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NELLA CITTA’ DOLENTE – DI VEZIO DE LUCIA – ed. CASTELVECCHI
MEZZO SECOLO DI SCEMPI, CONDONI E SIGNORI DEL CEMENTO. DALLA SCONFITTA DI FIORENTINO SULLO A SILVIO BERLUSCONI
Ovvero come l’urbanistica è stata al centro del riformismo italiano e come potrebbe tornare ad esserlo.
da www.eddyburg.it recensione di Andrea Declich
Nella città dolente, di Vezio De Lucia (Castelvecchi, 2013) è un libro sull’urbanistica italiana che in questi tempi di riflessioni e revisioni dovrebbe diventare oggetto di studio per buona parte della classe dirigente del centrosinistra italiano (intendendo qui, a scanso di equivoci, tutto ciò che ruota attorno al PD e alla sinistra del PD). I motivi sono tanti, a partire dal fatto che le classi dirigenti del nostro paese sembrano avere la memoria corta e l’esperienza del riformismo passato, dei suoi successi come dei suoi fallimenti, non è, come invece dovrebbe, patrimonio di conoscenza condiviso da tutti. E’ questa una condizione tutta italiana: è noto, infatti, che un grande riformatore come Barack Obama abbia studiato a fondo la bruciante sconfitta subita dal suo predecessore Clinton sulla riforma sanitaria. Per poter innovare e vincere, anche a prezzo di alcuni compromessi. Ultimamente, la riflessione sul passato, per non parlare della revisione critica – come si è avuto modo di mettere in luce recentemente – sembra invece essere poco praticata a sinistra.
De Lucia, uno dei più importanti urbanisti italiani, parla, come si evince dal sottotitolo del suo libro, di “mezzo secolo di scempi, condoni e signori del cemento. Dalla sconfitta di Fiorentino Sullo a Silvio Berlusconi”. Il racconto è avvincente e riesce a rendere tutta l’importanza che ha in Italia la questione urbana e urbanistica. Le vicende raccontate nel libro sono numerose. Si parla delle sconfitte dei riformatori, ma anche di alcuni importanti successi ottenuti negli anni: si va dalla sconfitta di Fiorentino Sullo e della sua riforma urbanistica, agli interventi che hanno fatto scuola come a Bologna o nella Maremma livornese oppure del contrasto degli appetiti speculativi determinatisi a Napoli dopo il terremoto dell’80 in vista della ricostruzione. Nel libro si parla anche degli interventi di riforma quali la “legge ponte” di Mancini approvata nel 1967 come risposta alla frana di Agrigento o della legge Bucalossi, così come delle tante vicende, più o meno grandi, relative ai tentativi di dare al territorio e alle città un assetto civile e una gestione non predatoria. Ci sono riferimenti alla storia urbanistica recente di Venezia e alla vicenda del MOSE, all’urbanistica italiana nel periodo del centrismo e a episodi di successo come la tutela del centro storico di Assisi, nonché i riferimenti alle sentenze della Corte Costituzionale che, a varie riprese, hanno annullato alcuni dei dispositivi riformisti volta per volta istituiti.
De Lucia assolve a un importante compito, quello di dare una visione di insieme dell’urbanistica italiana dal dopoguerra ad oggi. Le vicende narrate sono più numerose di quelle appena ricordate e sarebbe inutile cercare di farne un riassunto in poche righe. Il libro, in sostanza, contiene il racconto della battaglia per la gestione del territorio in chiave non speculativa nel contesto della ricostruzione prima e delle fasi di sviluppo che sono seguite. Emerge il racconto di uno scontro politico nel quale si confrontano, da una parte, coloro i quali ritengono che il territorio sia un bene come tutti gli altri e che, quindi, debba poter essere utilizzato da chi se ne appropria per il suo legittimo arricchimento. Dall’altra, invece, ci sono coloro che ritengono che il territorio e il paesaggio debbano essere usati con dei limiti, tenendo presente l’impatto collettivo che tale sfruttamento determina. Interesse collettivo e limiti individuati non solo dalla legge, ma anche dalla stessa Costituzione.
Un aspetto molto importante raccontato da De Lucia è che i fronti di questo scontro attraversano in maniera non scontata i partiti politici, anche perché il modello di riferimento dei riformatori non è statalista né comunista e si rifà, invece, a quanto praticato in numerosi paesi europei, mai usciti dall’alveo del capitalismo. E’ un modello liberale, finalizzato a costruire un mercato degli immobili efficiente e competitivo nel quale gli interessi della rendita non dettino legge. Fiorentino Sullo, per intenderci, era un ministro democristiano e lo stesso Gianni Agnelli, all’inizio degli anni 70, auspicava un “riduzione dell’area della rendita”. Ma “l’urbanistica contrattata”, o il “pianificar facendo”, vale a dire i mali recenti del governo del nostro territorio, sono stati propugnati anche da importanti pezzi della sinistra italiana e nel libro si parla anche delle esperienze contraddittorie per quanto riguarda l’urbanistica della giunta Pisapia a Milano e di quella De Magistris a Napoli.
Quello che è il tratto distintivo del racconto di De Lucia è che lo scontro sull’urbanistica è stato anche cruento. La chiave interpretativa che percorre tutto il libro, infatti, è data da quella che lui definisce la “Sindrome di Sullo”, cioè il fatto che chiunque si occupi di urbanistica contrastando gli interessi della speculazione finisce per subire una marginalizzazione politica (un esempio degli stereotipi che ancora gravano su quella vicenda lo si può ritrovare in questa rievocazione di Sergio Romano, sul Corriere della Sera di qualche anno fa). Non fu solo Sullo a subirla: De Lucia parla anche di Achille Occhetto, che si oppose ad alcune operazioni urbanistiche a Firenze. Più recentemente è stata la volta di Renato Soru. Ma lo stesso Aldo Moro sembrerebbe esserne stato vittima. Afferma infatti De Lucia: “ci provò a fare la riforma urbanistica. nel 1964, ma fu costretto a una precipitosa marcia indietro per evitare un colpo di stato”. Per questo stupisce – o forse proprio per questo non dovrebbe stupire – che la questione urbanistica sia considerata solamente argomento per specialisti.
Insomma, De Lucia parla di urbanistica come grande questione nazionale. Sarebbe dovuta essere la terza grande riforma del centrosinistra, ma venne bloccata con un tentativo di colpo di stato, mentre negli anni recenti “è stata mano a mano emarginata e poi screditata dall’azione sempre più condivisa volta a mettere fuori gioco il governo pubblico del territorio”.
I riformisti italiani e quelli che hanno a cuore le sorti del paese dovrebbero, invece, raccogliere questa bandiera. Innanzitutto perché servirebbe all’Italia, visto lo stato di degrado delle città e del territorio. Le recenti elezioni e le prossime tornate amministrative, purtroppo, ci dicono che la questione è, come dire, “fuori dai radar” delle classi dirigenti e di urbanistica si parla poco e male.
Inoltre, in una stagione in cui la sinistra si interroga sulle ragioni della sua debolezza e sulla crisi delle sue forme organizzative, farebbe bene ad accorgersi che alla radice di molta mobilitazione popolare c’è l’interesse e la preoccupazione per le sorti delle città e del territorio. Il libro di De Lucia fa riferimento ai movimenti sorti negli ultimi anni, ma l’impressione è che lo faccia per difetto, visto che nascono un po’ ovunque comitati di difesa del verde o dello spazio pubblico, oppure iniziative di lotta alla cementificazione. Tutte realtà che hanno diversi gradi di organizzazione e di forza, che spesso si oppongono a interessi enormi e che meriterebbero molta più attenzione da parte dei riformisti italiani (alcune di queste esperienze vengono raccontate da Erbani in un bel libro sull’urbanistica Romana). La sinistra, quindi, dovrebbe interrogarsi sul proprio ruolo in relazione a queste realtà, e comportarsi di conseguenza. Il che, peraltro, implicherebbe rinverdire tradizioni che le sono proprie. De Lucia, a questo proposito, racconta che il PCI Romano, sotto la guida di Aldo Natoli – che definisce uno dei fondatori dell’urbanistica di sinistra italiana – nel 1954 fornì l’elenco dei maggiori proprietari di aree a Roma: un esempio di come solo la struttura organizzativa di un partito forte può essere messa al servizio delle battaglie progressiste. Battaglie che possono essere efficaci, da una parte, se si individuano in maniera chiara gli avversari e le effettive poste in gioco, e dall’altra se si hanno le spalle forti al punto da difendere i propri dirigenti dalla “Sindrome Sullo”. E’ utile ricordare qui che l’ultima stagione riformista della sinistra romana, quella che portò all’elezione di Rutelli si basò su un lavoro analogo di censimento dei poteri forti della città, inclusi quelli attivi nel settore immobiliare. Vari furono i promotori di questa iniziativa, tra cui Walter Tocci. De Lucia non ne parla qui, ma in un altro libro. Parla, invece, degli esiti deludenti di quella esperienza, che tradirono le aspettative che pure si erano determinate. Come che sia, l’urbanistica era oggetto di pensiero e di azione. Attualmente i partiti deboli, o liquidi che dir si voglia, cose così non le hanno più fatte né immaginate, e non stupisce che l’urbanistica non sia sotto le luci della ribalta della politica locale. Figurarsi se sono in grado di fare autocritica sulle esperienze passate (esistono delle eccezioni, e De Lucia indica il solito Tocci).
Sul forte legame tra controllo della rendita, sviluppo urbano e movimenti De Lucia interviene a lungo: nel parlare del ruolo che le lotte per la casa hanno avuto nel ’68 sostiene che fu proprio il grande interesse dei sindacati e dei movimenti dei lavoratori di quegli anni che consentirono l’approvazione della legge per la casa del 1971. Dello stesso sostegno popolare non godette, al contrario, Sullo. Ovviamente, la sinistra dovrebbe essere consapevole che occuparsi di queste cose non è certo garanzia di successo: sull’assetto del territorio gli interessi si confondono e si mescolano, le alleanze e i blocchi sociali non si formano secondo linee scontate e spesso poveri e ricchi si trovano sullo stesso fronte. De Lucia cita un articolo del 1970 di Valentino Parlato che descrive il “blocco edilizio” e la sua variegata e contraddittoria composizione, ma le cronache più recenti parlano del grande consenso popolare prodotto dalle sanatorie edilizie (uno dei mali dell’urbanistica italiana). E’ una sinistra pensante e in grado di fare proposte, di parlare al popolo che c’è bisogno se si vuole affrontare l’emergenza urbanistica in cui vive il paese.
Il libro di De Lucia non è solamente un racconto o una denuncia. Nelle ultime pagine viene formulata, in grandi linee, una proposta sul “che fare” ora. L’idea è quella di tracciare un “invalicabile linea rossa che segna il confine fra lo spazio edificato e quello rurale e aperto. Una linea che rappresenta nuove e invalicabili mura urbane”. Non sarebbe un’utopia e lo “stop al consumo di suolo non significa sviluppo zero”. Nel nuovo ambito resterebbero da soddisfare, infatti, enormi bisogni, sia nuovi che pregressi. Insomma, la prospettiva proposta non è certo da annoverare tra quelle oscurantiste o decliniste. Ma, certo, quella che si propone è una visione dello sviluppo rispettosa del territorio, del paesaggio e dei significati culturali e umani che rappresenta. Non è dissipativa. E comunque, la dissipazione vera, lo abbiamo visto tutti in questi anni di crisi economica, è venuta proprio dallo sfruttamento insensato del “mattone” e dalla nefasta finanziarizzazione di questo mercato, che ha spiazzato gli investimenti produttivi a favore della rendita. La linea rossa è un limite, volutamente invalicabile. Sembrerebbe, però, rappresentare una di quelle proibizioni sane, quelle che servono per incanalare le energie in modo positivo, un po’ come nel caso dei bambini, a cui bisogna pur dire dei No per aiutarli a crescere.
ecco la conclusione del libro: L’invalicabile linea rossa
L’ultimo paragrafo del libro non è di storia, né di riflessioni sulla storia ma cerca di mettere a profitto la storia e le riflessioni fin qui esposte per rispondere alla domanda: che si può fare per salvare il salvabile? Nelle pagine precedenti abbiamo descritto le forme abominevoli che ha assunto lo sviluppo urbanistico nel nostro Paese. È un problema non solo di quantità, anche di forma. Nel senso che le quantità realizzate hanno risposto, seppure con grandi sprechi, a bisogni effettivi di alloggi, di infrastrutture e spazi per la produzione e i servizi. Ma è la disposizione dei manufatti prodotti che ha assunto carattere criminale. Mi riferisco in particolare alle più recenti espansioni urbane, quelle degli ultimi trent’anni, realizzate con densità irrisorie o peggio ancora fatte di immobili abitativi e produttivi disseminati in campagna. Se le stesse cose fossero state costruite con qualche criterio – per esempio obbligando a densità minime ragionevoli – si sarebbe risparmiata almeno la metà delle migliaia di ettari ogni anno sottratti alla campagna o alla natura e trasformati nell’infamia che ci avvolge. Nell’autunno del 2012, Mario Catania, ministro dell’Agricoltura del governo Monti, ha proposto un disegno di legge per il contenimento del consumo di suolo, faticosamente contrattato con le Regioni, basato su procedimenti a cascata, con esiti imprevedibili e tempi lunghissimi. In sostanza lo Stato propone, ma alla fine a decidere sono Regioni e Comuni. Che è come chiedere al gatto di Pinocchio di tenere a bada la volpe, o viceversa. Intendiamoci, non tutte le Regioni e non tutti i Comuni sono uguali. So bene che in certi posti gli spazi aperti sono in qualche misura tutelati, soprattutto nel Centro-Nord. Viceversa, nel Mezzogiorno, dal Lazio in giù – Lazio e Roma da questo punto di vista sono profondo Sud – lo spazio aperto è considerato sempre e comunque edificabile, farsi la casa in campagna un diritto inalienabile, e chi ha provato a metterlo in discussione è stato colpito dalla sindrome di Sullo e rapidamente emarginato dalla vita politica.
Non è perciò convincente la proposta Catania, troppo propensa al pluralismo istituzionale per perseguire efficacemente l’obiettivo, che dovrebbe essere prioritario, di imporre le misure più severe laddove maggiore è la sregolatezza: ve le immaginate Campania e Lazio prime della classe che bloccano le espansioni e reprimono l’abusivismo?
Servono soluzioni radicalmente diverse. E urgenti. Continuare con l’attuale ritmo di dissipazione del territorio, anche per pochi anni, in attesa che le Regioni si convertano al buongoverno, significherebbe toccare il fondo, l’annientamento fisico dell’Italia, un disastro non confrontabile con crisi come quelle economiche e finanziarie, più o meno lunghe, più o meno gravi, più o meno dolorose, ma dalle quali infine si viene fuori. Il saccheggio del territorio è invece irreversibile.
Allora che fare? Per ora un sogno a occhi aperti: un governo con persone sensibili, unitariamente impegnato in un’azione culturale e politica di convincimento dell’opinione pubblica, che propone un provvedimento statale senza misericordia – in attuazione dell’articolo 9 della Costituzione – che azzera tutte le previsioni di sviluppo edilizio nello spazio aperto e obbliga a ridisegnare gli strumenti urbanistici indirizzandoli alla riqualificazione degli spazi degradati, dismessi o sottoutilizzati attraverso interventi di riconversione, ristrutturazione, riorganizzazione, rinnovamento, restauro, risanamento, recupero (ovvero di riedificazione, ripristino, riparazione, risistemazione, riutilizzo, riordino, rifacimento: la disponibilità di tanti sinonimi aiuta a cogliere la molteplicità delle circostanze e delle operazioni cui si può mettere mano). Non si possono escludere situazioni eccezionali, irrisolvibili senza occupare lo spazio aperto (come impianti produttivi connessi a particolari caratteri dei suoli). In queste circostanze si deve fare ricorso a norme altrettanto eccezionali, per esempio provvedimenti legislativi regionali ad hoc.
Si aprirebbe così una nuova stagione, diventerebbe fondamentale un nuovo strumento urbanistico formato semplicemente da una mappa con un’insormontabile «linea rossa» che segna il confine fra lo spazio edificato e quello rurale e aperto. Una linea che rappresenta nuove e invalicabili mura urbane. All’interno delle quali convivono quasi ovunque le due principali componenti della città contemporanea: il centro storico e l’espansione moderna. Per centro storico intendendo l’insieme del patrimonio insediativo che si è stratificato nei secoli, da quelli più remoti fino alla metà circa del secolo passato (intorno alla fine della Seconda Guerra Mondiale). È la porzione più piccola e preziosa dello spazio urbano – ormai intorno al cinque per cento della superficie urbanizzata totale – e perciò da tutelare rigorosamente.
L’espansione moderna comprende invece il resto della città costruita negli ultimi settant’anni. In essa c’è di tutto. Pensando a Roma: gli intensivi degli anni Cinquanta e Sessanta, l’Ina Casa, i quartieri Peep e quelli abusivi, impianti piccoli e grandi per la produzione di beni e servizi, grande e piccola distribuzione commerciale, parchi e giardini, attrezzature sportive, ville e villette, e lo sterminato sprawl legale e illegale degli ultimi anni. Un territorio che ha continuato impunemente a espandersi, e ormai misura intorno al 95 per cento dello spazio urbanizzato, determinando ovunque un aggravamento dei costi di gestione del sistema insediativo e un grave peggioramento delle condizioni di vita.
Un’espansione siffatta non è più tollerabile, dev’essere bloccata.
Attenzione, quello che sto proponendo è un percorso molto meno terribile di ciò che sembra e non mancano gli esempi di recenti strumenti urbanistici a zero consumo del suolo (il piano regolatore di Napoli e quello di Cassinetta di Lugagnano, il piano territoriale della Provincia di Torino, quello della Provincia di Caserta). Chi conosce le condizioni attuali delle città italiane sa che la strategia della invalicabile «linea rossa» non è un’utopia e stop al consumo del suolo non significa sviluppo zero. Chi conosce le condizioni attuali delle città italiane sa che i bisogni nuovi e pregressi da soddisfare sono ancora enormi – anche se diversi da luogo a luogo – e sarebbe una follia pensare di limitarli. Ma gli spazi necessari possono essere agevolmente reperiti nell’ambito delle aree già compromesse, sottoutilizzate o dismesse. Mi limito a riprendere pochi dati dal piano territoriale della Provincia di Caserta approvato nel luglio 2012. Nei 104 comuni di quella provincia mancano decine di migliaia di alloggi e un numero sconfinato di attrezzature e di luoghi per la produzione di beni e servizi. Lo spazio necessario per tutto ciò ammonta a circa tremila ettari. Ma è stato accuratamente calcolato che il territorio malamente urbanizzato e sprecato per edificazione legale e illegale con densità irrisorie – intorno ai dieci abitanti per ettaro – si estende per oltre tredicimila ettari. All’interno dei quali vanno quindi reperiti i tremila ettari indispensabili per tutte le cose che mancano.
Non è un’impresa impossibile né velleitaria. Sapendo, tra l’altro, che la strategia proposta è l’unica capace di dare risposte sostenibili non solo dal punto di vista ambientale ma anche dal punto di vista economico e finanziario. Come prendere due piccioni con una fava: i nuovi interventi localizzati all’interno dell’attuale sistema insediativo servono a soddisfare bisogni accertati, al tempo stesso agiranno come focolai di riqualificazione.
Concludo tornando all’inizio. Nel 1963, la defenestrazione di Fiorentino Sullo scatenò un assalto al territorio mai visto prima. In cinquant’anni sono stati sfigurati cinquemila anni di civiltà insediativa. Il Bel Paese non c’è più, ne restano sparsi brandelli. Lo scempio è avvenuto con la connivenza della stragrande maggioranza degli italiani: accanto agli stati maggiori della speculazione hanno operato le fanterie dei piccoli e piccolissimi proprietari di case e villini, capannoni e fabbrichette. I detentori «del monopolio di accumulazione del plusvalore fondiario di speculazione» hanno saputo «mobilitare psicologicamente milioni di cittadini insinuando il sospetto che il pericolo riguarda la vita di ogni giorno del cittadino medio»: sono parole di Fiorentino Sullo riferite alla sua tragica vicenda, ma valgono anche per la stagione di Silvio Berlusconi.
Neppure la terribile crisi economica degli ultimi anni – che proprio nelle città si è manifestata con rovinosa evidenza – ha frenato i disegni predatori, come sa chi segue le cronache di grandi e piccole città italiane. Ma al tempo stesso l’insofferenza e la protesta per la condizione urbana hanno raggiunto una diffusione mai vista prima. Come se le crescenti difficoltà nella vita di ogni giorno avessero finalmente aperto gli occhi a milioni di cittadini inducendoli a vedere per la prima volta – accanto ai disservizi, agli sprechi, alle inefficienze – anche la degradazione dello scenario fisico che ci circonda, a restarne disgustati e a reagire.
Se non ci sono strumenti e risorse per porre rimedio a decenni di sviluppo urbanistico insensato, nulla impedisce intanto di dire basta. Approvando subito una disposizione per fermare lo sperpero del territorio, una disposizione che assuma oggi la stessa importanza che cinquant’anni fa doveva avere la riforma di Fiorentino Sullo. Ma stavolta non dovremmo mancare l’obiettivo, e il consenso è troppo vasto perché qualcuno pensi a un colpo di Stato.