di Alfredo Morganti – 15 marzo 2019
Ogni volta che attacco odio e risentimento, e dico che sono accuratamente seminati nella società dai nostri avversari, c’è sempre qualcuno che mi risponde comprendendo, almeno in certe proporzioni, l’odio di classe. E poi ci sono altri che giustificano il linguaggio gonfio di insulti verso gli avversari. E altri ancora che questo risentimento lo coltivano e lo spandono a piene mani anche sotto forma di linguaggio accademico. Io so soltanto una cosa, che abbandonare la politica agli impulsi, farne una questione viscerale, è la strada sbagliata. Non si tratta di negare, di rimuovere la rabbia, ma di farci i conti per ricomporla in una dimensione di praxis.
Nient’altro deve fare la politica, se vuole contenere la ‘bestialità’ umana in un recinto di convivenza o conflitto ‘regolato’, e se non vuole ridursi a fenomeno da baraccone social: deve portare sul piano dell’agire anche passionale, quella che è invece soltanto rabbia o vomito di insulti. Guardate che questo è successo a destra come a sinistra: la crisi della politica ha prodotto ovunque schegge impazzite di personalismi e di disprezzo verso gli altri. L’odio, il risentimento sono stati il timone quotidiano di pezzi rilevanti della classe politica. La polemica non è più stata un modo per accrescere la qualità del conflitto e dell’agire, ma un’arma letale scagliata contro la persona dell’avversario. Una specie di rottamazione atomica dell’altro. Un abbandono a quanto di peggio possa salire anche dal basso, che è stato finanche stimolato a sorgere.
La strage neozelandese è la propaggine più evidente e palmare di cosa significhi additare il presunto ‘nemico’ agli impulsi incontrollati di qualcuno. Prima di questo c’erano già stati altri momenti top, dove l’odio è andato davvero a briglia sciolta. Il punto è che, su questa base di paura, risentimento, rancori, timori, angosce si costruiscono castelli elettorali e quindi si governa alla grande. I populismi moderni hanno questa forte coloritura pulsionale, sono il tentativo di cortocircuitare il rapporto tra Capo e Popolo sulla base di istinti gretti, che invece di essere mediati vengono amplificati ad arte.
Giocare sulla rabbia è una soluzione per molti, a destra ma anche a sinistra. Come se facendo esplodere una carica ci si illudesse, poi, di ritrovare sano, salvo e coeso il mondo entro il quale la carica stessa è esplosa e dove tutti assieme si agisce. Le stragi quotidiane, il rancore liberato e diffuso, l’odio verso l’altro regalano qualche consenso spicciolo, muovono i sondaggi per brevi lassi, ma spalancano abissi futuri (e attuali) entro cui potrebbe sprofondare una intera civiltà, non solo l’odiato nemico. La democrazia non è uno strumento, né una procedura tecnica. È piuttosto un animus, un tessuto di relazioni, una rete di rapporti, un dibattito pubblico, un ambito di rappresentanza, una forma, la più alta, di partecipazione organizzata, non meramente individuale. Non è che può essere utilizzata alla bisogna e poi gettata via come un vecchio arnese o come la scala di Wittgenstein non appena raggiunto il tetto. La democrazia, per la sinistra, è insuperabile. La storia è maestra. La sinistra dovrebbe ormai aver davvero capito che, senza questo ‘sistema’ di azione collettiva, istituzionale e di protezione sociale essa semplicemente non esiste.