LA LEZIONE IN MORTE DI CESARE PAVESE
di
Augusto Monti
Questa di stasera non è una commemorazione, genere che non piace a Geno Pampaloni, e non è una conferenza, genere che non piace a me; è una lezione. Una lezione come quelle che facevo al liceo, e fra gli scolari sedeva Cesare Pavese: lezione di letteratura italiana, cioè di storia d’Italia con l’accento sul fatto letterario. Solo che allora il programma si fermava come storia alla grande guerra (’15-’18), come letteratura a Verga e a D’Annunzio; adesso-· stasera- il programma giunge fino ad oggi 1950 e l’autore
di cui si tratta è Cesare Pavese, e le pagine della lectio = lettura, son tratte dalle ultime due opere di questo autore, La bella estate, La luna e i falò. Lezione dunque ma com’eran quelle lezioni là, in cui l’insegnante studiava – ristudiava – la materia con i suoi auditores, i suoi scolari, per i suoi scolari, e per sé.
Comincia dunque la lezione. È un tentativo. Cesare Pavese – Date della sua vita: 1908 – 1950.
Avvenimenti storici di quel periodo. Dal 1908 al 1915, l’età che prende il nome da Giolitti, gli anni che ora si chiamano felici; gli anni in cui l’Italia
- e l’Europa, e il mondo – raccoglievano i frutti di un cinquantennio di pace, frutti di benessere economico e di viver civile; gli ultimi frutti prima del gelo. Come in montagna una cornice – credo si chiamino così – sopra ghiaccio compatto magari roccia, e sotto è l’abisso. Dal ’15 al ’18, guerra;
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la frattura fra due epoche; guerra finita col crollo dei tre pilastri dell’antico regime: Impero degli zar, Impero degli Hohenzollern, Impero austro-unga rico; in luogo della Russia zarista l’U.R.S.S. – intorno all’U.R.S.S. un reticolato di armi prima, di diplomazie e dì ideologie dopo- un avvampare di esaltazioni e di speranze – e di odì -. Poi… Fascismo 1922-1939: il fascismo che, agli effetti del nostro studio, ora dev’essere considerato soprat tutto come « cesarismo » – come napoleonismo – cioè come movimento politico e militare insieme, reazionario insieme e rivoluzionario o perlomeno sovversivo, ma soprattutto come movimento che sì riassume in un uomo avventuroso e pittoresco ingallonato e montato a cavallo. Fascismo cioè Resistenza: la dialettica non è un’opinione; Resistenza che è l’altra faccia, per fortuna, di quella medaglia che fu il ventennio; Resistenza la cui storia notoriamente comprende due periodi, quello della resistenza disarmata civile e quello della resistenza armata prima del ’43 (Spagna) e dopo; resistenza in cui si distinguono anche due moventi, o tre: resistere pensando al passato, resistere pensando al futuro, resistere pensando ad un futuro non ignaro né incurante del passato. Dal 1939 al 1945 grande guerra con tutti gli orrori delle più orrende guerre che sono – come ognun sa – le guerre religiose e le civili: guerra in cui l’ìmbestiamento nazifascista e le congiunte reazioni dei bombardamenti indiscriminati e atomici han riportato l’umanità ai tempi di Attila, di Gengiskan, e han creato a tratti nel mondo un’atmosfera da alto medioevo. Dal 1945 al 1950: ’45: Liberazione: attimo d’esultanza generale, speranza di palingenesi, di rinnovamento, di giustizia, di libertà, di pace, cioè di attuazione del programma della Resistenza; ‘5o, processo alla Resistenza, rinascita di fascismo, guelfismo – medioevo, ripeto – la guerra che bussa alle porte.
Aspetti culturali del periodo compreso fra le due date della vita del
Pavese: 1908-1950 con particolar riferimento- sempre- a quelli che abbian comunque influito sulla formazione dello scrittore. Qui un’avvertenza: letteratura italiana d’oggi è una materia che non ho mai insegnata, e che quindi non conosco bene: ci saran delle lacune nella mia esposizione, mi sfuggi ranno magari degli errori, compatitemi e correggetemi voi.
Dunque: cosa trova Pavese nella scuola e nei dintorni della scuola nei tempi in cui si formava spiritualmente, che cosa trovarono i giovani italiani, figli di borghesi in quei paraggi circa il 1922? Sedimenti dell’età positivistica anzitutto in liceo e università – filosofia, date, fatti – ravvivati, rin verditi direi dallo zefiro dell’idealismo migliore, quello che assorbe il meglio dell’età antecedente – scrupolo, indagine, ricerca, esattezza – e dà un senso ai « materiali », uno scopo a quell’esercizio: la costruzione della storia. Il positivo della loro preparazione è tutto qui. Fuori della scuola trovarono ancora il D’Annunzio, benché in stato di avanzata decomposizione, e non si sottraggono al suo fascino di decadente. Insieme e più influisce su di loro Giovanni Gentile che l’ha rotta definitivamente oramai col maestro e porta all’estreme conseguenze del panlogismo quel superamento dei dualismi che costituisce il vanto e il tormento dell’idealismo storicistico, ma che frattanto porge al trionfante regime – per quel che gli va e gl’importi – una giustificazione filosofica o quasi. L’idealismo storicistico insieme aveva portato e portava, in reazione sempre alle antecedenti antagonistiche correnti, a una riabilitazione delle età reazionarie: restaurazioni, controriforma, barocco, a una rivalutazione dell’età romantica, e quindi a un ripensamento del nostro Risorgimento e del congiunto liberalismo; in pari tempo rivelava ai giovani che il socialismo non dipendeva dal positivismo e dal democratismo, che Marx aveva civettato con Hegel, e che quindi il comunismo era ancora
« ben portato » in tempi di coltura idealistica storicistica.
Gli ultimi lazzi del futurismo, cubismo e razionalismo in pittura, architettura, arti applicate, concorrevano a formar un gusto, una moda, uno stile se vogliamo, a cui si dava il nome di « novecento », che diveniva un po’ lo stile «ufficiale» del fascismo e l’impronta dell’epoca. Il «novecento» aveva riflessi anche in letteratura e, se non erro, l’ermetismo ci si ricon netteva, non in quanto anche alessandrinismo e antologia palatina, ma in quanto era asciutto, lineare, schivo di esuberanze e di svolazzi. Naturalmente gli eccessi e l’ufficialità del ‘900 avevano l’effetto – insieme col predetto ripensamento storicistico dell’età liberale – di riportar in onore il primo e il medio ottocento, o rivisto in forma lievemente caricaturale o addirittura aureolata di nostalgia. Era l’epoca del Selvaggio, dell’Italiano, e delle rievoca zioni del Monti e del Bacchelli, del Palazzeschi, ecc. Questa antitesi riportata al contemporaneo era quella che dava origine alla diatriba lettei:aria durata allora qualche anno fra Stracittà e Strapaese, intendendosi per Strapaese com’è noto il locale l’umile il dimesso il folcloristico – Ttttta Frusaglia –
il realismo, e per Stracittà l’ultramodernismo, il novecento in tutti i suoi aspetti magismo, pirandellismo, deboscia, Indifferenti, eccetera. Ed è qui che cade in acconcio il discorso sull’americanismo, cioè sulla fortuna che ebbe
– e ha in parte tuttora – tutto quello che l’America importa fra noi: lette ratura, cinematografo, jazz e negrismo, business e dollari. In quel che ebbe di più sano questa infatuazione fu scoperta e studio di quella letteratura da Walt Whitman a Melville, a Jack London a Hemingway, e di quella civiltà e fu soprattutto ammirazione e culto della novissima musa – iJ cinemato grafo – per cui parve ai giovani- e così era in parte- di tornare ai tempi in cui l’antica Grecia inventava dal nulla il teatro, la poesia, la musica, espres sione di una mirabile giovinezza e primavera di popoli. D’altra parte questa americomania mentre era un aspetto di quell’interesse e curiosità per le letterature straniere che il nostro deteriore romanticismo novecentesco ebbe in comune col suo più nobile antecessore d’un secolo prima, era anche col restante esotismo un modo di reagire alla propaganda per il « prodotto nazionale » che il regime andava facendo nel paese.
Onde estendendo l’indagine si può oggi concludere che il fascismo influì sugli scrittori italiani del suo tempo, sui giovani, piuttosto negativamente che positivamente. La letteratura italiana del tempo accettò tuttalpiù dal fascismo quel fare scanzonato e casermesco, quel « menefreghismo » con cui si trattavan tutti gli argomenti anche i più seri, e che era, a suo modo,. anch’esso una reazione al tono retorico e tribunizio delle manifestazioni ufficiali del tempo. Del resto tutta la letteratura più accettabile del tempo fu di reazione al bigottismo e al gladiatorismo dell’eloquenza e della pubbli cistica governativa, al rider di tutto e di tutti degli umoristi (da Campanile a Marotta), al « municipalismo » e « paesanismo » con cui si reagiva aìle esagerazioni unite fino al sottile estenuamento e alle sibilline alambiccature.
di certa parte dell’ermetismo già ricordato, fino a certe perduranti pose di surrealismo e di astrattismo cui gli artisti rifiutandosi di « impegnarsi » in assoluto – cioè di far i conti con la realtà immediatamente circostante – si rifiutavano di fatto d’impegnarsi nel senso voluto allora – e poi – dai padroni, dai mecenati.
L’idealismo in genere, quello assoluto in particolare, aveva come s’è detto instaurato il regno dell’irrazionale, dell’alogico, incoraggiata l’esalta zione della volontà e degli istinti, altra nota di questo romanticismo nove centesco: la guerra, le guerre, la rissa civile, riportando a fiore gl’impulsi più elementari e ferini, risvegliando insomma nell’uomo la bestia, aveva fatto il resto in quel senso; la tarda fortuna di Freud e delle sue dottrine offriva a quell’imbestiamento, a quel cannibalismo, a quel trogloditismo una impalcatura e una documentazione pseudo-scientifica rimettendo in onore in certo modo un’antropologia ed etnografia che agli anziani ricordava il lombrosianesimo di fine ottocento, ma non aveva di quella i generosi moventi sociali ed umanitari. Ai giovani il freudismo era ricco di suggestioni, com baciando esso con la curiosità sempre sveglia nei ragazzi – e quei giovani eran ragazzi a trenta, a quarant’anni – verso il preistorico, il trogloditico, il cannibalesco, il misterioso del totem e del tabù.
Superfluo – e forse moralistico – alludere all’incoraggiamento offerto d.al freudismo alla dissoluzione d’ogni vincolo e d’ogni freno ai più ciechi
,e inconfessati istinti in quel crepuscolo di moralità che fu il ventennio; e l’aurora ancora non se ne scorge.
Il freudismo, pur essendo difatto in parte un collaboratore dell’idealismo, ne era di proposito un antagonista. Un alunno invece, a rigore, dell’idealismo, fu quella diciamo cosi filosofia che si chiamò esistenzialismo, e a cui furono e sono devoti sull’esempio straniero molti dei nostri più recenti scrittori. L’idealismo poneva fra l’altro all’uomo l’imperativo del « sii quel che tu sei », cioè sii uomo, non uomo d’una generica e astratta e antistorica umanità, ma quest’uomo, di questo luogo, di questo mestiere, di questo tempo, di , questo minuto; con ciò concretava l’uomo .e il suo agire, ma con i concetti della storia, della indefinitività del sapere, e della circolarità lasciava l’uomo nel flusso della vita e lo ancorava e lo eternava: lo salvava.
L’esistenzialismo, riducendo la vita allo jetzt und hier, allo hic et nunc, cioè tagliando i ponti col passato e con l’avvenire, riducendo tutta la vita al duro sconfortato intollerabile presente condannava l’uomo al più reciso isolamento, lo immergeva nell’angoscia di questo vuoto e gli lasciava per salvezza la scelta fra il suicidio o il rendersi- per paura e disperazione- a un qualunque Dio, era quello che ci voleva come viatico spirituale per una gioventù per cui la storia d’Italia era cominciata nel ’22 e finiva per una parte il ‘2 5 di luglio, per un’altra con la odierna rinascita del fascismo.
Ma le vie del Signore son molte, e la lancia d’Achille ferisce e risana, e i veleni sono anche talvolta delle medicine: dagli estremi mali potevan venire all’arte e all’umanità i rimedi. Il freudismo con certe sue incursioni nei regni della poesia classica – ricordate i complessi edipici a proposito della naturale incestuosità d’ogni nato da donna – riportava alcuni dei giovani alla ricerca di quella letteratura e concorreva così con altri diversi incentivi a instaurare quella specie di neoclassicismo che, chi faccia bene attenzione, è pure una nota di certa odierna letteratura italiana (Quasimodo, Pavese, ecc.).
L’esistenzialismo col curvar l’uomo e legarlo al suo terreno, e circo scritto momentaneo e precario orizzonte, concorre pur esso con certe già denunciate tendenze e reazioni a creare ed imporre la tendenza affermatasi con la Liberazione nel campo del cinematografo – e non solo in esso – cui dà il nome di neorealismo.
Classicismo e realismo: il tornar alla terra madre, all’eterna realtà, il tornare all’eterno tipo di bellezza e di verità, il rinsanguare le arti, le lettere, cioè la civiltà, il segreto d’ogni rinascenza, Carducci, Foscolo, Donatello, Nicola Pisano: la via, le vie della salvezza. Forse dopo il crepuscolo, l’aurora. Ma le caligini restan dense tuttavia sull’astro che tarda a emergerne; il clas sicismo è barbarico, mostruoso, tormentato, come nei Dialoghi con Leucò; il realismo frugando nella terra de’ tuoi paesi trova fra le ceneri dei falò, sotto l’indifferente raggio della luna, le ossa della spia fucilata, le ossa del povero contadino vittima dell’esosità della padrona.
I primi anni al « paese » – una terra delle Langhe, fertili di vini buoni, d’ingegni bizzarri e di instancabili lavoratori – quel Santo Stefano Belbo che rimarrà sempre per Pavese l’incantato paese delle vacanze e degli anni felici -vissutivi da lui, o raccontatigli dai grandi – Torino, gli studi, i com pagni, i maestri: il liceo, l’università, l’inglese e la laurea su Walt Whitman, uno studio di pittore, le barriere, la villa in collina, il fiume Po e la barca a punta, le barriere, le ribotte, la venere mercenaria, l’amore – o meglio l’amore dell’amore. La filosofia e il fascismo fan di quei ragazzi degli uomini, vorrebbero almeno; li portan nolenti alla politica e ad una primaticcia maturità spirituale. Fascismo cioè Resistenza. Pavese. repugna al fascismo, ed è resistente sia pure malgré lui. Arresto, prigione, confino. Arrestato il giorno che doveva far lo scritto di concorso, la carriera d’insegnante – la stabilità – gli è interdetta. Tornato dal confino la morosa si è sposata, altra stabilità vietata. Insegnmento privato, Einaudi. Traduzioni dall’ame ricano. Poesie, Lavorare stanca, inosservate. Fortuna di Paesi tuoi, Pavese riconosciuto dalla critica, lanciato. Guerra. Caduta del fascismo. Spettacolo della guerriglia su Torino, sulla collina di Torino, nel Monferrato. Liberazione. Einaudi, Roma, Milano, Torino. Iscrizione al partito. La produzione del dopoguerra; intensissima. Il lavoro da Einaudi massacrante. Esperienze di vita mondana. Donne letterate e cinematografiche, italiane e straniere. La bella estate e il premio Strega. La luna e i jalò. Rinasce il fascismo: scoppia la guerra in Corea. La morte.
Che vita è questa di Cesare Pavese? La vita della generazione più sconsolata e infelice che la storia d’Italia conosca. Vita di gente che non ebbe motivi di sorriso se non nel vago ricordo dell’infanzia e nella tradizione dei padri; pel resto: guerra, fazione, paura, fuga, strage.
E, peggio, la incapacità, la impossibilità di trovar una stabilità, una condusione, una maturità.
Innocenti ragazzi desiderosi di ridere, di giocare, di amare, di credere; li avevan forzati ad essere uomini dalla faccia feroce, cinici e minacciosi; trentenni, quarantenni non avevan toccato mete, attendevano ancora, erano ancora, più che uomini, adolescenti. Coatti della politica, se fascisti avevano as sistito allo sgretolamento prima, alla rovina poi del fascismo e dell’Italia; se an tifascisti avevan passato gli anni migliori nella compressione e nella perse cuzione o – peggio – nell’indulto; toccata appena la meta della Libera zione vedevan tosto traditi gl’ideali per cui si eran esposti, battuti.
Borghesi, il loro mondo era in putrefazione. Salvezza, sicurezza, avreb bero potuto raggiungere solo con una fede religiosa o comunismo o cattolice simo; perciò occorreva loro esser dei fanatici, credere perché era assurdo; non potevano; i padri, i maestri ne avevan fatti dei laici, dei liberali, i tempi non permettevan loro codesti lussi. Che via rimaneva loro? la protesta contro i tempi. Quale? la rinunzia alla vita; rinunzia radicale ne’ più feroci, il suicidio; rinunzia alla lotta, per i più, rassegnazione, « concordato con la vita » – per dirla con Mila – o una stracca conversione; cioè sempre un suicidio.
Questa insomma la tragedia di quella generazione: aver conosciuto una età felice, quella dei padri; aver riconosciuto che quell’età era un passato irrevocabile, un paradiso perdùto; essersi promessa una terra come quella dei padri ma più doviziosa e beata; essersi battuti per raggiungerla; aver riconosciuto che la terra promessa era un miraggio vano, un irraggiungibile pianeta, non aver potuto regger al pensiero di seguitar ad abitare su questa
« aiuola che ne fa tanto feroci ».
Dei due temi che si alternano nell’opera del Pavese, città e paese, quello che prevale quasi esclusivo ne La bella estate è la città: Torino. Le sue strade, i suoi dintorni, caffè, studi di pittori, salotti, mondanità, deboscia; stracittà, novecento quel che piace agli ammiratori del Pavese, ultra moderno, esi stenzialista, crudo affrontatore di situazioni scabrose. La bella estate è piaciuta anche ai critici alla moda – à la page – che han premiato il libro a Roma nel salotto Bellonci e l’han lodato sulle riviste a rotocalco.
È pubblicato nel novembre del ’49. Contiene tre lunghi racconti: uno del ’40, uno del ’48, uno del ’49. Siccome Pavese è sempre uno scrittore
«impegnato» – cioè politico-sociale a dirla in soldoni – perché è uno scrittore, così anche questo libro come tutti quelli del Pavese rientra nella letteratura della Resistenza. Vi si rappresentano gli assenti: giovanissimi e anziani. Questo non lo dico io, lo dice Pavese per bocca d’un de’ suoi per sonaggi: « Nemmeno a Roma la gente era in festa così di continuo. E Ma riella voleva recitare a tutti i costi. Sembrava che la guerra non ci fosse stata ». E il giudizio che Pavese dà di questi assenti è inequivocabile: « … non la nausea di questo o di quello… ma lo schifo di… tutto e di tutti… ».
Ma non è su questo che io, impegnato :fin troppo, voglio attirar la vostra attenzione. Voglìo documentarvi un Pavese preso fra il « paradiso perduto » e la « terra promessa »; voglio veder con voi in che cosa consista la famosa
«modernità» di Pavese. La bella estate dunque, tre lunghi racconti. Senti tene i motivi. Primo: La bella estate. Tema: la verginità perduta – e pianta. Una sartina, una minorenne- Virginia, appunto- una polledrina selvatica, di quelle che s’impennano e recalcitrano appena tu le posi una mano sulla groppa, s’avventura nelle sirti d’uno studio dì pittore, vi s’innamora di Guido, pittore vestito ancora da soldato, perde il :fiore… insomma non è più Virginia né Ginia, ma Ginetta, piange davanti alla distratta indulgenza del suo Guido, che ha tante altre cose a cui pensare, e passa nelle ultime pagine a braccio di Amelia, una sifilitica ragazza se non da marciapiede da caffè.
Secondo: Il diavolo sulle colline. Tema: la fedeltà coniugale, sempre più
novecento, come vedete. Poli, :figlio viziato di industriali oriundi piemontesi stabiliti a Milano, intelligente non incolto cocainomane e amico delle donne, va nell’antica sua villa in Monferrato a rimettersi d’una pistolettata che una donna sposata gli ha tirata nelle costole; lo cura e l’assiste nella solitudine
della vecchia tenuta abbandonata la moglie Gabriella, donnina del suo rango, moderna brillante e in apparenza spregiudicata. Tre giovani amici di Poli lo raggiungono nel suo eremo, tre studenti, di cui uno s’invaghisce dell’affa scinante madamina; par che Poli, il rottame, stia per esser fatto becco – che sarebbe se mai, focaccia per pane- niente: Poli ha uno sbocco di sangue, la signora spaventatissima e innamoratissima del marito e stabilmente fedele al suo Poli se lo porta in macchina a Milano a casa loro.
Verginità perduta e pianta; fedeltà serbata gratis; per uno scrittore ultimo grido; mi pare… S’incomincia a capire la modernità di Pavese: i personaggi de Il diavolo sttlle colline sono stati in un tabarin ultramoderno daile parti di Sassi, vi han fatto le ore piccole fra luci varianti e musica sincopata e canti; uno conchiude: « Queste notti moderne… sono vecchie come il mondo».
La terza novella, la più «moderna» di tutte, Tre donne sole, ha per tema un motivo più ottocentesco ancora, forse: la persona – una donna – Clelia, che dal nulla – dalla gavetta, o addirittura dalla lattina di conserva – s’è fatta una posizione, è «arrivata» e vive con le sue sole forze « le spese di spiaggia me le pago da me » e non deve nulla a nessuno; e la carriera l’ha fatta non perché donna – e bella donna anche – ma perché uomo « aveva il vizio di lavorare – dice di sé questa Clelia – di non prender mai una feria completa: …è peggio degl’industriali padri di famiglia… che erano uomini coi baffi e hanno fatto Torino»; ottocento: età dei padri, e come vita e come letteratura.
Se questi sono i motivi centrali, i primi piani, la modernità di Pavese sarà negli sfondi: studi di pittori con discussioni sull’astrattismo, sbornie e cottcheries, caffè del centro, con donnine e cocaina, sifilide e amori lesbici, tabarins, macchine americane lunghe di qui fin là, alberghi e locali di lusso in montagna e in riviera, casini e cttsinos, dialoghi a repliche ardite e sottintesi, il correr l’andare-venire il moto perpetuo di questo dopoguerra, la deboscia il lusso. E, soprattutto lo stile con cui questa deteriore materia è trattata: scarno, impassibile, secco, lucido come un grattacielo o un bar, come vetrine al neon. Secondo me tutto ciò esiste in Pavese – c’è, specie ne La bella estate – ma il suo stile non è qui: questo è moda appena e domani sarà démodé, scaduto. Anzi tutto quel che abbiamo enumerato appena cessa di far da sfondo al quadro, appare come eccessivo, come superfluo, pesa, guasta, fa « cattivo gusto». Volevo dire che esteticamente il positivo di quei tre racconti è nei temi a cui ho accennato – personaggi e dramma – il resto, quasi tutto, è aggiunta, svolazzo, esercizio, virtuosità; i tre temi verginità, fedeltà, stabilità economica sono gl’infìssi piantati saldo nel muro, il resto sono ciarpe, cianfrusaglie appese a quegli infissi in tal copia da nasconderli e da minacciare di scardinarli e tirarli giù, pezzi sempre di bravura, squisitezze stilistiche da far aprir la bocca di maraviglia, da far dir talora:
« grande scrittore se avesse qualcosa da dire ».
Senonché Pavese ha pure nella Betta estate qualcosa di suo da dire, di tragicamente suo. La be!!a estate che cos’è? « A quei tempi era sempre festa. Bastava uscir di casa e traversare la strada per diventar come matte e tutto era così bello… », « una cosa da ragazzi, senza conseguenza, un effetto del sole e del cantare »: i tempi per Ginia dell’innocenza e della
« verginità ». Che son passati, che ci si ripensa con struggimento, nel cui ritorno si spera d’inverno. « In certi momenti per le strade, Ginia si fermava perché di colpo sentiva persino il profumo delk sere d’estate, e i colori e i rumori, e l’ombra dei platani. Ci pensava in mezzo al fango e alla neve, e si fermava sugli angoli col desiderio in gola ». « Verrà sicuro, le stagioni ci sono sempre ». « Che non tornerà più, Guido l’ha presa, Guido l’ha lasciata. Non per cattiveria o crudeltà, ma perché ora si fa così; non ci si ferma; i tempi non permetton più di attaccarsi; non usa più ». « Ma le pareva inverosimile proprio adesso eh’era sola: sono una vecchia, ecco cos’è. Tutto il bello è finito». Ed è finita anche Ginia, vittima dell’illusione che si possa oggi esser felici come ieri, che possa sulla neve fangosa brillare il sole del mese delle vacanze.
In tutto il libro ricorre il tragico motivo della bella estate come felicità perduta, come « tempi beati che non tornan più ». Anche Clelia, la ferma ragazza torinese, così sicura padrona di sé, ha una sua bella estate nel sécrétaire dei dolci ricordi, ed è l’unico sorriso della sua dura vita; ma quella stagione non tornerà più; e le copie che ne tenterà appariran fredde e sfuo cate; e la fortuna che ha fatto le serve sì ad assicurarle l’indipendenza, ma questo non dipender da altri, questo bastar a sé, è in fondo solitudine – ed esser soli in fondo è l’esser morti da vivi.
E nel Diavolo sulle colline la desolata bellezza del greppo col suo parco abbandonato, i terreni incolti alle falde, un cantuccio di moderno confort nella abbandonata suntuosità della villa, è dice dentro di sé a Gabriella e a Poli uno dei giovani ospiti; « Una cosa la presenza di Gabriella mi aiutò a capire… Quell’abbandono, quella solitudine del greppo era un simbolo della vita sbagliata di lei e di Poli. Non facevano nulla per la loro collina; la col lina non faceva nulla per loro. Lo spreco selvaggio di tanta terra e tanta vita non poteva dar frutto che non fosse inquietudine e futilità. Ripensano alle vigne di Mombello, al volto brusco del padre di Oreste ». Ripensate ai tempi dei padri: al nonno di Poli che faceva render la terra. Alla Bella estate che non torna più. Che è la luna bella e irraggiungibile; mentre qui in terra non ci sono che i falò, anzi resti dei falò, cenere, ossa calcinate, spreco, abbandono, morte.
Ultimo libro di Pavese, La luna e i falò; per me, il capolavoro. Letteratura della Resistenza, anche questa: ne La bella estate gli assenti, qui i presenti: tutti i presenti, il paese – le Langhe – e le persone – pro e contro, tutti in lizza; oramai più contro che pro. E perciò in questo libro l’epopea ha tanto felice risultato, perché la Resistenza è già un’occasione perduta, « E siamo a questo – disse Nuto – che un prete, che se suona ancora le campane lo deve ai partigiani che gliele hanno salvate, fa la difesa di quella repubblica e di due spie della repubblica. Se anche fossero stati fucilati per niente,
- disse- toccava a lui far la forca ai partigiani che sono morti come mosche per salvare il paese?» è già una causa vinta e quindi un buon argomento per la insomma romantica leopardiana musa di
Ma anche qui c’è altro che importa. Vediamo. Che cosa narra questa
« storia breve »? È un ritorno, un vooi:oç: il ritorno di uno che crebbe in quel paese, lo lasciò poco più che ragazzo, lo lasciò per Genova, prima, poi per l’America e ci torna uomo fatto, lo lasciò fuggendo avanti al fascismo, ci torna dopo la liberazione, fece la fame; lo lasciò miserabile, ci torna ben provvisto del suo. Rivede i luoghi dove fu ragazzo, trova l’amico più an ziano, l’eroe della sua infanzia, si fa narrar da lui quel che è accaduto in paese nel frattempo, racconta all’amico quel che occorse a lui lontano dal paese intanto. Ritorno, v6a-roç, Odisseo che rivede Itaca petrosa, la casa, il cane Argo, i cari memori, i Proci imboscati e immemori, la passione e la vendetta; poesia: poesia del v6a-ro,;, ricordi in folla si levan da ogni canto, ti vengono incontro: confronti fra allora ed oggi. Odisseo classico: l’eroe torna per fermarsi e stabilirsi: La luna e i jalò, v6a-roç romantico, Ulisse, torna per non posarsi.
Ma La luna e i falò è il libro dei ritorni, al plurale per i lettori di Pavese. Tornan nel libro i meglio riusciti personaggi degli antecedenti libri di Pavese; il cugino dei Mari del Sud, il ragazzo scontroso e fantastico di Feria d’agosto che scappa di casa per iscoprir il mare dall’alto, i grandi che clan ragione al piccolo gli clan confidenza ne conquistano il cuore, ritornan le ragazze fini le villeggianti furtivamente viziose, ritornano soprattutto i contadini cupi e subumani di Paesi htoi – la rivelazione di Pavese alla critica – che vivon faticando ma muoiono su quei paesi, colline tufi bianchi vigne canneti macchie di cerri, torrenti in magra, un glorioso sole su tutto. Ma tutti tornano cresciuti, maturati, uniti, con un perché. Eran bestiali i con tadini di Paesi tuoi ma d’una bestialità gratuita – irrimediabile – son stati anche questi (Valino) ma qui c’è un perché, è la miseria che li fa cattivi, è l’esosità dei padroni; e Nuto ne indica un rimedio: « il mondo è mal fatto: bisogna migliorarlo ». E neanche i ricchi, i signori, i padroni son felici: dai nonni ai padri, dai padri ai figli, de malo in peins, l’epistola del diavolo, ricchezze sperperate, vizi, licenziosità; e anche l’infelicità loro, il loro morir di mala morte ha insomma un perché, è una nemesi: punizione di loro colpe di classe, giustizia livellatrice del dolore.
E accanto alla cattiveria la bontà redentrice, il Cavaliere che va in malora ma non vende la villa anche per non disturbar il mezzadro truffatore. Nuto che vuol migliorare il mondo, il reduce che salva e mette all’onor del mondo lo sciancatello di Cinto: la bontà di cui Pavese, vinte le ritrosie di prima, ha già osato parlare nella bella estate (bontà onesta di Ginia, di Gabri, dei ragazzi di Clelia) e che qui pone di fatto a tema del libro.
E tornano i temi di Pavese: la campagna, la collina; s’è visto la città e la modernità che è l’America (ma l’America per il protagonista è anche la libertà); la question sociale de Il compagno, la Resistenza di Casa in collina, la donna lacheuse, sfuggevole di tutti i suoi libri, la fortuna fatta, la persona salda, sicura di sé, eccetera. Ma torna soprattutto il grande tema di Pavese: la bella estate, la dolce stagione irrevocabile, il paradiso perduto; la luna. Che è l’età dei padri, che è l’infanzia, la vacanza, la primissima adolescenza, la favola. Esiodo – La luna che è la terra promessa: l’America; il paese donde sei scappato dove aneli di tornare ma grande, ricco, glorioso; la libertà e una vita migliore abbattuto il tiranno, cacciato il nemico; la luna che è per il povero famelico cane di Valino la polenta che egli agogna.
Ci fu chi parlando della Luna e i falò, e già della Bella estate, parlò di consolazione di Pavese, di catarsi. Purtroppo no; non c’è consolazione per Pavese; il paradiso terrestre è perduto; la terra promessa è una promessa non mantenuta; e la luna è là alta in cielo diversa e identica ma è la luna, non la raggiungi mai, c’è in terra qualche cosa che le somiglia forse un po’ : il falò con il suo riverbero visto da lungi come pianeta posato in cima al monte; ma se ci vai che trovi? uno scheletro di casa annerita, cenere, ossa calcinate, la disperazione, il suicidio, l’esecuzione, gli orrori di questa vita quaggiù.
E l’America è un paese come qui; e al paese non ti posi, non ti radichi; e la giustizia sociale non s’avvera; e quella a cui abbaia il cane impazzito è la luna e non scende a farsi mangiare.
La luna e i falò; la morale del libro. Ma la luna e i falò sono credenze
- le superstizioni se si vuole – sono, meglio, le antiche credenze che fan tutt’uno di questo mondo civile e dell’umanità antichissima della favola; e sono l’arte di Pavese: sono la lucidità concreta terrestre di quella prosa, sono l’incanto sidereo di quella poesia, sono la magia accorata di quelle pagine. Pavese in quelle pagine abbraccia e bacia il suo mondo poetico, sorridendoci e piangendoci come reduce dalla guerra che ha una notte da parlar con la sposa. Pavese mira questo suo mondo dall’alto fra cime di monti e cielo – tra falò e luna – quasi come poeta che adocchi con Beatrice l’aiuola che ne fa tanto feroci: di qui – io credo – il sovrumano nitore di quella gemma. 1\fa la sua Beatrice è {Mva-rnç: la Eutanasia, la morte quieta.
Il libro nella dedica al maestro porta scritto
Nunc dimittis me, Domine.