati reti neurali del cervello produca conoscenze e comportamenti complessi sfugge ancora quasi completamente alla comprensione scientifica. E qui si affaccia immediatamente anche il limite «esterno » alle neuroscienze: i processi di pensiero di cui noi attribuiamo la titolarità al soggetto sono in massima parte da attribuire al rapporto con l’ambiente, alle relazioni interindividuali, al vissuto personale e alle acquisizioni socioculturali, un complesso di processi non predeterminabile dalle strutture di base del cervello, dalla «cantina » della mente per così dire: una «natura» totalmente «sovrastrutturale».

Analogo discorso può essere svolto per l’intelligenza artificiale. Sono ormai innumerevoli i campi di applicazione dei modelli computazionali che si mostrano, rispetto alla mente umana, macchine assai più efficienti nel fornire ed elaborare dati e informazioni, sia per esaustività che per celerità, nonché nel costituire «centraline di comando» per vari sistemi di automazione: negli ultimi venticinque anni un autentico «universo parallelo», virtuale e cibernetico, è stato generato. Eppure, ciò nonostante, i frames ( «schemi») e gli script («algoritmi») cibernetici, nel loro intento di creare un modello artificiale della mente , non sono in grado di replicare in modo formalizzato e algoritmico il costitutivo radicamento dell’esperienza del soggetto nella sua corporeità così come in contesti culturali che sono alla base di pratiche, conoscenze implicite, attività cognitive e di comprensione, quel complesso che Husserl chiamava «il mondo della vita».

Il cognitivismo, nel suo allestire epistemologicamente i campi delle sue discipline, mediante statuti teorici, strumenti tecnologici e procedure e verifiche sperimentali, per ciò stesso determina e delimita necessariamente il proprio oggetto di ricerca ( il sistema neurale o l’intelligenza artificiale) escludendo da esso ogni altro campo, tanto quello del mondo della vita interiore del soggetto che il suo mondo storico, sociale.

Ritenere che le scienze cognitive superino le loro stesse condizioni di esistenza e convergano verso un nuovo modello di natura umana, un nuovo «umanesimo», non fa altro che riprodurre quella «metafisica della scienza», quel «romanticismo » della scienza stessa già presente nel paradigma fisicalista. Le riserve e le obiezioni a compiere il salto per congiungere il modello «elezionista» alle neuroscienze cognitive, manifestate dallo stesso Politi, dovrebbero dunque essere pienamente accolte e portate da una posizione secondaria al centro del tema della costituzione di un nuovo paradigma di umanesimo.

Un umanesimo nuovo ( e vecchio , si potrebbe dire) si dà solo là dove la soggettività può rivendicare giustamente i suoi ideali di spontaneità, autonomia, libertà e felicità , ma una soggettività «emendata» del suo narcisismo solipsistico ed egocentrico e mediata dall’orizzonte di un soggetto collettivo o comunitario, di una teoria sociale globale, una soggettività dunque resa dialettica dalla mediazione della realtà oggettiva, dalla sua capacità ricettive di quest’ultima, capace di trasformarsi da mero ente autoconservativo o mera cosa in processualità.

A questo scopo è necessario rimettere in gioco il «meglio» della tradizione idealistica e del materialismo storico, quella filosofia dialettica che ha avuto in Hegel e Marx i suoi «padri fondatori» e che ha conosciuto un fecondo sviluppo per almeno due terzi del novecento nell’«hegelo-marxismo occidentale» , prima di essere eclissata dall’avvento del pensiero unico postmoderno.

In una parola solo una filosofia della storia di tal fatta è grado di correggere la chiusura specialistica, senza prospettiva complessiva dell’orizzonte storico, che caratterizza non solo le scienze naturali ma anche le scienze storiche, come lamenta Giorgio Politi. Solo la capacità di far diventare «riflessive » le scienze umane le emenda dal loro inevitabile ma anche necessario statuto positivista, ma questo non può darsi con la ricaduta dell’umanesimo sull’oggettività naturalistica, ma soltanto riportandosi a una filosofia dialettica della storia.

Per questo motivo, a mio avviso, il campo di ricerche storiografiche che il paradigma elezionista proposto da Politi guida, è un esempio, tra altri, di tale possibilità riflessiva delle scienze; esso rientra in un modo importante in un «campo intellettuale» di reazione all’annichilimento di ogni prospettiva e orizzonte di futuro , tanto individuale che collettivo, di elaborazione di un destino collettivo alternativo.

Questo nichilismo avviene in nome dell’affermazione di un eterno presente del processo della globalizzazione, ossia dell’instaurazione non delle «magnifiche e progressive sorti della civilizzazione occidentale del pianeta» ma dell’imposizione planetaria, a volte subdola e insinuante, a volte brutale e feroce, a seconda delle circostanze e delle necessità, dell’economia di mercato capitalistica giunta al suo stadio estremo e difficilmente oltrepassabile di «capitalismo speculativo finanziario» che non persegue più semplicemente la regola del profitto o plusvalore, ma attua in modo patente la sua forma patologica e radicalizzata : la legge di estrazione del plusvalore dal denaro stesso, in cui diventa secondario e a volte persino irrilevante la produzione di beni-merci e il soddisfacimento di servizi e bisogni.

Questa che è stata spacciata come l’epoca della fine della storia, della fine delle ideologie, della società classista e del conseguente conflitto capitale -lavoro, in realtà in filigrana si rivela essere la società , orma estesa a livello planetario, della «naturalizzazione» dell’unica ideologia totalitaria rimasta sul campo, la forma merce e la sua relazione di scambio,il suo carattere e il suo valore di strumentalizzazione di tutti i processi e le relazioni tanto materiali che spirituali, tanto dei processi economici, politici e sociali che dei modelli culturali ( il «denaro dello spirito»). Di naturalizzazione della forma merce si deve parlare perché cifra specifica di tale pervasiva ideologia è proprio quella di presentarsi come una legge di natura, come una realtà che ha annullato ogni possibile dinamica storica, la quale porta inscritta in sé, come sua peculiarità, la trasformazione e il mutamento: un ‘ideologia che invita dunque a rassegnarsi all’esistente, bello o brutto che sia, a fatalizzare la realtà come fosse un dato di natura.

Ai miei occhi è dunque benvenuta ogni articolata proposta che si rifiuti a tale «religione del mercato e del globale» , che si faccia propugnatrice di una realtà alternativa. Che questo avvenga nel ruolo dell’analista, dello studioso ( storico, filosofo, economista, sociologo, psicanalista. etc) o nel ruolo di uomo della prassi. Il teorico ha, da parte sua , innanzitutto il compito di «dire la verità», di demistificare la rappresentazione che tanto il circuito mediatico dei giornalisti che quella parte della classe intellettuale arruolata dai poteri dominanti tende a diffondere come l’unica interpretazione possibile della realtà; si tratta di riaffermare un etica del pensiero e della ricerca della verità possibile che non si propone di raggiungere una neutralità impossibile a darsi, ma di cercare nella sua analisi il massimo di obbiettività.

In questo senso si possono interpretare le parole conclusive della riflessione di Politi per cui oggi « non si ha forse bisogno di tecnici ma di profeti» . In un senso laico e razionalistico con cui credo che lo storico converrebbe, i «profeti» di cui abbiamo bisogno sono appunto tutti coloro, uomini di teoria o di prassi responsabile, che squarciano il velo dell’unica potentissima ideologia oggi imperante: il monoteismo della mercificazione di ogni aspetto materiale e simbolico della realtà, che si presenta come realtà ovvia, naturale e dunque immodificabile ed eterna. Lo scopo che si contrappone a tale realtà inumana deve essere quello di prospettare un modello di umanità o di natura umana, un umanesimo possibile per il ventunesimo secolo: con le parole del filosofo Ernst Bloch, l’affermazione dello «spirito di un ‘utopia concreta».

Da questa prospettiva la ricerca intellettuale – il Manifesto di una nuova epistemologia storica ( titolo di uno dei suoi saggi), la riflessione sul paradigma elezionista– che Giorgio Politi porta avanti, è annoverabile nell’opera intellettuale di coloro che si propongono un doppio compito: l’onesta messa a nudo dell’inumano che detta legge nel mondo umano e la possibile alternativa «umanistica» a tale realtà, il rifiutarsi alla rassegnazione fatalistica o addirittura all’ assunzione cinica e positiva di essa , come accade, aihmè, per una nutrita schiera della classe intellettuale .

Tra i «non rassegnati» si potrebbero affiancare per la loro opera a Politi il compianto sociologo dell’economia Luciano Gallino, che nel denudare l’inumano totalitario imperio dell’attuale capitalismo finanziario, prospetta anche possibili soluzioni e realtà alternative ad esso. O ancora lo psicanalista lacaniano Massimo Recalcati che nel far emergere , nelle dinamiche profonde dell’ inconscio dell’individuo, il «reale» soggettivo lacaniano , la pulsione della jouissance ( il godimento acefalo, privo di ogni scopo determinato e di ogni limite o misura) quale combinazione perversa tra le pulsioni della libido e l’imperativo «categorico» del Super Io freudiano,ricostruisce analiticamente la fisiononomia di tale reale inumano profondo del soggetto (già designato dal secondo» Freud quale l’immortale «pulsione di morte » ).

Recalcati tratta l’inumano della jouissance non per rassegnarsi fatalisticamente ad esso ma per ribadire, quale cifra fondamentale dell’inconscio indagato da Lacan e del suo insegnamento, che «l’unico peccato mortale che il soggetto può compiere verso sé stesso è quello di rinunciare al proprio desiderio», là dove, per desiderio costitutivo, «vero soggetto dell’inconscio», Lacan e Recalcati con lui intendono non appunto il godimento acefalo di oggetti – cose e persone– ma la propria passione fondamentale, la «propria vocazione» esistenziale, come tale capace di fuggire l’abbraccio mortale della jouissance.

Nel panorama culturale italiano, tra i «profeti » nell’accezione laica e razionale di intellettuali «non rassegnati» proposta da Politi, vi è sicuramente da annoverare il filosofo Diego Fusaro, che nel rilanciare il paradigma della filosofia dialettica hegelo-marxiana, la possibilità di coniugare una teoria critica del presente con una prassi sociale e politica trasformativa verso una realtà altra, persegue anch’egli l’obbiettivo di un nuovo umanesimo. Se allarghiamo l’ orizzonte al di là dei confini nazionali, possiamo indubbiamente considerare quale esponente di spicco di tale koinè di intellettuali il filosofo sloveno Slavoj Zizek, in cui in una combinazione a un tempo mirabile e singolare si coniugano insieme il paradigma dell’analisi del profondo di Lacan rilanciata da Recalcati e la filosofia dialettica soggetto-oggetto, teoria -prassi di matrice hegelo-marxiana riaffermata coraggiosamente da Fusaro (in tal senso emblematico titolo di uno dei saggi del filosofo torinese è Ben tornato Marx).

Tutti costoro possono essere intesi quali « profeti laici» già solo per il semplice fatto che, non avallando la rappresentazione main stream della realtà che viene propagata per mille rivoli e canali, ma mettendone al contrario a nudo le sue stridenti ed enormi contraddizioni, nel mostrare ciò che di sbagliato, negativo e distruttivo in questa realtà avvallata è implicito, con questa opera critica già indicano ciò che di diverso e alternativo ci può essere, anche se i contorni di tale quadro di un futuro altro non hanno né possono avere tutta la definizione e la precisione che solo il «mettersi all’opera » potrà dare, nella considerazione di tutte le variabili che una prassi possibile dovrà affrontare.

A ben vedere nell’opera di ognuno degli autori citati è già presente il paradigma di un «nuovo umanesimo» , un nuovo paradigma che però ha una radice antica di circa due secoli. La comune matrice che abbraccia la riflessione di sociologia dell’economia di Gallino, la dinamica del soggetto desiderante in Recalcati, la proposta di una visione altra dalla teologia del mercato che presenta Fusaro o la coniugazione tra l’indagine psicanalitica lacaniana e il pensiero critico verso la dura logica del reale del capitale in Zizek , è individuabile nei seguenti termini: si tratta di quella matrice comune della filosofia hegelo -marxiana che contempla in sé a un tempo la trasmissione dell’eredità dell’idealismo oggettivo e critico di Hegel nel materialismo storico e dialettico di Marx e la loro tensione interna.

L’eredità filosofica di Hegel è assunta da Marx quale «lezione perenne della dialettica » che si trasmette nella propria opera , attraverso le sue varie fasi, rotture epistemologiche e discontinuità, dal giovane Marx all’autore maturo del Capitale. La tensione interna alle due filosofie è invece quella per cui «non si può seguire Hegel, farsene interpreti e continuatori , se non diventando critici del suo pensiero » come ci ricorda un suo magistrale interprete del novecento, Theodor Adorno. Ed è indubitabile che la ripresa e il rilancio dell’inconscio freudiano in Lacan , del suo soggetto desiderante, contro quello che egli considera il suo «tradimento» e «addomesticamento» nella diaspora delle scuole psiconalitiche post-freudiane, sia filtrata e mediata dalla riflessione che il filosofo russo Kojeve porta avanti nelle sue Lezioni sulla Fenomenologia dello Spirito di Hegel degli anni trenta del novecento, e in particolare sulla centrale figura dialettica della Fenomenologia, la dialettica Signore-Servo, interpretabile tanto come oggettiva , storica , «lotta per il reciproco riconoscimento delle identità», che come soggettiva, inconscia-conscia, conflittualità tra il desiderio e la sua elaborazione.

Di tutto questo tanto Recalcati che Zizek si dimostrano pienamente consapevoli. L’accentuazione del «Marx idealista» nel pensiero di Fusaro non fa altro che ribadire il cordone ombelicale che lega l’idealismo tedesco, e in particolare Hegel , a Marx . La matrice della filosofia dialettica hegelo-marxiana, infine, costituisce anche l’orizzonte di riferimento a partire dal quale il sociologo Gallino può articolare la sua analisi critica, a un tempo dettagliatissima e sistemica,dell’economia capitalistica nella sua fase storica attuale. É l’orizzonte della critica dell’economia politica di Marx , a partire dalla quale si può cogliere il senso e la direzione del processo in atto del capitalismo globalizzato , quale tendenza di medio-lungo periodo; ma è anche , a sua integrazione, la ripresa delle teorie economiche keynesiane quali prassi e procedure economico-politiche possibili e praticabili nella congiuntura data. Gli esempi citati sono la dimostrazione che il paradigma di umanesimo «vecchio/nuovo» della dialettica hegelo-marxiana non ha ancora affatto esaurito tutte la sue potenzialità,ma è in grado di mostrare nuovi fecondi sviluppi in un tempo in cui il volto dominante del neoliberismo mostra inquietanti crepe e sintomi di un male profondo.

Storiografia «metastorica», critica dell’economia politica e psicanalisi lacaniana erede del freudismo sono tre decisivi ambiti del sapere in cui articolare questa teoria di un umanesimo delimitato innanzitutto e contrario dalla precisa individuazione dell’inumano nel reale della psicologia del profondo , nella legge del reale del capitale e nelle dinamiche socio -politiche e culturali (tanto del sistema dei media che della formazione scolastica) legate ai primi due ambiti. Ma è solo una filosofia della storia dialettica che pone come suo vessillo il paradigma di una soggettività configurata secondo i lineamenti generali precedentemente tratteggiati, un nuovo umanesimo dunque del «soggetto di un ‘utopia concreta» (per dirla alla Bloch),che può fare da collante indispensabile a questa costellazione di saperi.

Abbiamo in precedenza cercato di tratteggiare i lineamenti di questo «spirito dell’utopia concreta» ricostruendo l’interpretazione che Ernst Bloch dà delle Undici tesi su Feuerbach di Marx. Seguendo questa stella polare indagheremo il significato e lo scopo che psicanalisi e critica dell’economia politica possono avere ancora oggi per noi.

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