Fonte: IlSudEst,it
di Marianna Sturba – 27 agosto 2018
Abbiamo creduto che l’incendio della fabbrica Triangle, avvenuto a New York il 25 marzo 1911, che causò la morte di 146 operai, ci avesse spiegato qualcosa.
Pensavamo di aver imparato la lezione quando a Bollate, il 7 giugno 1918, morirono 59 operai della fabbrica di munizioni ‘Sutter&Thévenot’.
Per non parlare di quanto ci fece arrabbiare e riflettere il disastro di Marcinelle che l’8 agosto 1956, nella miniera di carbone del Bois du Cazier, condannó a morte 262 lavoratori, di cui 136 italiani.
Negli anni il numero di morti bianche, o omicidi del lavoro, come si inizió a chiamarli negli anni ’70 per rimarcare le responsabilità dei sistemi di produzione delle economie industrializzate a causa della scarsa attenzione che si era spesso posta nei confronti della sicurezza, è andato via via diminuendo non arrestando mai del tutto la propria incidenza statisticamente pesante.
Negli ultimi anni tra gli stati membri, i tassi di incidenza più bassi sono stati registrati nei Paesi Bassi (0,8 per 100.000 lavoratori), Svezia (1,2), Germania (1,3), Danimarca (1,4), Cipro (1,5) e Regno Unito (1,6), mentre i più alti si sono avuti in Romania (7,5), Portogallo (4,6), Lussemburgo (4,4), Bulgaria e Lituania (4,3 ciascuno). L’Italia, oggi, si trova a metà strada rispetto agli altri Stati membri superando comunque la media Ue: oltre 3 morti ogni 100.000 lavoratori.
In questo 2018 il maggior numero di morti bianche si è avuto nel Nord Italia, in particolare in Lombardia (61), Veneto (48) e Piemonte (39). L’Inail rileva inoltre un aumento degli incidenti che hanno coinvolto lavoratori stranieri: dai 50 del 2017 si è passati a 65 nella prima parte del 2018. Per ora siamo già a 469 morti totali. In queste rilevazioni non si tiene conto di tutti gli incidenti che avvengono nelle zone “grigie” della manovalanza clandestina che sfuggono a classifiche e controlli, e che aumenterebbero in modo esponenziale i numeri di questa strage.
Solo negli ultimi giorni: un portuale schiacciato da un carrello elevatore a Marina di Carrara, un elettricista folgorato nell’Aretino, un operaio caduto da un tetto nel Frusinate e uno investito dallo scoppio di un tubo in una stazione in provincia di Vibo Valentia.
Di chi è la colpa?
La Cgil di Massa afferma: “Mancano le norme di sicurezza”, ma non si può credere che il problema risieda nell’assenza di norme, anzi le normative Italiane sono specifiche per ogni settore e ben articolate.
Il problema vero risiede nei costi della sicurezza.
Perché la sicurezza costa, la valutazione dei rischi costa, il materiale per tutelare i lavoratori costa. Per capire quanti e quali rischi vi siano e come si possa abbassare la possibilità di incidente, fino ad avvicinarsi il più possibile all’ “incidenza zero”, occorre tempo e professionalità e queste due voci, costano.
Un operaio legato per non precipitare da un tetto, lavora più lentamente, e il tempo è denaro.
Rispettare delle prassi che mettono in sicurezza il lavoratore, implica tempo, e il tempo è denaro.
In una società veloce, in un mercato affamato, tempi e costi decretando la vita o la morte di una ditta. E spesso la vita o la morte del lavoratore non sono fra le voci di spesa.
A morire di più sono i lavoratori precari, quelli assunti a tempo o quelli assunti da poco tempo.
Perché il lavoro è diventato precario e sui precari non si fa formazione. Perché anche quando si fa, la formazione troppo spesso resta sulla carta e corsi veri non ci sono. Perché le aziende, dopo anni di crisi e di stasi, hanno ricominciato a produrre su macchine e impianti vecchi non ammodernare e non hanno soldi da investire nella sicurezza. Mentre si annuncia l’era dei robot pronti a soppiantare gli operai, si continua a morire in fabbrica.
Anche i controlli sono insufficienti: gli ispettori sono pochi e la probabilità per un’impresa di essere controllata è infinitesimale.
Infine si continua a morire perché, se qualcuno si fa male o muore, difficilmente qualcun altro paga, i colpevoli non saltano mai fuori.
Ricordate ad esempio il caso di Matteo Armellini, trent’anni, muore sul colpo schiacciato su di un palco. Doveva montare le luci per illuminare il concerto di Laura Pausini a Reggio Calabria. Era il 5 marzo del 2012. Il processo va per le lunghe, cambia il giudice, cambiano i Pm. Risultato: dopo sei anni, ancora non si sa di chi sia la responsabilità per quel palco non in regola. La colpa della difficoltà di attribuzione risiede, negli appalti e subappalti che rendono difficile ogni chiarezza.
Quando si leggono questi dati bisogna aprire una riflessione anche sul cosiddetto “fattore umano” che può determinare l’infortunio o la morte del lavoratore, a causa di cattiva informazione, formazione o comunicazione. E come si controlla il fattore umano? Investendo nella formazione, competenza, professionalità, e nella formalizzazione di corrette procedure. Ma anche questo ha un costo.
Infine anche quando il lavoratore è messo in condizione di lavorare in sicurezza, anche quando ha tutto quanto ha bisogno a sua disposizione, muore o subisce infortuni gravi, perché la “legge di mercato” della velocità fa compiere leggerezze all’operatore che, per negligenza non si attiene alle norme. Anche in questo caso la professionalità è il fattore determinante che permette al lavoratore di rimettere al centro le procedure.
Il miglior modo per ridurre gli incidenti sul luogo di lavoro è essere attivi in tema di prevenzione. Un euro speso in prevenzione ne fa risparmiare cento in cure mediche. Ci sono molti modi per prevenire gli incidenti, ma nel momento in cui questi accorgimenti vengono presi occorre essere irreprensibili.
Morti frutto della velocità? Della precarietà? Della mancanza di controlli? Dell’incertezza delle pene?
Lo Stato investe sempre meno in controlli e prevenzione e, a causa del blocco delle assunzioni, gli ispettori delle Asl sono passati da cinquemila nel 2008 a meno della metà. Anche gli investimenti regionali non sono sufficienti quasi nessuna Regione raggiunge la quota del cinque per cento di spesa che per legge dovrebbe essere destinata alla prevenzione negli ambienti di vita e lavoro. Mancano anche gli investimenti che dovrebbero provenire dalle sanzioni provenienti dall’attività ispettiva.
Anche lo Stato sceglie di non tutelare i lavoratori, sceglie di investire in altro, ma continua a raccogliere i dati delle morti ed ad allarmarsi, a sentire l’impotenza data dal “fato” che invece può essere arginato. Anche lo Stato dunque, non solo il datore di lavoro o l’operaio, anche lo Stato si dispiace senza far seguire alla presa di coscienza, azioni di risoluzione reale del problema.