Augusto Monti: La lezione in morte di Cesare Pavese – 1951

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Augusto Monti

LA LEZIONE IN MORTE DI CESARE PAVESE

di

Augusto  Monti

Questa di stasera non è una commemorazione, genere che non piace a Geno Pampaloni, e non è una conferenza, genere che non piace a me; è una lezione. Una lezione come quelle che facevo al liceo, e fra gli scolari sedeva Cesare Pavese: lezione di letteratura italiana, cioè di storia d’Italia con l’accento sul fatto letterario. Solo che allora il programma si fermava come storia alla grande guerra (’15-’18), come letteratura a Verga e a D’An­nunzio; adesso-· stasera- il programma giunge fino ad oggi 1950 e l’autore

di cui si tratta è Cesare Pavese, e le pagine della lectio = lettura, son tratte dalle ultime due opere di questo autore, La bella estate, La luna  e i falò. Lezione dunque ma com’eran quelle lezioni là,  in  cui l’insegnante  stu­diava –   ristudiava –  la materia con i suoi auditores, i suoi scolari, per i suoi scolari, e per sé.

Comincia dunque la lezione. È un tentativo. Cesare Pavese – Date della sua vita: 1908 – 1950.

Avvenimenti  storici di quel periodo.  Dal  1908  al 1915,  l’età  che prende il  nome da Giolitti,  gli anni che ora si chiamano felici; gli anni in  cui l’Italia

  • e l’Europa, e il mondo – raccoglievano i frutti di un cinquantennio  di pace, frutti di benessere economico e di viver civile; gli ultimi frutti prima  del gelo. Come in montagna una cornice – credo si chiamino così – sopra ghiaccio  compatto  magari  roccia,  e sotto  è l’abisso.  Dal  ’15  al ’18, guerra;

 

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la frattura fra due epoche; guerra finita col crollo dei tre pilastri dell’antico regime: Impero degli zar, Impero degli Hohenzollern, Impero austro-unga­ rico; in luogo della Russia zarista l’U.R.S.S. – intorno all’U.R.S.S. un reticolato di armi prima, di diplomazie  e dì ideologie dopo- un avvampare di esaltazioni e di speranze – e di odì -. Poi… Fascismo  1922-1939:  il fascismo che, agli effetti del nostro studio, ora dev’essere considerato soprat­ tutto come « cesarismo » – come napoleonismo – cioè come movimento politico e militare insieme, reazionario insieme e rivoluzionario o perlomeno sovversivo, ma soprattutto come movimento che sì riassume in un uomo avventuroso e pittoresco ingallonato e montato a cavallo. Fascismo cioè Resistenza: la dialettica non è un’opinione; Resistenza  che è l’altra  faccia, per fortuna, di quella medaglia che fu il ventennio; Resistenza la cui storia notoriamente comprende due periodi, quello della resistenza disarmata civile e quello della resistenza armata prima del ’43 (Spagna) e dopo; resistenza in cui si distinguono anche due moventi, o tre: resistere pensando al passato, resistere pensando al futuro, resistere pensando ad un futuro non ignaro né incurante del passato. Dal 1939 al 1945 grande guerra  con  tutti gli orrori delle più orrende  guerre  che  sono –   come  ognun  sa –   le guerre  religiose e le civili: guerra in cui  l’ìmbestiamento  nazifascista  e  le  congiunte reazioni dei bombardamenti indiscriminati e atomici  han riportato l’umanità ai tempi di Attila, di Gengiskan, e han creato a tratti nel mondo un’atmosfera da alto medioevo. Dal 1945 al 1950: ’45: Liberazione: attimo d’esultanza generale, speranza di palingenesi,  di rinnovamento,  di giustizia,  di libertà, di pace, cioè di attuazione del programma della Resistenza;  ‘5o,  processo alla Resistenza, rinascita di fascismo, guelfismo – medioevo, ripeto –  la guerra che bussa alle porte.

Aspetti culturali del periodo compreso fra le due date della vita del

Pavese: 1908-1950 con particolar riferimento- sempre- a quelli che abbian comunque influito sulla formazione dello scrittore. Qui un’avvertenza: let­teratura italiana d’oggi è una materia che non ho mai insegnata, e che quindi non conosco bene: ci saran delle lacune nella mia esposizione, mi sfuggi­ ranno magari degli errori, compatitemi e correggetemi voi.

Dunque: cosa trova Pavese nella scuola e nei dintorni della scuola nei tempi in cui si formava spiritualmente, che cosa trovarono i giovani italiani, figli di borghesi in quei paraggi circa il 1922? Sedimenti dell’età positivistica anzitutto in liceo e università – filosofia, date, fatti – ravvivati, rin­ verditi direi dallo zefiro dell’idealismo migliore, quello che assorbe il meglio dell’età antecedente –  scrupolo, indagine,  ricerca, esattezza –   e dà un senso ai « materiali », uno scopo a quell’esercizio: la costruzione della storia. Il positivo della loro preparazione è tutto qui. Fuori della scuola trovarono ancora il D’Annunzio, benché  in  stato di  avanzata  decomposizione, e non  si sottraggono al suo fascino di decadente. Insieme e più influisce su di loro Giovanni Gentile che l’ha rotta definitivamente oramai col maestro e porta all’estreme conseguenze del panlogismo quel superamento dei dualismi che costituisce il vanto e il tormento dell’idealismo storicistico, ma che frattanto porge al trionfante regime – per quel che gli va e gl’importi – una giustifi­cazione filosofica o quasi. L’idealismo storicistico insieme aveva portato e portava, in reazione sempre alle antecedenti antagonistiche correnti, a una riabilitazione delle età reazionarie: restaurazioni, controriforma, barocco, a una rivalutazione dell’età romantica, e quindi a un ripensamento del nostro Risorgimento e del congiunto liberalismo; in pari tempo rivelava ai giovani che il socialismo non dipendeva dal positivismo e dal democratismo, che Marx aveva civettato con Hegel, e che quindi il comunismo era ancora

« ben portato » in tempi di coltura idealistica storicistica.

Gli ultimi lazzi del futurismo, cubismo e razionalismo in pittura, archi­tettura, arti applicate, concorrevano a formar  un  gusto, una moda, uno stile se vogliamo,  a cui si dava  il  nome  di  « novecento », che diveniva  un po’  lo stile «ufficiale» del fascismo e l’impronta  dell’epoca.  Il  «novecento» aveva riflessi anche in letteratura e, se non erro, l’ermetismo ci si ricon­ netteva, non in quanto anche alessandrinismo e antologia palatina, ma in quanto era asciutto, lineare, schivo di esuberanze e di svolazzi. Naturalmente gli eccessi e l’ufficialità del ‘900 avevano l’effetto – insieme col predetto ripensamento  storicistico  dell’età liberale –  di  riportar  in  onore il  primo e il medio ottocento, o rivisto in forma lievemente caricaturale o addirittura aureolata di nostalgia. Era l’epoca del Selvaggio, dell’Italiano, e delle rievoca­ zioni del Monti e del Bacchelli, del Palazzeschi, ecc. Questa antitesi riportata al contemporaneo era quella che dava origine alla diatriba lettei:aria durata allora qualche anno fra Stracittà e Strapaese, intendendosi per Strapaese com’è noto il locale l’umile il dimesso il folcloristico – Ttttta Frusaglia

il realismo, e per Stracittà l’ultramodernismo, il novecento in tutti i suoi aspetti magismo, pirandellismo, deboscia, Indifferenti, eccetera. Ed è qui che cade in acconcio il discorso sull’americanismo, cioè sulla fortuna che ebbe

– e ha in parte tuttora – tutto quello che l’America importa fra noi: lette­ ratura, cinematografo, jazz e negrismo, business e dollari. In quel che ebbe di più sano questa infatuazione fu scoperta  e studio di quella letteratura da Walt Whitman a Melville, a Jack London a Hemingway, e di quella civiltà e fu soprattutto ammirazione e culto della novissima musa – iJ cinemato­ grafo –  per cui parve ai giovani- e così era in parte- di tornare  ai tempi in cui l’antica Grecia inventava dal nulla il teatro, la poesia, la musica, espres­ sione di una mirabile giovinezza e primavera di popoli. D’altra parte questa americomania mentre era un aspetto di quell’interesse e curiosità per le letterature straniere che il nostro deteriore romanticismo novecentesco ebbe in comune col suo più nobile antecessore d’un secolo prima, era anche col restante esotismo un modo di reagire alla propaganda per il « prodotto nazionale » che il regime andava facendo nel paese.

Onde estendendo l’indagine si può oggi concludere che il fascismo influì sugli scrittori italiani del suo tempo, sui giovani,  piuttosto  negativamente che positivamente. La letteratura italiana del tempo accettò tuttalpiù dal fascismo quel fare scanzonato e casermesco, quel « menefreghismo » con cui si trattavan tutti gli argomenti anche i più seri, e che era, a suo modo,. anch’esso una reazione al tono retorico e tribunizio delle manifestazioni ufficiali del tempo. Del  resto  tutta la letteratura  più accettabile  del tempo  fu di reazione al bigottismo e al gladiatorismo dell’eloquenza e della pubbli­ cistica  governativa,  al rider  di tutto e di  tutti degli umoristi (da  Campanile a Marotta), al « municipalismo » e « paesanismo » con cui si reagiva aìle esagerazioni unite fino al sottile estenuamento e alle sibilline alambiccature.

di certa parte dell’ermetismo già ricordato, fino a certe perduranti pose di surrealismo e di astrattismo cui gli artisti rifiutandosi di « impegnarsi » in assoluto – cioè di far i conti con la realtà immediatamente circostante – si rifiutavano di fatto d’impegnarsi nel senso voluto allora – e  poi –  dai  padroni, dai mecenati.

L’idealismo in genere, quello assoluto in particolare, aveva come s’è detto instaurato il regno dell’irrazionale, dell’alogico, incoraggiata l’esalta­ zione della volontà e degli istinti, altra nota di questo romanticismo nove­ centesco: la guerra, le guerre, la rissa  civile,  riportando  a fiore  gl’impulsi più elementari e ferini, risvegliando insomma nell’uomo  la  bestia,  aveva fatto il resto in quel senso; la tarda fortuna di Freud e delle sue  dottrine offriva a quell’imbestiamento, a quel cannibalismo, a quel trogloditismo una impalcatura e una documentazione  pseudo-scientifica  rimettendo  in  onore in certo modo un’antropologia ed etnografia che agli anziani ricordava il lombrosianesimo di fine ottocento, ma non aveva di quella i generosi moventi sociali ed umanitari. Ai giovani il freudismo era ricco di suggestioni, com­ baciando esso con la curiosità sempre sveglia nei ragazzi –  e quei giovani eran  ragazzi  a  trenta,  a quarant’anni –   verso il preistorico,  il  trogloditico, il cannibalesco, il misterioso del totem e del tabù.

Superfluo – e forse  moralistico –  alludere  all’incoraggiamento offerto d.al freudismo alla dissoluzione d’ogni vincolo e d’ogni freno ai più ciechi

,e inconfessati istinti in quel crepuscolo di moralità che fu il ventennio; e l’aurora ancora non se ne scorge.

Il freudismo, pur essendo difatto in parte un collaboratore dell’idealismo, ne era di proposito un antagonista. Un alunno invece, a rigore, dell’idealismo, fu quella diciamo cosi filosofia che si chiamò  esistenzialismo, e a cui furono e sono devoti sull’esempio straniero molti dei nostri più recenti scrittori. L’idealismo poneva fra l’altro all’uomo  l’imperativo  del  « sii  quel  che  tu sei », cioè sii uomo, non uomo d’una generica e astratta e antistorica umanità, ma quest’uomo, di questo luogo, di questo mestiere, di questo tempo, di , questo  minuto;  con ciò concretava  l’uomo .e il suo agire, ma con i  concetti della storia, della indefinitività del sapere, e della circolarità lasciava l’uomo nel flusso della vita e lo ancorava e lo eternava: lo salvava.

L’esistenzialismo, riducendo la vita allo jetzt und hier, allo hic et nunc, cioè tagliando i ponti col passato e con l’avvenire, riducendo tutta la vita al duro sconfortato intollerabile presente condannava l’uomo al più reciso isolamento, lo immergeva nell’angoscia di questo vuoto e gli lasciava per salvezza la scelta fra il suicidio o il rendersi- per paura e disperazione- a un qualunque Dio, era quello che ci voleva come viatico spirituale per una gioventù  per  cui la storia d’Italia era cominciata nel ’22 e finiva per una parte il ‘2 5 di  luglio, per un’altra con la odierna rinascita del fascismo.

Ma le vie del Signore  son  molte,  e la lancia  d’Achille ferisce  e risana, e i veleni sono anche talvolta delle medicine: dagli estremi mali potevan venire all’arte e all’umanità i rimedi. Il freudismo  con certe  sue incursioni nei regni della poesia classica – ricordate i complessi  edipici  a proposito della naturale incestuosità d’ogni nato da donna – riportava  alcuni  dei giovani alla ricerca di quella letteratura e concorreva così con altri diversi incentivi a instaurare quella specie di neoclassicismo che, chi faccia bene attenzione, è pure una nota di certa odierna letteratura italiana (Quasimodo, Pavese, ecc.).

L’esistenzialismo col curvar l’uomo e legarlo al suo terreno, e circo­ scritto momentaneo e precario orizzonte, concorre pur esso con certe già denunciate tendenze e reazioni a creare ed imporre la tendenza affermatasi con la Liberazione  nel campo  del  cinematografo –   e non solo in  esso – cui dà il nome di neorealismo.

Classicismo e realismo: il tornar alla terra madre, all’eterna realtà, il tornare all’eterno tipo di bellezza e di verità, il rinsanguare le arti, le lettere, cioè la civiltà, il segreto d’ogni rinascenza, Carducci, Foscolo, Donatello, Nicola Pisano: la via, le vie della salvezza. Forse dopo il crepuscolo, l’aurora. Ma le caligini restan dense tuttavia sull’astro che tarda a emergerne; il clas­ sicismo è barbarico, mostruoso, tormentato,  come nei Dialoghi con Leucò; il realismo frugando nella terra de’ tuoi paesi trova fra le ceneri dei falò, sotto l’indifferente raggio della luna, le ossa della spia fucilata, le ossa del povero contadino vittima dell’esosità della padrona.

I primi anni al « paese » – una terra delle Langhe, fertili di vini buoni, d’ingegni bizzarri e di instancabili lavoratori –  quel  Santo  Stefano Belbo che rimarrà sempre per Pavese l’incantato paese delle vacanze e degli anni felici -vissutivi da lui, o raccontatigli dai grandi – Torino, gli studi, i com pagni, i maestri: il liceo, l’università, l’inglese e la laurea su Walt Whitman, uno studio di pittore,  le  barriere, la villa in collina,  il fiume  Po  e la  barca  a punta, le barriere, le ribotte, la venere mercenaria, l’amore – o meglio l’amore dell’amore. La filosofia e il fascismo fan di quei ragazzi degli uomini, vorrebbero almeno; li portan nolenti alla politica e ad una primaticcia maturità spirituale. Fascismo cioè Resistenza. Pavese. repugna al fascismo, ed è resistente sia pure malgré lui. Arresto, prigione, confino. Arrestato il giorno che doveva far lo scritto di concorso, la carriera d’insegnante – la stabilità – gli è interdetta.  Tornato  dal  confino  la  morosa  si  è  sposata, altra stabilità vietata. Insegnmento privato, Einaudi. Traduzioni dall’ame ricano. Poesie, Lavorare stanca, inosservate. Fortuna di Paesi tuoi, Pavese riconosciuto dalla critica, lanciato. Guerra. Caduta del fascismo. Spettacolo della guerriglia su Torino, sulla collina di Torino, nel Monferrato. Libera­zione. Einaudi, Roma, Milano, Torino. Iscrizione al partito. La produzione del dopoguerra; intensissima. Il lavoro da Einaudi  massacrante.  Esperienze di vita mondana. Donne  letterate  e cinematografiche,  italiane  e straniere. La bella estate e il premio Strega. La luna e i jalò. Rinasce il fascismo: scoppia la guerra in Corea. La morte.

Che vita è questa di Cesare Pavese? La vita della generazione più scon­solata e infelice che la storia d’Italia conosca. Vita di gente che non ebbe motivi di sorriso se non nel vago  ricordo  dell’infanzia  e  nella  tradizione dei padri; pel resto: guerra, fazione, paura, fuga, strage.

E, peggio, la incapacità, la impossibilità di trovar una stabilità, una condusione, una maturità.

Innocenti ragazzi desiderosi  di  ridere, di giocare, di amare, di credere;  li avevan forzati ad essere uomini dalla faccia feroce, cinici e minacciosi; trentenni, quarantenni non avevan toccato mete, attendevano ancora, erano ancora, più che uomini, adolescenti. Coatti della politica, se fascisti avevano as­ sistito allo sgretolamento prima, alla rovina poi del fascismo e dell’Italia; se an­ tifascisti avevan passato gli anni migliori nella compressione e nella perse­ cuzione o – peggio – nell’indulto; toccata appena  la  meta  della  Libera­ zione vedevan tosto traditi gl’ideali per cui si eran esposti, battuti.

Borghesi, il loro mondo era in putrefazione. Salvezza, sicurezza, avreb­ bero potuto raggiungere solo con una fede religiosa o comunismo o cattolice­ simo; perciò occorreva loro esser dei fanatici, credere perché era assurdo; non potevano; i padri, i maestri ne avevan fatti dei laici, dei liberali, i tempi non permettevan loro codesti lussi. Che via rimaneva loro? la  protesta contro i tempi. Quale? la rinunzia alla vita; rinunzia  radicale ne’  più feroci, il suicidio; rinunzia alla lotta, per i più, rassegnazione, « concordato con la vita » – per dirla con Mila – o una stracca conversione; cioè sempre un suicidio.

Questa  insomma la tragedia  di quella generazione:  aver conosciuto una età felice, quella dei padri; aver riconosciuto che quell’età era un passato irrevocabile, un paradiso perdùto; essersi promessa una  terra come quella dei padri ma più doviziosa e beata; essersi battuti per raggiungerla; aver riconosciuto che la terra promessa era un miraggio vano, un irraggiungibile pianeta,  non  aver potuto  regger al pensiero di  seguitar ad abitare su questa

« aiuola che ne fa tanto feroci ».

Dei due temi che si alternano nell’opera del Pavese, città e paese, quello che prevale quasi esclusivo ne La bella estate è la città: Torino. Le sue strade, i suoi dintorni, caffè, studi di pittori, salotti, mondanità, deboscia; stracittà, novecento quel che piace agli ammiratori del Pavese, ultra moderno, esi­ stenzialista, crudo affrontatore di situazioni scabrose. La bella estate è piaciuta anche ai critici alla moda – à la page – che han premiato il libro a Roma nel salotto Bellonci e l’han lodato sulle riviste a rotocalco.

È pubblicato nel novembre del  ’49.  Contiene  tre lunghi racconti: uno del ’40, uno del ’48, uno del ’49. Siccome Pavese è sempre uno scrittore

«impegnato» – cioè politico-sociale a dirla in soldoni – perché è  uno scrittore, così anche questo libro come tutti quelli del Pavese rientra nella letteratura della Resistenza. Vi si rappresentano gli assenti: giovanissimi e anziani. Questo non lo dico io, lo dice Pavese per bocca d’un de’ suoi per­ sonaggi: « Nemmeno a Roma la gente era in festa così di continuo. E Ma­ riella voleva recitare a tutti i costi. Sembrava che la guerra non ci fosse stata ». E il giudizio che Pavese dà di questi assenti è inequivocabile: « … non la nausea di questo o di quello… ma lo schifo di… tutto e di tutti… ».

Ma non è su questo che io, impegnato :fin troppo, voglio attirar la vostra attenzione. Voglìo documentarvi un Pavese preso fra il « paradiso perduto » e la « terra promessa »; voglio veder con voi in che cosa consista la famosa

«modernità» di Pavese. La bella estate dunque, tre lunghi racconti. Senti­ tene i motivi. Primo: La bella estate. Tema: la verginità perduta – e pianta. Una sartina, una minorenne- Virginia, appunto-  una  polledrina  selvatica, di quelle che s’impennano e recalcitrano appena tu le posi una mano sulla groppa, s’avventura nelle sirti d’uno studio dì pittore, vi  s’innamora di Guido, pittore vestito ancora da soldato, perde il :fiore…  insomma  non  è  più Virginia né Ginia, ma Ginetta, piange davanti  alla distratta indulgenza del suo Guido, che ha tante altre cose a cui pensare, e passa nelle ultime pagine a braccio di Amelia, una sifilitica ragazza se non da marciapiede da caffè.

Secondo: Il diavolo  sulle colline. Tema: la fedeltà  coniugale,  sempre più

novecento, come vedete. Poli, :figlio viziato di industriali oriundi piemontesi stabiliti a Milano, intelligente non incolto cocainomane e amico delle donne, va nell’antica sua villa in Monferrato a rimettersi d’una pistolettata che una donna sposata gli ha tirata nelle costole; lo cura e l’assiste nella solitudine

 

della vecchia tenuta abbandonata la moglie Gabriella, donnina del suo rango, moderna brillante e in  apparenza  spregiudicata. Tre  giovani  amici di  Poli lo raggiungono nel suo eremo, tre studenti, di cui uno s’invaghisce dell’affa­ scinante madamina; par che Poli,  il  rottame,  stia  per  esser  fatto becco – che sarebbe se mai, focaccia per pane- niente: Poli ha uno sbocco di sangue, la signora spaventatissima e innamoratissima del marito e stabilmente fedele al suo Poli se lo porta in macchina a Milano a casa loro.

Verginità perduta e pianta; fedeltà serbata gratis; per uno scrittore ultimo grido; mi pare… S’incomincia a capire la modernità  di Pavese: i personaggi de Il diavolo sttlle colline sono stati in un tabarin  ultramoderno  daile parti di Sassi, vi han fatto le ore piccole fra luci varianti e musica sincopata  e canti; uno conchiude: « Queste notti moderne… sono vecchie come il mondo».

La terza novella, la più «moderna» di tutte, Tre donne sole, ha per tema un motivo più ottocentesco ancora, forse: la persona –  una donna –  Clelia, che dal nulla – dalla gavetta,  o addirittura  dalla lattina di  conserva –  s’è  fatta una posizione, è «arrivata» e vive con le sue sole forze « le spese di spiaggia me le pago da me » e non deve nulla a nessuno; e la carriera l’ha fatta non perché donna –   e bella donna anche –    ma perché uomo  « aveva  il vizio di  lavorare –  dice di sé questa  Clelia –  di non prender  mai  una  feria completa: …è peggio degl’industriali padri di famiglia… che erano uomini coi baffi e hanno fatto Torino»; ottocento:  età  dei  padri,  e  come vita e come letteratura.

Se questi sono i motivi centrali,  i  primi  piani,  la  modernità  di  Pavese  sarà  negli  sfondi:  studi   di   pittori   con  discussioni   sull’astrattismo,  sbornie e cottcheries, caffè del centro, con donnine e cocaina, sifilide e amori lesbici, tabarins, macchine americane lunghe  di  qui fin  là,  alberghi  e  locali  di lusso in montagna e in riviera, casini e cttsinos, dialoghi a repliche ardite e sottintesi,  il  correr  l’andare-venire il  moto  perpetuo  di  questo  dopoguerra,  la  deboscia il lusso. E, soprattutto lo stile con cui questa  deteriore  materia  è  trattata: scarno, impassibile, secco, lucido  come  un  grattacielo  o  un bar, come vetrine al neon. Secondo me tutto ciò esiste in Pavese – c’è, specie ne La bella estate – ma il suo stile non è qui:  questo  è  moda  appena  e  domani  sarà démodé, scaduto. Anzi  tutto  quel  che  abbiamo  enumerato  appena  cessa  di far da sfondo al  quadro,  appare  come  eccessivo,  come  superfluo,  pesa, guasta, fa « cattivo gusto». Volevo  dire  che  esteticamente  il  positivo  di quei tre racconti  è  nei  temi  a  cui  ho  accennato  –  personaggi  e  dramma  –  il resto, quasi tutto, è aggiunta, svolazzo,  esercizio,  virtuosità;  i  tre  temi verginità, fedeltà, stabilità economica  sono  gl’infìssi  piantati  saldo  nel  muro, il resto sono ciarpe, cianfrusaglie appese a quegli infissi in tal copia da nasconderli e da minacciare di scardinarli e tirarli giù, pezzi sempre di bravura, squisitezze stilistiche da far aprir la bocca di maraviglia, da far dir talora:

« grande scrittore se avesse qualcosa da dire ».

Senonché Pavese ha pure nella Betta estate qualcosa di suo da dire, di tragicamente suo. La be!!a estate che cos’è? « A quei  tempi  era  sempre festa. Bastava uscir di  casa e traversare la  strada  per  diventar  come  matte e tutto era così bello… », « una cosa da ragazzi, senza  conseguenza,  un effetto del sole e del cantare »: i tempi per Ginia dell’innocenza e della

« verginità ». Che son passati, che ci si ripensa con struggimento, nel cui ritorno si spera d’inverno. « In certi momenti per le strade, Ginia si fermava perché di colpo  sentiva  persino  il profumo  delk sere  d’estate,  e  i  colori  e i rumori, e l’ombra  dei platani.  Ci pensava  in  mezzo  al fango  e alla  neve, e si fermava sugli angoli col  desiderio  in gola ».  « Verrà  sicuro, le stagioni ci sono sempre ». « Che non tornerà più, Guido l’ha presa,  Guido  l’ha lasciata. Non per cattiveria o crudeltà, ma perché ora si fa così; non ci si ferma; i tempi non permetton più di attaccarsi; non usa più ». « Ma le pareva inverosimile proprio adesso eh’era sola: sono una vecchia, ecco cos’è. Tutto  il bello è finito». Ed è finita anche Ginia, vittima dell’illusione che si possa oggi esser felici come ieri, che possa sulla neve fangosa brillare il sole del mese delle vacanze.

In tutto il libro ricorre il tragico motivo della bella estate come felicità perduta, come « tempi beati che non tornan più ». Anche Clelia, la ferma ragazza torinese, così sicura padrona di sé, ha una sua bella estate nel sécrétaire dei dolci ricordi, ed è l’unico sorriso della sua dura vita; ma quella stagione non tornerà più; e le copie che ne tenterà appariran fredde e sfuo­ cate; e la fortuna che ha fatto le serve sì ad assicurarle l’indipendenza, ma questo non dipender  da  altri,  questo  bastar  a  sé, è in  fondo  solitudine – ed esser soli in fondo è l’esser morti da vivi.

E nel Diavolo sulle colline la desolata bellezza del greppo col suo parco abbandonato, i terreni incolti alle falde,  un  cantuccio  di  moderno  confort nella abbandonata suntuosità della villa, è dice dentro  di sé a  Gabriella  e a  Poli uno dei giovani ospiti; « Una cosa la presenza di Gabriella mi aiutò a capire… Quell’abbandono, quella solitudine del greppo era un  simbolo  della vita sbagliata di lei e di Poli. Non  facevano  nulla  per  la loro collina; la col­ lina non faceva nulla per loro. Lo spreco selvaggio di tanta  terra e tanta vita  non poteva dar frutto che non fosse inquietudine e  futilità.  Ripensano  alle vigne di Mombello, al  volto  brusco  del  padre  di  Oreste ».  Ripensate  ai tempi dei padri: al nonno di Poli che faceva render la terra. Alla Bella  estate che non torna più. Che è la luna bella e irraggiungibile;  mentre  qui  in  terra non ci sono che i falò, anzi resti dei falò, cenere, ossa calcinate, spreco, abbandono, morte.

 

Ultimo libro di Pavese, La luna e i falò; per me, il capolavoro. Letteratura della Resistenza, anche questa: ne La bella estate gli assenti, qui i presenti: tutti i  presenti,  il  paese –  le  Langhe –  e  le  persone  –   pro  e  contro,  tutti  in lizza; oramai più contro che pro. E perciò in questo libro l’epopea  ha  tanto felice risultato, perché la Resistenza è già un’occasione perduta, « E siamo a questo – disse  Nuto –  che  un  prete,  che  se  suona  ancora  le  campane  lo deve ai partigiani che  gliele  hanno  salvate,  fa la  difesa  di  quella  repubblica e di due spie della repubblica. Se anche fossero stati fucilati per niente,

  • disse- toccava a lui far la forca ai partigiani che sono morti come mosche per salvare il paese?» è già  una  causa  vinta  e  quindi  un  buon  argomento per la insomma romantica leopardiana musa di

Ma anche qui c’è altro che importa. Vediamo. Che cosa narra questa

« storia breve »? È un ritorno, un vooi:oç: il ritorno di uno che  crebbe  in quel paese, lo lasciò poco più che ragazzo, lo lasciò per Genova, prima, poi per l’America e ci torna uomo fatto,  lo lasciò fuggendo  avanti  al fascismo, ci torna dopo la liberazione, fece la fame; lo lasciò miserabile, ci torna ben provvisto del suo. Rivede i luoghi dove fu ragazzo, trova l’amico più an­ ziano, l’eroe della sua infanzia, si fa narrar da lui quel che è  accaduto  in paese nel frattempo, racconta all’amico quel che occorse a lui lontano dal paese intanto. Ritorno, v6a-roç, Odisseo che rivede Itaca petrosa, la casa, il cane Argo, i cari memori, i Proci imboscati e immemori, la passione e la vendetta; poesia: poesia del v6a-ro,;, ricordi in  folla  si levan da ogni canto,  ti vengono incontro: confronti fra allora ed oggi. Odisseo classico: l’eroe torna per fermarsi e stabilirsi: La luna e i jalò, v6a-roç romantico, Ulisse, torna per non posarsi.

Ma La luna e i falò è il libro dei ritorni, al plurale per i lettori di Pavese. Tornan nel libro i meglio riusciti personaggi degli antecedenti libri di Pavese; il cugino dei Mari del Sud, il ragazzo scontroso e fantastico di Feria d’agosto che scappa di  casa per  iscoprir  il  mare dall’alto,  i grandi  che clan ragione al piccolo gli clan confidenza ne conquistano il cuore, ritornan  le ragazze  fini le villeggianti furtivamente viziose, ritornano  soprattutto  i  contadini cupi e subumani di Paesi htoi – la rivelazione di Pavese alla critica –  che vivon faticando ma muoiono su quei paesi,  colline  tufi  bianchi  vigne canneti macchie di cerri, torrenti in magra, un glorioso  sole su  tutto.  Ma tutti tornano cresciuti, maturati, uniti, con un perché. Eran bestiali i con­ tadini di Paesi tuoi ma d’una bestialità gratuita – irrimediabile – son  stati anche  questi (Valino)  ma qui c’è  un  perché,  è la  miseria  che li fa cattivi,   è l’esosità dei padroni; e Nuto ne indica un rimedio: « il mondo è mal fatto: bisogna migliorarlo ». E neanche i  ricchi,  i  signori,  i  padroni  son  felici: dai nonni ai padri, dai padri ai figli, de malo in peins, l’epistola del diavolo, ricchezze sperperate, vizi, licenziosità; e anche l’infelicità  loro, il loro morir di mala morte ha insomma un perché, è una nemesi: punizione di loro colpe di classe, giustizia livellatrice del dolore.

 

E accanto alla cattiveria la bontà redentrice, il Cavaliere che va in malora ma non vende la villa anche per non disturbar il mezzadro truffatore. Nuto che vuol migliorare il mondo, il reduce che salva e mette all’onor del mondo lo sciancatello di Cinto: la  bontà  di cui  Pavese,  vinte le  ritrosie di prima, ha già osato parlare nella bella estate (bontà onesta di Ginia, di Gabri, dei ragazzi di Clelia) e che qui pone di fatto a tema del libro.

E  tornano i temi di Pavese: la campagna,  la collina;  s’è visto la città e   la modernità che è l’America (ma l’America per il protagonista è anche la libertà); la question sociale de Il compagno,  la Resistenza di Casa in collina, la donna lacheuse, sfuggevole di tutti i suoi libri, la fortuna fatta, la persona salda, sicura di sé, eccetera.  Ma torna soprattutto il  grande  tema di Pavese: la bella estate, la dolce stagione irrevocabile, il paradiso  perduto; la luna.  Che è l’età dei padri, che è l’infanzia, la vacanza, la primissima adolescenza, la favola. Esiodo – La luna che è la terra promessa: l’America; il paese donde sei scappato dove aneli di tornare ma grande, ricco,  glorioso;  la libertà  e una vita migliore abbattuto il  tiranno,  cacciato il  nemico; la  luna  che è per il povero famelico cane di Valino la polenta che egli agogna.

Ci fu chi parlando della Luna e i falò, e già della Bella estate, parlò di consolazione di Pavese, di catarsi. Purtroppo no; non c’è consolazione per Pavese; il paradiso terrestre  è  perduto;  la  terra  promessa  è  una  promessa  non mantenuta; e la luna è là  alta  in  cielo  diversa  e identica  ma  è la  luna, non la raggiungi mai,  c’è  in  terra  qualche  cosa  che le somiglia  forse un  po’ : il falò con il suo riverbero visto da lungi come  pianeta  posato  in  cima  al monte; ma se ci vai che trovi? uno scheletro di casa annerita, cenere, ossa calcinate, la disperazione, il suicidio, l’esecuzione, gli orrori di questa vita quaggiù.

E l’America  è un paese come qui; e al paese non  ti posi, non ti radichi;  e la giustizia  sociale non s’avvera;  e quella  a cui abbaia il cane impazzito    è la luna e non scende a farsi mangiare.

La luna e i falò; la morale del libro. Ma la luna e i falò sono credenze

  • le superstizioni se si vuole –     sono, meglio, le antiche credenze che fan tutt’uno di questo mondo civile e dell’umanità antichissima della favola; e sono l’arte di Pavese: sono la lucidità concreta  terrestre  di  quella  prosa, sono l’incanto sidereo di quella poesia, sono la magia accorata di quelle pagine. Pavese in quelle pagine abbraccia e bacia il suo mondo poetico, sorridendoci e piangendoci come reduce dalla guerra che ha una notte da parlar con la sposa. Pavese mira questo suo mondo dall’alto fra  cime di  monti e cielo – tra falò e luna – quasi come poeta che adocchi con Beatrice l’aiuola  che  ne  fa  tanto  feroci:  di  qui –  io  credo –   il  sovrumano  nitore di quella gemma. 1\fa la sua Beatrice è {Mva-rnç: la Eutanasia, la morte quieta.

Il libro nella dedica al maestro porta scritto

Nunc dimittis me, Domine.

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