Mucche, populisti e partito nuovo

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 27 novembre 2017

Oggi Massimo Giannini su Repubblica parla di “segni di un’inquietante stanchezza democratica”. Arriva ultimo. Di mucche nel corridoio si parla da molto e molto tempo, vederle solo ora è segno di cecità. Tant’è vero che il punto adesso non è fare l’ammucchiata di centrosinistra, che poi sarebbe (ed è) un affastellamento di ceto politico alla ‘si salvi chi può’. Una tale ammucchiata disordinata e di intento solo elettorale, ingigantirebbe la mucca invece di toglierla di mezzo. Anche perché la sua presenza e le sue dimensioni dipendono molto dalla cattiva immagine che la politica ha dato di sé: lontana dalla società, povera di rappresentanza, pronta a verticalizzare il proprio potere in termini maggioritari, più attenta agli equilibri politici che a quelli sociali. Ammucchiare alla rinfusa il grano e la zizzania adesso vorrebbe dire quasi confermare il peggio detto anzitempo, da cui deriva una parte consistente del giudizio critico sempre più espresso dai cittadini.

Il teatro politico è zeppo, quasi saturo di populismi. Di destra e di sinistra. Caporioni politici e truppe fedeli che puntano solo a costruire un rapporto col proprio ‘popolo’, anzi col Popolo tout court, in nome del quale ognuno si sente legittimamente autorizzato a parlare. Un rapporto ‘commerciale’, peraltro, ridotto a elargizioni e regalie, a bonus e promesse di sconti e condoni. Lasciando i cittadini in uno stato di minorità tale che, quando va bene, vanno a votare disincantati, quando va male snobbano del tutto le urne. C’è un solo modo per spostare da lì la mucca, e sgomberare il corridoio. E non è certo quello di foraggiarla col populismo d’accatto e la demagogia fatta coi soldi pubblici. Ma è quello di ristabilire un rapporto con la società, e non con un generico ‘Popolo’, categoria buona per chi vuole fare sintesi alla bene e meglio della ricchezza e molteplicità sociale, a uso comunicativo e propagandistico. Società che è composta di soggetti, classi, ceti, categorie e persino singolarità. Società di diseguali: ricchi e privilegiati di contro alla disperazione degli ultimi. Questa è la platea che, se opportunamente sollecitata e compresa, può scansar via la mucca invece di portare in casa l’intera mandria.

C’è un gap politico che fa il paio con quello sociale, e vi si sovrappone: l’abisso tra istituzioni e società si somma e si accatasta a quello delle disuguaglianze sociali. Questo è il vero punto su cui intervenire, e che in questi anni si è ingigantito. Pensate al famoso milione di posti di lavoro a cui accenna sempre Renzi copiando Berlusconi. Gli oltre venti miliardi di euro di sgravi buttati a corpo morto sulle imprese hanno prodotto il 93,3% di precarietà contro il 6,4% di posti a tempo indeterminato (che la cancellazione dell’art. 18, peraltro, trasforma in posti a licenziamento libero e indennizzato). La categoria dei lavoratori precari si è espansa a macchia d’olio e oggi forza i limiti proprio di quel ‘Popolo’ rassicurante a cui i populisti sentimentalmente ed emotivamente si appellano per pigrizia culturale o per mera propaganda.

Prima o poi scriverò un post ‘contro il Popolo’. Contro questa categoria abusata, questa sintesi fasulla del magma sociale, e che è utile solo a chi vuole camuffare le faglie e le contraddizioni che attraversano il Paese e che producono conflitti su cui si è esercitata la cecità di chi ha occupato Palazzo Chigi in questi anni. Non esiste un popolo, ma soggetti sociali e classi. Non esistono semplici cittadini, ma cittadini che sono anche lavoratori, disoccupati, precari, giovani, donne, anziani, studenti, pensionati. Sono questi gli attori effettivi, e non il format edulcorato dei populisti, non la massa grigia e indifferenziata a cui il Capo ideologicamente si rivolge, tentando di modificarne la percezione con trucchetti comunicativi e sparate mediatiche.

C’è come un grande vuoto al centro del nostro Paese (e forse della politica mondiale), che non è riempibile con le manovre astratte, oppure occupandone la consistenza con categorie altrettanto grigie (come Popolo, appunto). Un grande vuoto che è frutto della crisi della rappresentanza, e ancor prima di una povertà sociale e culturale, e di una visione politica tutta sotto specie comunicativa o emotiva. Se teatro deve essere, cambino allora per primi gli attuali attori, non solo il copione. Non più i quattro menestrelli populisti che occupano la scena, ma le figure sociali accanto a chi tenta di rappresentarne politicamente l’attuale debolezza, in vista di una rinnovata ‘forza’. Non siamo di fronte a una crisi di autorità; o meglio, l’autorità è solo un termine derivato da quello di ‘rappresentanza’: si tratta di rafforzare questa per rifondare quella. Nuova ‘rappresentanza’ è ‘comprendere’ la complessità sociale mediante una rinnovata ricchezza della proposta politica e organizzativa. Questo deficit di ‘comprensione’ è il vero dilemma dei nostri giorni. Una nuova sinistra unita, un partito nuovo del lavoro, della cultura, della democrazia sarebbe la prima pietra di un edificio davvero imponente da progettare e da realizzare.

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1 commento

michelecaccavone 28 Novembre 2017 - 10:10

A proposito della categoria di “popolo” trascrivo l’afferamzione di Massimo Cacciari a “Otto e mezzo” del 23/10/2017 che io condivido totalmente: “Il populismo letteralmente vuol dire ‘ritenere che il popolo esista e che sia un ente di ragione’. E invece il popolo non esiste. Esistono interessi determinati, soggetti determinati, culture determinate. Il populismo invece è la pretesa di rappresentare tutte le parti e non di cercare un accordo tra loro”

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