Nella spirale tecnocratica

per Gabriella
Autore originale del testo: Alessandro Visalli
Fonte: tempo fertile
Url fonte: http://tempofertile.blogspot.it/2014/06/jurgen-habermas-nella-spirale.html

NELLA SPIRALE TECNOCRATICA – di JURGEN HABERMAS – ed. LATERZA

 di Alessandro Visalli

Importante libro-arringa (come recita il sottotitolo) di Jurgen Habermas sulla situazione del Progetto Europeo, scritto poco prima delle elezioni europee, nel quale il filosofo tedesco fondamentalmente intende porci di fronte alla visione del bivio drammatico nel quale i cittadini europei tutti, e le élite del vecchio continente, sono per gli errori che hanno fatto, in particolare dal 1989 ad oggi; si tratta di scegliere tra: danneggiare il progetto dell’Unione Europea, rinunciando all’Euro, o rompere ogni indugio e approfondire subito l’Unione Politica.

 Il motivo per il quale la “rinuncia” all’Euro sia un danno “irresponsabile” al progetto dell’Unione Europea è spiegato di passaggio a pag. 77: e fonda in effetti sulla causa del fallimento, più che sulla sua perdita in sé. Per Habermas infatti se l’Euro viene “lasciato fallire”, per incapacità di fare il passo verso l’Unione Politica (che esso rende indispensabile, sembra di capire, con la forza della sua logica economica), e cioè a causa “dell’irriducibilità degli egoismi nazionali”, ciò sarebbe “molto demoralizzante” e darebbe il via allo scatenamento di tutti i populismi. In altre parole, il fallimento della Moneta Unica, è da temere soprattutto per la dinamica politica e sociale che scatenerebbe e per il rischio (di cui il richiamo alla “responsabilità”) che determini lo scivolamento dell’intera Unione Europea in questo “gorgo”. Potrebbe essere messo a repentaglio il risultato, certo incompleto, di cinquanta anni di conquiste fortunate e forse irripetibili (a meno di aspettare prima un’altra guerra mondiale fratricida).
D’altra parte, più profondamente, la desiderabilità dell’Unione Europea poggia non tanto sul rischio della vera e propria guerra in Europa ma sulla certezza che senza di essa per i popoli europei e per le tradizioni politiche e sociali che hanno faticosamente (e talvolta dolorosamente) costruito, non resterebbe possibile difendersi e restare padroni del proprio destino.
In che senso il filosofo della Democrazia Deliberativa dice questo? Non nel senso della politica di potenza, che talvolta sembra emergere nelle pieghe di alcuni discorsi (cioè nel senso della competizione per la distribuzione delle sfere di influenza, o dei ruoli negli organismi internazionali, o dei mercati); lo dice invece nel senso del superamento di quell’auto-esautoramento della politica, promosso dal progetto liberale radicale contro il quale sia lui stesso sia autori come Wolfgang Streeck spendono da anni le loro parole. In altre parole, la dimensione europea, dato il livello delle sfide e delle forze in campo scatenate dal grande capitale internazionale, è il livello minimo al quale si può guidare un contrattacco per recuperare il terreno perduto. Per riprendere, cioè, in mano gli strumenti che consentano di agire collettivamente in modo intenzionale (cioè razionale e voluto) sulle condizioni di esistenza della comunità e sulla storia. Per togliere, ancora in altre parole, “il manico del coltello” dalle mani dei mercati finanziari, riportandolo nelle nostre mani collettive.
Non riuscire in questo significa perdere l’occasione per mobilitare “i potenziali di razionalizzazione e socializzazione” della dinamica democratica, restando intrappolati in una politica autoreferente facilmente catturabile da interessi costituiti ed incapace di prendere sul serio la giustizia sociale. Una politica che, nella sua assoluta impotenza, è totalmente “in balia dei mercati”. Questa strada post-democratica infatti si “adatta passivamente” ad essi e fallisce nella funzione di regolarli. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti.
Ma Habermas non nasconde l’estrema difficoltà dell’azione: per salvare insieme il Progetto Europeo e l’Euro occorre “dar[gli] legittimità democratica, oltrepassando le frontiere, ai trasferimenti di valuta ed alla messa in comune dei debiti” (H.,p.4). Per riuscirci è indispensabile riuscire a cambiare prospettiva del <noi>, e generalizzare gli interessi a livello europeo, evitando sia gli “antichi fantasmi” che una rinnovata centralità tedesca evoca in molti, sia le “tentazioni” che evoca nella stessa Germania.
Ciò che serve è un cambio radicale di approccio, farla finita con la strategia del “piano inclinato” che conta sulla potente costrizione sistemica del modello tecnocratico e mercantilista per costringere le forme-di-vita nazionali ad uniformarsi ed in particolare spingere le culture economiche del sud ad appiattirsi su quelle del nord. Questa “omogeneizzazione forzata dei contesti di vita” derivante da una politica che si conforma al mercato, e si piega alla concorrenza del più forte, deve essere contrastata da una politica che, al contrario, si conforma alla democrazia.
D’altra parte occorre anche farla finita con <i signori dei Trattati>; cioè con quella forma di governance sovranazionale che deriva dal compromesso tra <pragmatistici>, <tecnocrati> e <liberisti> che ha sino ad ora governato gli organi europei (p.20).
Nel quadro delle forze potenti che si muovono sul terreno europeo, Habermas prende parte, insomma, per quelli che chiama <propugnatori dell’addomesticamento della finanza>, e per tale ragione difende il percorso di unificazione sia contro i <liberisti> (che pure lo promuovono per diverse ed opposte ragioni) sia contro le tre forze che ad esso si oppongono: <gli ordoliberali>, i <repubblicani> ed i <populisti di destra> (i primi vogliono uno Stato Nazionale, ma “leggero”, i secondi e terzi lo vogliono “forte”).
Passando sul piano pratico per Habermas il percorso da fare passa per (p.23):
     –    Una decisa Unione Politica che passi per una necessaria differenziazione tra un nucleo già pronto ed una periferia che, per diversi motivi, non lo è; caso particolare e sensibile è quello della Gran Bretagna, oggetto in questo momento di notevoli fibrillazioni;
     –      Una comune politica fiscale, di bilancio ed economica porterebbe oltre <la linea rossa> del tradizionale concetto di sovranità. Ma non significherebbe andare verso gli Stati Uniti d’Europa, per i quali non è presente il necessario consenso, ma produrre una nuova comunità soprastatale e democratica al contempo, che lascia il funzionamento degli Stati nazionali (con il monopolio della violenza legittima e l’amministrazione implementante le leggi).
    –   Il “metodo comunitario” che dovrebbe affermarsi tramite un riparto delle competenze che superi la <intergovernamentalità> oggi espressa dal Consiglio Europeo, e sarebbe da preferirsi sia per ragioni normative (l’accordo tra governi, dal punto di vista del singolo cittadino dello Stato, è sempre a rischio di essere percepito come eterodirezione ed alienazione, in quanto imposta da “governi esteri” che non rispondono ad esso tramite le elezioni), sia per ragioni di efficienza (proprio perché consente di superare la dinamica particolaristica ed i giochi a somma zero propri dei tavoli di trattativa nelle stanze chiuse). Ancoraggio di tale metodo dovrebbe essere il Parlamento Europeo a suffragio diretto, nel quale la dinamica politica si formi però secondo linee culturali e ideali (cioè politiche) e non nazionali.
Ciò che serve è dunque una nuova “Assemblea Costituente”, che può essere chiamata solo con il pieno ed attivo assenso della Germania.
In questo contesto è chiaro che i partiti dovrebbero prendersi il forte rischio, cui non sono più abituati da tempo, di trattare esplicitamente e francamente questi temi sulla sfera pubblica ed affrontare un reale conflitto di interessi e volontà. Ma solo così potrebbero mobilitare la necessaria forza motivante e scatenare il potenziale normativo e cognitivo delle tornate elettorali. In piccola parte si è visto in questa tornata, in cui il dibattito ha visto diverse posizioni scontrarsi e prospettive essere evocate.
A questo punto resta da raccontare quello che è probabilmente il centro del testo: il confronto con le posizioni di Wolfgang Streeck. Come noto Habermas ha intrecciato da tempo un confronto dialettico molto produttivo con il suo vecchio amico e collega (di sociologia) al quale rimprovera un “disfattistico” ritirarsi dietro le paratie ex stagne (ormai trapassate) dello Stato Nazione, per difendere la coesione sociale e il modello economico (che a tratti identifica con il classico compromesso “Renano”) aggredito e messo fuori gioco dalle costellazioni di potere contingenti che si sono affermate negli ultimi trenta anni. Streeck tende a vedere l’Unione Europea come <becchino della democrazia> (come afferma in alcune interviste) e il gioco del “tempo supplementare”, nel quale si possa finalmente affermare una democrazia sovranazionale, un autoinganno nel quale indugiano le forze progressiste da almeno trenta anni ed al quale egli non intende più partecipare. Nell’alternativa tra ricostruire una democrazia per la globalizzazione (come a suo parere vorrebbe Habermas) e rimontare l’economia ed i mercati intorno alla democrazia (nazionale), Streeck sceglie con decisione la seconda strada.
A questa posizione, non priva di una dolorosa fattualità, Habermas oppone una diversa visione (anche disciplinare); in favore del progetto europeo preso al suo meglio milita quello che il filosofo chiama “l’effetto chiavistello” delle norme costituzionali (come quelle Portoghesi che resistono efficacemente ai ditkat della Troika, ma anche quelle tedesche in più occasioni) in vigore, e del “complesso democratico già di fatto esistente”. Cioè quel che rende possibili queste stesse parole che state leggendo: “la persistenza di istituzioni, regole e pratiche consolidate e ancorate nelle culture politiche” (P.59).
Chiaramente il filosofo francofortese è ben cosciente dei nessi economici tra  l’Euro e lo stato di crisi permanente nel quale è caduta l’Unione Europea; in proposito cita Stiglitz, Fritz Scharpf, e Henrik Enderlein.
Un’Unione Europea “conforme-a-democrazia” si dovrebbe però distinguere da un esecutivo federale “conforme-a-mercato” per due cose: l’esistenza di un progetto politico di fondo (con correlati trasferimenti) e il cambiamento del Trattato di Lisbona per rendere possibile una nuova architettura istituzionale basata su Parlamento e Consiglio posti sullo stesso piano ed entrambi dotati del ruolo legislativo con la Commissione tenuta a rispondere ad entrambi.
Come noto Streeck oppone una nutrita serie di argomenti a questa prospettiva: oltre allo scetticismo sul “principio di speranza” che anima Habermas, troviamo l’acuta percezione dell’insostenibilità della “trappola monetaria” verso la quale i paesi del sud si sono incamminati, insieme al calcolo della fisica insostenibilità di trasferimenti da parte di 163 milioni di cittadini europei che hanno un reddito medio pro capite di 31.000 euro verso 128 milioni con un reddito di 28.000 euro. L’ordine di grandezza è semplicemente troppo ampio.
Ma anche se lo fosse non sarebbe neppure desiderabile, perché lo schiacciamento del modello sociale ed economico del sud su quello del nord sacrificherebbe forme-di-vita autonome senza avere la legittimazione di un <popolo europeo> al quale legare la legittimità dell’operazione.
A queste obiezioni, Habermas propone la sua “politica di attacco” e il carattere intrinsecamente artificiale del <popolo sovrano> (costruzione storica condotta nel corso dell’ottocento, con abbondanti dosi di progettualità e logica del nemico esterno). Inoltre propone di valorizzare la fondamentale distinzione tra “decisioni che si conformano al mercato” e “decisioni che si conformano alla democrazia”.

Cioè di fare affidamento su un potere costituente, capace, sulla base delle premesse iscritte nella nostra cultura e memoria oltre che nei testi e delle istituzioni, di un movimento autonomo di universalizzazione, astrazione e anche di operare in modo decentrato. Quando necessario di farlo “nel piccolo taglio” di decisioni e mobilitazioni in grado di far saltare la capacità di ricatto tra Stati Nazionali e sistemi bancari.

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