Fonte: Il corriere della sera
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di Aldo Cazzullo 16 aprile 2015
Prodi critica Renzi: meglio metodo Letta. No al partito della nazione.
«I poteri forti sono indeboliti e il leader Pd può costituire quello dominante. Franchi tiratori? Furono 120»
Romano Prodi si definisce «un inguaribile ottimista». Ma è un quadro preoccupante quello che esce dal libro-intervista con Marco Damilano, intitolato non a caso «Missione incompiuta» (Laterza). «Le politiche europee del governo tedesco meritano oggi ogni biasimo e, probabilmente, produrranno danni irreparabili» sostiene Prodi. «L’Italia non sarà la prima ad affondare, ma è solo questione di tempo: se non si cambia integralmente politica su scala europea saremo travolti tutti». Il libro contiene molti giudizi severi su molti temi, da Mani Pulite al «partito della nazione» renziano, passando per i 101 franchi tiratori del Pd «che furono in realtà 120». Ed è ricco di aneddoti e ritratti sulla vita pubblica degli ultimi decenni.
Ruini
«Lo conosco da sempre… fin da quando sarebbe stato certamente d’accordo sull’espressione “cattolico adulto”», con cui Prodi spiegò il suo dissenso dall’allora capo dei vescovi a proposito del referendum sulla fecondazione assistita. «Lo conosco almeno dal 1964. Avevamo animato insieme un circolo chiamato Leonardo, un’associazione molto avanzata, aperta alla città. Chiamammo a Reggio tutti i teologi del Concilio. Tra me e don Ruini c’era un rapporto personale molto forte. Ha parlato al matrimonio con Flavia, ha battezzato i nostri figli e tutti gli anni a Natale passava a salutare l’intera tribù». E la rottura? «Non c’è mai stata una lite. Nel 1995 andai a trovarlo in Laterano. Parlammo per oltre due ore. Alla fine ci lasciammo con le stesse differenze di opinione. Da allora non abbiamo più avuto ulteriori conversazioni ».
Maradona
P rodi è in Cina da presidente dell’Iri. Sta firmando un contratto dell’Ansaldo per una centrale elettrica. Il presidente della società cinese lo avverte che deve portargli un messaggio di Deng Xiaoping. «Ero piuttosto timoroso. Ma qui c’è il colpo di scena. In Cina, mi viene detto, Maradona è una specie di idolo e Deng è pazzo di lui. Ci tiene tanto a vederlo giocare di persona. Avrebbero voluto due partite, a Shanghai e a Pechino, e perfino Deng sarebbe stato presente allo stadio. Tornato in Italia, parlo subito con l’allenatore del Napoli Ottavio Bianchi. Lui è entusiasta, ma dopo tre giorni mi richiama mortificato: Maradona chiede per sé 300 milioni di lire, che moltiplicato per il resto della squadra fa un miliardo. Bianchi era un uomo serio, mi spiegò come funzionava la testa di Maradona: in modo assai diverso dai suoi piedi. Io risposi che un’azienda pubblica come l’Iri non si poteva accollare una simile spesa. Da allora sono molto arrabbiato con Maradona».
Craxi
«Non risparmiava certo i suoi sarcastici giudizi nei miei confronti. Una volta, durante una cerimonia, mentre stavo parlando sbottò ad alta voce, per farsi sentire da tutti: “Questo qui non sa neppure leggere!”. Però alla fine c’era un rapporto di rispetto. Mi è stato raccontato che una volta due deputati socialisti in visita a Hammamet ridevano di me, chiamandomi Mortadella. Craxi era distratto, ma ascoltò, li guardò e disse: “Guardate che a voi due il Mortadella vi fa un … così”».
Cuccia
L’uomo era di grandissima classe. Con lui ho a vuto molti scontri, ma l’ho sempre rispettato. Discutere con lui arricchiva. Era un destriero. Aveva una grande capacità di comprendere la politica. Con un disinteresse personale totale, ma con un obiettivo per cui ha combattuto tutta la vita: mantenere inalterati gli equilibri del capitalismo italiano. L’idea era che fuori dal ristretto gruppo delle famiglie tradizionali non esistesse nulla. Non era un cinico, ma di un pessimismo totale. Una volta mi disse: “So che lei da presidente dell’Iri va a visitare le imprese. Non lo faccia, perché poi ci si affeziona”».
Bossi
«All’inizio degli Anni Novanta, forse su suggerimento di Gianfranco Miglio con cui avevo mantenuto rapporti dai tempi della Cattolica, mi fece chiamare e mi offrì di entrare in politica con lui. Io dissi di no, ma fu un incontro molto divertente e istruttivo. Nei corridoi della modesta sede milanese i volontari della Lega mi chiedevano cosa dovevano fare con i loro risparmi, cosa sarebbe successo al prezzo delle case, ai titoli del debito pubblico… Quel giorno capii che la Lega attecchiva a radici popolari molto profonde. Non l’ho mai sottovalutata né demonizzata».
Di Pietro
«Fui ascoltato come testimone e tutto finì lì. Ma quello era il periodo in cui Di Pietro saliva velocemente gli scalini della politica. E diede all’incontro la massima risonanza possibile, al di là di ogni regola. Ogni tanto si alzava in piedi, si avvicinava alla porta e urlava: “E i soldi alla Democrazia cristiana?”. E tutti i giornalisti, di là dalla porta, lo potevano ascoltare».
Mani Pulite
«Questi metodi, pur inserendosi in una doverosa e lungamente attesa campagna di pulizia, segnarono anche l’inizio della stagione di un populismo senza freni».
D’Alema
«Da Gargonza», dove l’allora segretario del Pds criticò l’Ulivo, «venimmo via sfilacciati, con un segno di desolazione. Avevo ancora la speranza che fosse solo un momento tattico. In seguito si è dimostrata una strategia precisa. Era nata la paura che il governo potesse durare a lungo e permettere perciò la nascita del partito dell’Ulivo. D’Alema ha pensato che il gruppo che faceva riferimento a lui potesse perdere influenza sul governo e, forse, che si allontanasse la possibilità di avere alla presidenza del Consiglio una personalità proveniente dalla radice comunista. Se ci avesse lasciato governare per cinque anni penso che sarebbe stato proprio D’Alema il naturale e duraturo successore».
Grillo
Il primo contatto risale all’inizio degli Anni Novanta. Grillo venne a trovarmi e mi chiese di esaminare alcuni suoi copioni. Faceva bellissimi spettacoli sugli sprechi sui trasporti dell’acqua, sui consumi energetici, e voleva essere certo dell’esattezza dei dati. Poi non ci siamo incontrati più fino al 2006. Venne a Palazzo Chigi per consegnarmi il testo dei programmi usciti dai sondaggi, e mi fece una lunga intervista. Forse perché questa intervista non conteneva argomenti che potesse utilizzare politicamente, o semplicemente perché non l’aveva soddisfatto, dichiarò alla stampa che mi ero addormentato. Un comportamento davvero sconcertante».
Renzi
« Nel mese di agosto 2014 sono state inviate al presidente Renzi precise richieste per una mia possibile mediazione da parte di una pluralità di centri decisionali libici, ma non ho avuto alcun riscontro». Il 15 dicembre scorso Prodi va a Palazzo Chigi, ma Renzi non gli parla della Libia, né del Quirinale: «Ha gentilmente fatto cenno a una mia possibile candidatura per la prossima segreteria delle Nazioni Unite»; Prodi ringrazia ma non lo ritiene un obiettivo possibile. In altre pagine, l’autore sostiene che «i poteri forti si sono profondamente indeboliti», e oggi Renzi «ha certamente più probabilità di costituire il potere dominante del Paese». Ma Prodi sostiene di preferire «il cacciavite», metafora usata da Enrico Letta, al trapano di Renzi. «Questo è un Paese scalabile, ma la scala la devono fornire gli elettori». «I sindacati vanno ascoltati». «Il partito della nazione è una contraddizione in termini. Nelle democrazie mature non vi può essere un partito della nazione. È incompatibile con il bipolarismo». E ancora, partendo da Berlusconi: «Ci sono momenti in cui l’Italia ha bisogno di un’auto-illusione ed è disposta a non guardare dentro a se stessa pur di continuare a illudersi. Attraversiamo spesso questi momenti nella nostra storia nazionale…».
Merkel
«Sono preoccupato per il futuro dell’Europa, governata da una leadership che è sempre più forte ma ha perso il senso della solidarietà collettiva…Tutti i Paesi fanno a gara a ripararsi sotto l’ombrello tedesco, dove siede l’intelligente e severa maestra che, con la matita rossa e blu, ha sostanzialmente sostituito il ruolo delle società di rating, tra loro formalmente concorrenti ma, in pratica, ormai inascoltate sorelle gemelle».