Fonte: l'Espresso
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di Gianfrancesco Turano e Alberto Vitucci , 6 febbraio 2017
Le dighe mobili per la difesa della città lagunare somigliano sempre di più a un rottame: l’Espresso anticipa la perizia commissionata dal Ministero delle Infrastrutture. Il documento rivela il pericolo di cedimenti strutturali per la corrosione e per l’uso di acciaio diverso da quelli dei test
Non serve essere ingegneri. Non serve nemmeno avere giocato al Meccano da bambini per capire l’effetto devastante di un documento intitolato “possibili criticità metallurgiche per le cerniere del Mose”. Sono nove pagine firmate da Gian Mario Paolucci, già docente di Metallurgia all’università di Padova. Il rapporto è stato commissionato dal provveditorato alle opere pubbliche di Venezia, braccio operativo del Ministero delle infrastrutture.
L’Espresso è in grado di anticipare i contenuti di un testo che rivela nero su bianco per la prima volta i vizi strutturali delle dighe mobili contro l’acqua alta a Venezia.
I problemi visti finora nelle sperimentazioni, dalla paratoia che non si alza alla proliferazione dei “peoci” (cozze, in veneziano) e parassiti vari sul Mose, sono folklore. Un folklore molto caro, perché richiede extracosti nella manutenzione di un’opera che già in fase di realizzazione ha fatto spendere allo Stato 5,5 miliardi di euro rispetto agli 1,6 miliardi previsti. Ma le criticità denunciate da Paolucci vanno molto oltre l’aspetto finanziario.
La corrosione elettrochimica dell’ambiente marino, come altri tecnici avevano annotato durante i tre decenni dalla prima inaugurazione del prototipo in pompa magna a Riva degli Schiavoni (1988), sta già imponendo un dazio pesantissimo e forse irreparabile sulle parti metalliche saldate ai cassoni in cemento alle quattro bocche di porto della laguna.
Le cerniere del Mose, il meccanismo che collega la barriera mobile alla base in cemento, sono ad altissimo rischio (probabilità dal 66 al 99 per cento) di essere già inutilizzabili. Ripescarle per sostituirle o ripararle è di fatto impossibile. In ogni caso, sarebbe costosissimo.
Qualche passo scelto del documento?
«C’è la seria probabilità che la corrosione provochi danni strutturali e dunque il cedimento della paratoia».
«Abbiamo l’assoluta convinzione che la protezione offerta dalla vernice non sia totale».
La mazzata finale sull’opera da 5,5 miliardi di euro, che il ministro Graziano Delrio vuole inaugurare a giugno del 2018, arriva a pagina cinque.
«Il connettore femmina, dal quale dipende il funzionamento delle barriere mobili, costituisce l’anello debole dell’apparato a causa di un mancato controllo ispettivo per la sua intera vita di 100 anni, a meno di una laboriosa e costosa manutenzione straordinaria. Inoltre, la necessità di effettuare tale manutenzione verrebbe segnalata da malfunzionamenti causati da danni ormai avvenuti e talvolta irreparabili. Cioè, quando è troppo tardi. In questo caso, l’unica cosa da fare è sperare che i danni che certamente si saranno verificati sui connettori femmina di Lido, San Nicolò, Malamocco, Chioggia, siano contenuti».
La parola speranza ricorre un’altra volta nel documento. È una parola meravigliosa in molti contesti, ma poco rassicurante se applicata a un’opera di ingegneria idraulica concepita per proteggere una città patrimonio dell’umanità, non per minacciarla e neppure per distribuire mazzette gonfiando costi, com’è accaduto.
E a proposito di preventivi gonfiati, il rapporto del professor Paolucci fa scattare più di un allarme. Durante la fase di sperimentazione, i componenti delle cerniere erano fabbricati con materiali di qualità migliore rispetto a quelli impiegati nella produzione di serie.
Il perno di rotazione sottoposto ai test di laboratorio, per esempio, era fatto di ottimo acciaio prodotto dalla Valbruna di Vicenza e lavorato dalla Focs Ciscato di Velo d’Astico. Invece i perni di serie da installare nelle quattro bocche di porto provengono da impianti dell’Europa dell’Est e presentano una lega diversa da quella del prototipo.
Acciaio depotenziato? La risposta spetta ai tre commissari governativi (Luigi Magistro, Francesco Ossola, Giuseppe Fiengo) in carica da due anni alla guida del Consorzio Venezia Nuova (Cvn), dopo la tabula rasa decisa dal governo sul tavolino di imprese private che si sono spartite i fondi della legge speciale con un uso sistematico di corruzione.
Il processo penale ha stroncato la carriera politica del forzista Giancarlo Galan, governatore regionale per 15 anni e poi ministro, del potente ex assessore Renato Chisso, in un primo tempo confermato da Luca Zaia, e ha coinvolto personaggi del calibro di Altero Matteoli, senatore che ha guidato i ministeri dell’ambiente e delle Infrastrutture, e dell’ex sindaco Paolo Orsoni, accusato di finanziamento illecito e non di corruzione come gli altri.
Guadagnare sott’acqua
La perizia del professor Paolucci è stata ordinata da quello che una volta si chiamava Magistrato alle Acque (Mav), in onore della tradizione antica della Serenissima. Il governo di Matteo Renzi lo ha derubricato a provveditorato alle opere pubbliche dopo lo scandalo delle tangenti del Mose, in onore della tradizione moderna per cui se si cambia nome a un problema il problema è risolto.
I lavori sulle cerniere del Mose sono stati affidati dal Cvn alla Fip di Selvazzano (Padova). L’impresa appartiene al gruppo Mantovani della famiglia Chiarotto, principale azionista del gruppo di aziende riunite nel Consorzio, presieduto da Giovanni Mazzacurati.
La realizzazione delle cerniere è stata affidata alla Fip senza gara superando dubbi e critiche di alcuni tecnici che propendevano per le cerniere fuse, più resistenti e durature, invece delle cerniere saldate prodotte dalla Fip. Alcuni tecnici che avevano espresso critiche sono stati allontanati sotto la gestione Mav di Patrizio Cuccioletta, poi accusato di corruzione.
Fino al blitz della Procura, il braccio operativo della Mantovani su incarico del patriarca Romeo Chiarotto è stato Pier Luigi Baita. L’ingegnere veneziano, collaborando con i magistrati dopo l’arresto, ha consentito di scuotere un sistema di potere messo in piedi durante la Prima Repubblica, circa un quarto di secolo prima, e rimasto intatto sotto i governi di qualsiasi orientamento.
Oggi Baita è stato messo da parte e i Chiarotto lo hanno sostituito con l’ex questore Carmine Damiano nel tentativo di scaricare la presunta mela marcia e continuare a fatturare con il Mose. L’affare delle dighe mobili ha trasformato la Mantovani in un gruppo di prima grandezza a livello nazionale, anche se non sempre è andata bene fuori dal Veneto, come si è visto nell’inchiesta sulla piastra per l’Expo 2015 che ha coinvolto l’impresa padovana.
Ma il Mose vale molto di più dell’Expo. Rende in termini di forniture per la costruzione e continua a rendere una volta inaugurato, perché promette altri guadagni con la gestione e la manutenzione, in una banda di oscillazione ancora indefinita tra i 50 e gli 80 milioni di euro all’anno. Nelle previsioni iniziali dovevano essere 20 milioni di euro.
I tre commissari del Consorzio hanno sempre detto che la gestione non andrà in automatico ai costruttori. Di fatto, nel breve termine e con i pasticci tecnici già in corso, non ci sono alternative. E bisogna ricordare che un’altra importante mossa strategica dei commissari governativi, cioè il congelamento dei profitti alle imprese del Cvn in attesa delle decisioni della giustizia, è stata vanificata da una sentenza dell’immancabile Tar del Lazio.
Insomma, se il Mose funziona, bene. Se non funziona, meglio perché ci sarà più manutenzione da fare. Resta sempre più attuale la frase-simbolo coniata dallo spirito brillante di Baita. «Il bello del Mose è che i lavori si fanno sott’acqua».
Certo, se non funziona affatto o produce danni al delicatissimo sistema lagunare invece di tutelarlo, la questione diventa imbarazzante. La bella opacità dei lavori rischia di trasformarsi in incubo.
Connettore malafemmina
La perizia Paolucci è scritta in modo da essere comprensibile a chiunque e forse proprio la semplicità delle osservazioni è l’accusa più pesante: se un profano può capire il problema, come mai i superesperti non lo hanno capito prima? Ma vediamo di che si tratta.
Il Mose è formato da tre parti principali: i cassoni di ancoraggio in cemento, sprofondati già da mesi alle bocche di porto, le cerniere e le barriere mobili, pronte a sollevarsi per sbarrare la strada all’acqua alta.
Per proteggere la struttura dalla micidiale corrosione sottomarina ci sono due sistemi: la verniciatura e la protezione catodica.
La verniciatura è soggetta a degrado, scheggiature e danni causati da sabbia e detriti che già si sono verificati. La protezione catodica si realizza attraverso un contatto elettrico con anodi di zinco che si corrodono al posto del ferro e periodicamente vanno sostituiti.
Le cerniere, la parte più delicata, sono dotate di un connettore maschio e di un connettore femmina, due giocattolini da 10 e 26 tonnellate rispettivamente. Il primo è applicato alla barriera e il secondo al cassone.
«Paratoia e connettore maschio possono essere riparati e riverniciati con conseguenze solo finanziarie. Il vero problema è il connettore femmina che dovrebbe durare 100 anni senza subire alcuna manutenzione», dice la perizia.
Purtroppo, i connettori femmine sono stati tutti inseriti nei cassoni ma «a eccezione di quelli di Treporti, non sono protetti catodicamente perché mancano le relative paratoie dove alloggiano gli anodi di zinco».
Il monitoraggio, peraltro, non è stato realizzato neanche a Treporti, dove sono state applicate le paratoie. Nessuno sa se la protezione sia attiva almeno lì.
L’esposizione del connettore femmina («anello debole dell’apparato») alla corrosione a Lido, Malamocco e Chioggia è dovuta ai gravi ritardi nella posa delle barriere che dovevano essere inserite con la nave jack-up, costruita da Comar (Mantovani, Condotte, Fincosit) su progetto Tecnital-Fincosit.
Monumento allo spreco da 50 milioni di euro, il jack-up non è mai stato collaudato e giace alla fonda all’Arsenale mentre le dighe vengono applicate con metodi più vecchi, e più lenti.
Processo verso la prescrizione
Oltre a Galan, Baita, Mazzacurati, Orsoni, l’inchiesta penale ha colpito anche il reparto tecnico del ministero delle Infrastrutture, chiamato a vigilare e non soltanto a distribuire incarichi di collaudo per milioni di euro a professionisti e dirigenti statali.
I predecessori dell’attuale magistrato alle acque, Roberto Linetti, entrato in carica lo scorso novembre, sono finiti tutti sotto processo. Patrizio Cuccioletta ha patteggiato una condanna a due anni e la Corte dei conti gli ha appena chiesto 2,7 milioni di danno erariale oltre ai 750 mila euro già versati al tribunale penale. Un altro Magistrato alle acque, Maria Giovanna Piva, è ancora a giudizio. A parte i circa quaranta patteggiamenti, il giudizio contabile potrebbe essere presto tutto quanto rimane della maxi-inchiesta sul Mose e sui manager del Consorzio che sono costati 32 milioni di euro negli anni dal 2005 al 2013. Il record è di 3,2 milioni di emolumenti e lo ha stabilito Mazzacurati nel 2009 cumulando le cariche di presidente e di direttore generale. I tre commissari in carica oggi guadagnano 700 mila euro all’anno in totale.
Il processo penale di primo grado per chi non ha patteggiato potrebbe concludersi in tempi brevi, forse nelle prossime settimane. Ma in appello, a partire dal settembre 2017, scatterà la prescrizione. Fra i salvati, ci saranno Baita, Claudia Minutillo, prima segretaria di Galan e poi manager di Adria infrastrutture (gruppo Chiarotto), e lo stesso Mazzacurati, che non è mai stato nemmeno rinviato a giudizio.
L’ex presidente del Consorzio, trasferitosi in California, a quasi 85 anni non sarà in grado di partecipare al dibattimento nemmeno come testimone, essendo colpito da una grave forma di demenza secondo il medico legale Carlo Schenardi. È la conclusione tragica di un’epopea che è nata e rimane sotto una cattiva stella.