Nagorno-Karabakh: un conflitto “congelato” che …… si incendia
Oggi, 17 luglio 2020, solo in alcuni titoli di coda delle televisioni a dare notizia di uno nuovo conflitto armato tra Armenia e Azerbaigian nel territorio conteso del Nagorno-Karabakh. I principali quotidiani non lasciano traccia dell’accadimento.
La pandemia ha certo oscurato l’attenzione per il sistema internazionale che è sotto stress per alleanze sempre più volatili, e in particolare ha distratto l’attenzione per le aree nel mondo in cui le guerre ancora ci sono (ma non interessano più nessuno) e la popolazione civile è sotto scacco. Questa tendenza si accompagna al disinteresse per le cosiddette “guerre congelate” (frozen) o “guerre dimenticate”: conflitti reali, con morti e distruzioni, ma che nessuno ha interesse a risolvere, nel “big game” tra potenze. In particolare, questo fenomeno riguarda alcune aree dell’ex Unione Sovietica (ma non solo): Crimea, Transnistria, Abkhazia, Sud Ossezia e Nagorno-Karabakh: quest’ultimo è un conflitto in “congelamento protratto”. Il riferimento a queste regioni come stati de facto non significa che si discuta che queste aree appartengono agli stati confinanti: la Transnistria alla Moldova, la Crimea all’Ucraina, Abkhazia e Ossezia alla Georgia e il Nagorno-Karabakh all’Azerbaigian.
Cominceremo da questo fatto di cronaca, per sviluppare anche in futuro, qualche considerazione generale sui conflitti congelati in giro per il mondo, soprattutto nelle aree ex sovietiche, ma anche in Africa e nel Medio Oriente.
Mappa dei conflitti “frozen” nell’area ex sovietica
In questo breve scritto ci occuperemo della situazione del Nagorno-Karabakh, anche a seguito dei fatti di cronaca ricordati nell’incipit al brano.
Per gli armeni, il Karabakh è storicamente una provincia armena, con antiche chiese, a larga maggioranza cristiana. Per gli azeri il Karabakh ha grande importanza culturale, essendo stato per secoli un canato mussulmano attorno alla città di Shusha. Incorporato nelle pianure azere, l’Azerbaigian sostiene che è parte del suo territorio in termini geografici ed economici.
Sotto il regime sovietico ai confini tra Armenia e Azerbaigian era stata istituita la Regione autonoma (oblast) del Nagorno-Karabakh, a maggioranza armena. Con l’implosione del regime sovietico vi fu un referendum per l’indipendenza, non riconosciuto dall’Azerbaigian, al cui esito favorevole il Nagorno-Karabakh si dichiarò atonomo, sostenuto dall’Armenia ma non riconosciuto a livello internazionale. Le tensioni sfociarono alla fine egli anni Ottanta del secolo scorso in una lunga guerra che durerà sino al 1994, con l’occupazione da parte armena di territori azeri (oggi terre deserte e spopolate, percorse solo dalle truppe armene occupanti) con conseguente fuga di azeri profughi di guerra verso la capitale Baku.
Un soldato armeno in una trincea permanente lungo il confine conteso
La guerra si concluse nel 1994 con oltre 20.000 morti e un milione di persone ridotte, in entrambe le parti, alle condizioni di rifugiati di guerra.
Mappa dell’area oggetto di contesa (Disegno TRT World)
Dal 1994 Armenia e Azerbaigian sono sempre state sul piede di guerra. Circa 10.000 uomini per parte si fronteggiano lungo la cosidetta Linea di contatto che per 200 chilometri taglia il territorio azero a nord est del Nagorno-Karabakh. Da allora, ciclicamente avvengono sulla linea di confine scaramucci e colpi di artiglieria pesante. Particolarmente intenso fu lo scontro nel 2016, con oltre 200 morti ufficiali (detta guerra deli quattro giorni). Nel 2017 gli armeni del Karabakh rinominarono la non riconosciuta repubblica del Nagorno-Karabakh come “Repubblica di Artsakh”, ulteriormente acuendo il contrasto con l’Azerbaigian, che ritiene quell’area appartenente al suo territorio.
Tutto ciò nonostante a metà anni Novanta venisse organizzata dall’OSCE la conferenza permanente di Minsk (composta da Russia, USA e Francia) con lo scopo di definire un protocollo di pace tra i due paesi e trovare una via pacifica alla disputa territoriale/etnico/religiosa. Di fatto, oltre il territorio indipendente del Nagorno-Karabakh, l’Armenia ha occupato circa il 13% del territorio azero attorno al Nagorno-Karabakh. Quello che era nato come uno sforzo di autodeterminazione è sfociato in un conflitto tra nazioni con riflessi sugli equilibri internazionali. E con due paesi che dedicano alle spese militari la maggior percentuale al mondo dei loro bilanci. Ad esempio, l’Azerbaigian, il più interessato a riconquistare i territori in mano armena, stanzia annualmente almeno 4 miliardi di dollari per spese militari (il 55% di missili sono acquistati in Russia). Come si vede, il conflitto, dimenticato dalla comunità internazionale, ha ripreso vigore.
Indicazione dei luoghi degli ultimi scontri (International Crisis Group)
In questi giorni appunto, tra l’indifferenza generale, sono ripresi gli scontri. Dopo alcuni giorni di scaramucce tra truppe armene e azere nel distretto di Tovuz (nord-est dell’Armenia), già dal 12 luglio si contano i primi morti: 12 militari azeri e quattro militari armeni più un civile azero. Naturalmente i due governi si accusano reciprocamente di aver violato per primi il cessate il fuoco. Le truppe azere avrebbero bombardato la città di Byrd nella regione Tavush, gli armeni avrebbero attaccato un villaggio sui confini, Dondar Gushgsghu.
Foto della cittadina di Tovuz, teatro degli scontri
La regione di Tovuz nell’Azerbaigian è lontana dai tradizionali punti di contatto tra i due eserciti, ma pare diventata un “hot spot” di forti scontri tra le due forze, segno che potrebbe cambiare qualcosa nella strategia armena di coinvolgimento di terze parti nel conflitto.
In questa foto del 16 luglio una donna di fronte alla sua casa danneggiata dai bombardamenti delle truppe armene
Soldati armeni ai confini dell’area contesa
Vi sono state, come al solito, rituali richieste di fermare gli scontri.
Ma le grandi potenze non si impegnano troppo per una soluzione permanente, salvo intervenire a chiedere il cessate il fuoco quando le rivalità sfociano in scontri armati. L’Azerbaigian, lo stato sconfitto negli anni Novanta del secolo scorso, è incentivato a dar vita a un nuovo conflitto, mentre l’Armenia sarebbe interessata a fissare lo status quo che preservi i territori guadagnati nel primo conflitto. Nel frattempo, i due belligeranti si lanciano reciproche accuse di pulizia etnica in un territorio in cui avevano in verità per secoli convissuto armeni e azeri.
Ovviamente anche questioni storiche o etniche e religiose (gli azeri sono mussulmani, gli armeni sono Cristiani) contribuiscono a rendere distanti i due paesi, i cui capi puntano molto sull’orgoglio nazionale e accusano l’altro di massacri. Come molti altri confitti in corso tra confinanti, anche questo ha profonde radici nelle società dei paesi in guerra. Vicende storiche tragiche sono da entrambi i lati ricordate per giustificare la rivalità. L’Armenia ricorda il progrom del 1988 a Sumgayt (polo chimico dell’Azerbaigian) in cui furono massacrati 26 armeni e tutti gli armeni presenti cacciati. Viceversa, gli azeri ricordano il massacro compiuto da forze armene nel febbraio 1992 nella cittadina di Khojaly, in cui furono uccisi oltre cinquecento azeri. Da allora vi è stato un esodo di armeni dall’Azerbaigian e di azeri dall’Armenia.
Questo favorisce le spinte nazionaliste, cavalcate soprattutto dal presidente dell’Azerbaigian, Aliev.
Manifestazione nazionalista a Baku a favore della guerra, 14-15 luglio 2020
Cosa può accadere ora? Intanto, occorre segnalare i pericoli per la popolazione civile, sparsa in centinaia di villaggi, e costretta a vivere in modo precario e senza alcuna prospettiva di sviluppo economico. Ma soprattutto vi è la questione di dove far passare i gasdotti e le pipelines che portano gas naturale e petrolio dall’area del Caucaso all’Europa, via Turchia. Se l’area è turbolenta, sarà necessario bypassare quel territorio, generando nuovi interessi strategici ed economici.
La questione non è più solo locale o tra due stati del Caucaso, ma è diventata una questione internazionale e di disputa tra le potenze mondiali con interessi rilevanti nell’area
Diagramma delle forze in gioco
Nel 2018 vi un una speranza di riappacificazione con un incontro tra il primo ministro armeno, Pashinyan, e il presidente azero Alijev, ma non vi fu un seguito operativo. Le proposte di riduzione dell’impegno militare non trovarono applicazione anche per le reciproche spinte nazionalistiche.
La Russia tentenna non volendo inimicarsi una delle due parti. Gli altri due sono vicini ingombranti, Iran e Turchia. Quest’ultima vorrebbe un accordo ma deve sostenere l’Azerbaigian, anche se la soluzione pacifica riaprirebbe la possibilità di un corridoio più corto per il petrolio tra Caspio e Turchia. Inoltre, un avvicinamento con l’Armenia potrebbe riaprire le relazioni diplomatiche tra i due stati, interrotte nel 1993 per il sostegno dato agli azeri nella guerra. Ma in questo caso andrebbe contro l’Azerbaigian.
Di fatto la disputa sul Nagorno-Karabakh è diventata una non priorità, o almeno una priorità di secondo ordine, specie per gli Usa, che si barcamenano tra relazioni con Yerevan (non scordiamo il ruolo della potente lobby armena nel Congresso americano) e con Baku (che ha sostenitori nelle alte gerarchie militari e nelle aziende petrolifere americane). L’Unione Europea come attore internazionale è debole anche in questo caso: situazione aggravata dal fatto che un membro UE, la Francia, è uno dei tre componenti del Gruppo di Minsk, che dovrebbe operare per la pace nell’area, ma che di fatto non ha ruolo nel braccio di ferro tra Russia e USA. Anche se l’esperienza maturata dalla UE nei Balcani potrebbe essere utilizzata.
Siamo in presenza di un conflitto insolitamente restio a trasformarsi, anche solo in modo incrementale, attraverso l’eliminazione delle barriere fisiche e il consolidamento di una reciproca fiducia. Permane una narrazione di divisione storica e di difesa dell’identità nazionale. In ogni caso le popolazioni coinvolte vivono in uno stato di permanente insicurezza e di poca speranza e fiducia nel futuro.
Più che l’abusata espressione di “soluzione del conflitto” bisognerebbe operare per una “gestione (management) del conflitto” in grado di portare ad una “trasformazione del conflitto” che coinvolga le due società dal loro interno, più che affidarsi ai rispettivi leaders.