Milano contro Torino per accaparrarsi il salone del libro

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti 30 luglio 2016

MILANO CONTRO TORINO PER ACCAPARRARSI IL SALONE DEL LIBRO. QUANDO LA RICERCA DI PROFITTO SOPRAVANZA E TRADISCE IL SENSO DELLA ‘MERCE’ CHE PURE SI VORREBBE PROMUOVERE
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Ho rispetto e ammirazione per Milano, grande città europea. Detta da un romano, è davvero molto. Tuttavia, quando ho letto del tentativo della Fiera meneghina di strappare (perché quest’è) il salone del libro a Torino, ho avuto un soprassalto. Capisco gli affari, la competizione di mercato, l’idea che le città siano ormai concorrenti, la necessità di riempire la Fiera di Rho in tutti i mesi e in tutte le stagioni. Non capisco tuttavia che c’entri il libro, la ‘merce’ libro con tutto ciò. Non sono un’anima bella e so benissimo che la cultura è anche imprenditoria, che servono anche capitali e risorse per garantire le nostre letture e il benessere del nostro ‘spirito’. Ma il libro è una cosa particolare, un oggetto speciale, non riducibile alla sua mercificazione, alle regole del marketing, perché se così fosse (e spesso così è) la cultura sarebbe davvero ridotta alle regole dell’economia, perdendo autonomia e qualità dinanzi alle aspettative del denaro.

Non capisco, tra l’altro, che cosa c’entri Milano con i libri. Non che consideri la Capitale economica una città di incolti, me ne guardo bene! Dico solo cosa c’entri Milano con l’immagine che essa per prima si è data, quella di città degli affari, della Borsa, della tecnologia, delle professioni, della managerialità, della moda. Il campo semantico è quello del profitto, delle relazioni economiche, delle merci e del marketing. Ora, parrò antico, ma il libro è merce che dovrebbe andare almeno un po’ controcorrente rispetto al colore dei soldi. Questa sua dimensione di prodotto culturale, di carta stampata, di gente che si ferma a guardare le copertine, magari in silenzio, magari alla ricerca di un po’ di concentrazione in mezzo alla folla, quest’immagine stantìa, in effetti, con la Milano della finanza, della modernizzazione, delle relazioni industriali c’entra poco. Voglio dire che il libro (e altri oggetti culturali assimilabili) è resistente alle relazioni smart, al calcolo veloce delle poste di bilancio, o dei profitti, o delle royalties. È resistente al drink bevuto a bordo piscina con indosso un abbigliamento da 5-6000 euro, durante una serata in cui si fanno relazioni e affari. Il libro è inerziale, ti spinge a rallentare, fermarti, ti rende dolce persino la solitudine, gonfia l’anima invece di assottigliarla. Il libro ha persino un suo alone di antieconomicità.

Una cosa così, un libro, con la Milano degli affari, delle classi dirigenti, dei tecnopolitici, e tanto più con quella ‘da bere’ c’entra poco, molto poco. E invece, per quanto io non provi una passione impetuosa per Torino, dico che il libro con la città sabauda c’entra di più, non fosse altro perché è da 30 anni che si fa il Salone, da un’epoca in cui a Milano c’erano ancora il craxismo, lo yuppismo e il Pio Albergo Trivulzio. Non propriamente dei movimenti per la promozione della lettura dei classici, tanto per dire. Per questo vedo con grande pessimismo e tristezza la lotta che si è aperta per strapparsi il giro di affari legato alla merce libro. È come tradire il senso dell’oggetto che pure si vorrebbe promuovere. Non dico che il modello debba essere quello degli amanuensi in un monastero benedettino, ma vivaddio qualcuno a noi lettori-lettori ci pensa? Oppure siamo soltanto obiettivi di marketing, consumatori al pari di un acquirente di automobili, utenti finali di un’industria che in nulla si distingue dalle altre? Anche perché tentare di conquistare nuovi lettori esibendo nani e ballerine, oppure proiettando slides e tabulati con la curva dei profitti, oppure abbinando la presentazione di un best seller a una sfilata di Armani, è di sicuro il modo peggiore per farlo. Ve lo assicuro.

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