Ci hanno pensato in molti a criticare (giustamente) la sostanziale assimilazione, da parte del Parlamento Europeo, di ‘nazionalsocialismo’ e ‘comunismo’, sotto la generica categoria del ‘totalitarismo’. Le critiche sono state avanzate da più punti di vista (storico, politico, filosofico) e dunque non mi ripeto e non mi dilungo. Una cosa però vorrei dirla, magari un po’ schematicamente e me ne scuso per questo. Oggi, il pensiero che domina in Occidente, quello della Tecnica, tende a svuotare la politica (e dunque la storia) da differenze, conflitti, da una visione articolata. Una specie di testarda, caparbia riduzione all’Uno si imprime su ogni articolazione, come una specie di tallone di ferro. Non c’è più il tempo della differenza, c’è solo quello istantaneo della unificazione sintetica e dialetticamente conclusa.
La democrazia, che propone soluzioni alternative a problemi e punti di crisi, è messa da parte, perché la convinzione quasi unanime è che la soluzione al problema sia una e una soltanto, quella più efficace, sintetica, quella strumentalmente più adeguata, ed è dunque inutile discuterne, inutile (e perditempo) confrontarsi anche aspramente sulle cose da fare, quando questa cosa è una e una soltanto, e basta un calcolo per individuarla in via definitiva. E anche chi vorrebbe porsi fuori dall’alone della Tecnica finisce spesso per caderci: anche un sincero democratico, anche una donna o un uomo di sinistra, anche forze e formazioni che pure vorrebbero mettere la politica al primo posto. Una riduzione all’Uno che riguarda paradossalmente (e per primi) proprio quelli che rivendicano, invece, la necessità del conflitto e dell’alternativa. A dimostrazione della potenza del pensiero.
Al Parlamento Europeo, con questa mozione, è successo lo stesso: A=B. Anche le istituzioni elettive, come si vede, sono colpite dal morbo tecnico-assimilativo, dalla sbrigativa e fascinosa (oltre che più pratica e sbrigativa) riduzione all’Uno. Il nazionalsocialismo e il comunismo sarebbero la stessa cosa, dunque, così che sparirebbero le differenze, sparirebbe il dibattito storico, sparirebbero i fatti (che in realtà li mostrano come acerrimi nemici, come pure lo prova l’andamento della guerra, Stalingrado, i milioni di morti, l’avanzata dell’Armata Rossa, la scoperta dei lager, la liberazione finale) e i colori si mischierebbero sino a sparire in una sorta di entropia ‘tecnica’ (che però è politica). Anche qui è all’opera una patologia dell’epoca, quella di volere unificare tutto sino alla indistinzione, cedere all’idea affascinante dell’Unicum (il lato oscuro del pensiero politico, molto in voga oggi tra i pensatori), come se fosse (ed è, per certi aspetti) un destino egemonico e il prezzo che paghiamo all’ideologia della Tecnica, che combattiamo in sostanza opponendole le sue stesse armi.
Ed è questo, proprio questo, lo scotto a cui si è costretti: contrastare l’avversario con le sue medesime logiche e non cogliere le differenze (che pure restano sotto la coltre ideologica), quando la soluzione che ti viene proposta è esattamente quella di vedere le vacche come se fossero tutte nere, quando invece è il buio tecnico che le trasfigura. Per contrastare questo pensiero non basta allora dichiararsi ‘comunisti’ e opporre una identità alle altre. Le dichiarazioni purtroppo hanno il tempo che trovano. Per battere questo ‘pensiero dominante’ (diceva Leopardi) bisogna invece pensare in un altro modo, ossia cogliere le differenze, puntare il dito sulle articolazioni, sforzarsi di vedere dissomiglianze, conflitti, passaggi, difformità, gradazioni, rifuggendo dall’escamotage delle facili sintesi, delle sintesi sintetiche dalla cui presa non sfugge nemmeno un granello di singolarità. È un pensiero e un invito che rivolgo per prima alla sinistra, anche se molti già lo sanno.