Il monocolore della moda e quello della politica

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 21 agosto 2016

Ieri il Corriere spiegava nella pagina ‘moda’ che il ‘monocolore’ è l’alternativa al caos. Si riferiva ovviamente ai capi di abbigliamento e spiegava che il monoblocco piace, e ben venga una donna completamente in tinta, dai capelli ai piedi. È un modo per superare il rischio di assemblaggi eccessivamente disordinati, liberi, esagerati, privi di gusto e senso cromatico. Monocolore e via, insomma. Anche perché così si rafforzerebbe la personalità, altrimenti sballottata da troppi stili che non sanno affermarsi l’uno sull’altro. La tendenza è sostenuta da stilisti come Tommaso Aquilano e Roberto Rimondi, che si autodefiniscono “minimalisti anticonformisti”. Sic!

A me è apparsa persino una proposta di politica. La risposta minimalista al ‘caos’ delle idee e delle culture, e all’assenza di identità forti e conclamate. Tutti dello stesso colore e via così. Tutti raggruppati in un contenitore monovolume e passa la paura. Tutti uguali, monotinta, per riscoprire una personalità che non c’è più (cultura politica, identità organizzativa, lingua comune). Una spennellata di vernice, insomma, per consentire, ma anche per coprire ‘stampe’ diverse, diversi umori e diverse culture unificate soltanto dalle medesime (monocolori) ambizioni di potere. Aquilano e Raimondi si definiscono ‘anticonformisti’. In fondo anche i ‘nuovi’ politici si definiscono tali, si sentono innovatori, rispondendo alla crisi della politica con delle sverniciate monoblocco di comunicazione-politica. L’Italicum, il premio di maggioranza, sono un tentativo ‘monocolore’ alla crisi di fiducia e rappresentanza, ossia alla distanza (al ‘caos’) che si espande tra popolo e istituzioni.

Ma come per la moda, così per la politica, verniciare è solo un’illusione smart, l’ennesima. Non è inscatolando la varietà che si costruisce un’identità. Anzi, così la si sopprime in via definitiva. Perché è come puntare tutto sui colori (i simboli, il linguaggio) per ritenere che ciò basti a resuscitare una sostanza. È come sventolare una bandiera rossa (un monocolore, un simbolo), oppure citare Berlinguer, o ripetere a vuoto la parola ‘sinistra’, quando poi si fa il jobs act in Parlamento o si approva la legge elettorale ultramaggioritaria (la sostanza politica). In realtà non c’è rimedio al cosiddetto ‘caos’, anche perché esso è pluralismo, differenza, cromatismo politico, iridescenza di culture. Ossia un bene, dinanzi al male del tutti allineati e coperti dietro una spennellata di colore che copre ogni rigatura o differenza, compresi i diversi profili culturali e li mette a tacere profilando la carota del potere e degli scranni parlamentari.

Si deve ripartire, in realtà, proprio da quei colori, esaltarli, combinandoli ovviamente nel modo dovuto. Con intelligenza politica, che oggi però scarseggia. In una cosa, dunque, hanno ragione i due stilisti citati: oggi il senso cromatico è scarso, oggi non si sa più mediare e la mediazione è un disvalore, non si sa più dibattere, né trovare compromessi storici, ossia un’unità culturale e istituzionale profonda nella differenza che resta di sintesi politica. E Renzi, più di tutti, ha il peggior senso cromatico che si conosca. Mai visto un pittore più daltonico. A lui, tuttavia, abbiamo affidato il Paese. E da pessimo stilista ci sta preparando un ‘monocolore’ fatto di premi elettorali, bonus indifferenziati, patti segreti, richiami all’ordine, politiche che non sono né di sinistra né di destra. Che anzi sono di destra, ma camuffate (monocolorate!) di sinistra per quelli che ci credono. O per quelli a cui sta bene così. E amano il ‘nuovo’ in termini generici, o il ‘cambiamento’ ancor più genericamente (e gattopardescamente), perché di più e di meglio non sanno proprio né pensare né immaginare.

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