di Alfredo Morganti – 10 aprile 2018
Non si può dire che non abbia letto, in queste settimane, delle ‘analisi della sconfitta’ anche di buon livello. Quasi tutte con forti accenti critici e autocritici. Ma in nessuna, dico in nessuna di esse, ho letto della sana politologia. Molta attenzione ai riflessi sociali della crisi e alle difficoltà di dialogo e rappresentanza con i soggetti tradizionali della sinistra. Ci ho letto anche accuse riguardo alla incapacità di leggere le trasformazioni economiche e la nuova natura del lavoro. Ma nulla di ‘politologico’, nulla che si riferisse apertamente allo stato e alle condizioni dell’attuale contesa politica.
Per dire. Un sistema maggioritario è leaderistico, con tendenza alla bipolarizzazione, spezza la rappresentanza, riduce la contesa allo scontro tra figure, rende i partiti delle macchine elettorali, chiede una ‘vittoria’ e riserva il governo al ‘vincitore’ , potenzia gli elementi di comunicazione mediale, educa una classe politica allo scontro sul consenso e getta in pessima luce (inciucio) ogni sistema delle alleanze, se non nella forma delle larghe intese emergenziali. Un sistema proporzionale, invece, vuole identità, partiti, vuole ‘forza’ politica da spendere in Parlamento, educa al dialogo politico, alle alleanze, ai compromessi, vuole partiti veri non sembianze, rafforza il potere parlamentare, abitua i cittadini al confronto istituzionale, rimette in campo la politica rispetto al semplice confronto comunicativo-mediale.
In Italia, per 25 anni ci siamo mossi in puro ambito maggioritario. I partiti, la classe politica, i media, i cittadini si sono immersi in questo mood. Gli attuali dirigenti politici per primi sono cresciuti nel clima del maggioritario e delle metafore calcistiche, ritenendo che la campagna elettorale fosse tutto, il Parlamento poca roba, i parlamentari dei peones e l’esecutivo la vera stanza dei bottoni da conquistare come un fortino. Che la cosa sia questa, lo vedete anche dalla goffaggine con cui gli leader si muovono nel contesto quasi-proporzionale del Rosatellum. Si va dalla continuazione della campagna elettorale in piena fase di consultazioni, all’immobilismo semaforico di Renzi. Sono impreparati alla cultura delle alleanze e del dialogo istituzionale. Sono pesci fuor d’acqua. Sono populisti e impolitici nello stesso tempo.
Ebbene, la considerazione di questa ‘gabbia’ è fuori dalle analisi di questi giorni. Come se il contesto istituzionale, oltre quello sociale, non conti nulla. Sia una cosa astratta, ‘politicista’. Come se la sconfitta della sinistra sia solo un problema ‘interno’ alla sinistra stessa, e non anche l’effetto di mutate regole del gioco, i cui effetti hanno ribaltato i paradigmi della sinistra storica e dato vantaggio agli avversari. Soprattutto in Italia, dove il destino della sinistra stessa e quello della democrazia rappresentativa e dei partiti sono sempre stati intrecciati. Io credo che l’immersione totale nel brodo maggioritario, la cultura della ‘vittoria’ in campagna elettorale, il leaderismo mediatico, l’accantonamento della pratica della mediazione abbiano nuociuto alla sinistra quanto l’egemonia della cultura liberista o neoliberale sul piano culturale e le trasformazioni subite dal lavoro in campo socio-economico. Ritengo persino che le tre cose si tengano. Se ciò fosse stato più evidente, oggi le analisi della sconfitta sarebbero state più complete. E magari chiederemmo il ritorno al proporzionale, invece di immaginare, come molti fanno o faranno anche a sinistra, un nuovo maggioritario come unica soluzione al problema della ‘governabilità’. Più la politica muore nella disintermediazione, e più si ragiona solo in termini ‘sociali’, economici e di consenso. Anche questo è un pezzo di egemonia tecnico-liberista. Sarebbe bello capirlo.