Michele Gambino: “nell’immenso orfanotrofio di Kabul i Taliban offrivano riso e acqua ai bambini in cambio di sesso”

per mafalda conti
Autore originale del testo: Michele Gambino
La prima volta che i Taliban entrarono a Kabul fu nel settembre del 1996. Io e il fotografo Pietro Gigli eravamo tra i pochissimi stranieri presenti. Avevamo raggiunto l’Afghanistan valicando il mitico Khyber pass, e fummo gli ultimi a dormire all’hotel Intercontinental, che il giorno dopo il nostro arrivo fu devastato e saccheggiato dai Taliban.
In Occidente si parlava molto di questi studenti coranici, allevati a pane duro e Islam nelle madrasse delle zone più remote dell’Afghanistan, ma quasi nessuno li aveva mai visti.
Erano magri, i volti affilati, gli occhi cerchiati dal Kajal. Si muovevano nella città devastata con arroganza, ma anche con una specie di stupore nello sguardo, da villani in città. Ricordo di averli visti allo zoo, in un giorno di festa, passeggiare tra le gabbie delle scimmie, tenendosi teneramente per mano.
Con noi stranieri erano sfuggenti, come se non sapessero bene che atteggiamento prendere, ma l’unica volta in cui Pietro estrasse dalla borsa la macchina fotografica, in un mercato di periferia, un paio di loro sbucarono dal nulla con i Kalashnikov imbracciati e mancò poco che ci ammazzassero sul posto.
Il presidente Najibullah era stato appeso a un palo dopo essere stato torturato, e la città stava rapidamente tornando al medioevo: le donne che non indossavano il burka erano frustate in pubblico dalla cosiddetta “polizia morale”. La musica era vietata, e il nostro autista ci mostrò il vano segreto che aveva ricavato dentro la sua auto per nascondere le musicassette.
Tutti i giorni, alle 12, una marea di oggetti sequestrati nelle case – televisori, telefoni e ogni tipo di elettrodomestico – veniva disseminata lungo la strada principale di Kabul, e un carro armato ci passava sopra, producendo un clangore che entrava nelle ossa. Vedemmo la furia con cui le ruspe si accanivano contro il cemento delle strade, simbolo della modernità, e gli alberi ornati da chilometri di nastro srotolato dalle videocassette sequestrate.
Il venerdì, dopo la preghiera, allo stadio si svolgevano le esecuzioni pubbliche di chi non osservava la sharia. A Kandahar incontrammo il dottor Beluchi, un uomo malinconico che tagliava le mani ai ladri e presiedeva alla lapidazione degli adulteri.
Il mio giornale chiedeva storie di donne violate, maltrattate, umiliate. Avvicinarle era difficile e pericoloso, ma alcune sfidavano i divieti e si sfilavano il burka nella speranza che la loro voce arrivasse fuori da quell’orrore, e che questo servisse a qualcosa. Mi colpì il fatto che sotto il panno pesante fossero sempre truccate con molta cura.
Un giorno, per caso, scoprimmo cosa accadeva nell’immenso orfanotrofio della città, ingrossato da anni di guerre: nessuno si curava più di farvi arrivare il cibo, e i Taliban offrivano riso e acqua ai bambini in cambio di sesso. Prima portammo casse di cibo, poi andammo dall’appena nominato ministro dell’infanzia, chiedendogli nel nome di Allah di far cessare gli abusi. Ricordo ancora la sua faccia sorpresa e annoiata, e il fatto che mentre gli parlavamo – ammesso che capisse l’inglese – non smise un attimo di scaccolarsi il naso.
E questo era il governo islamico dei Taliban, presieduto dal misterioso e invisibile Mullah Omar. Tutti sapevano che a rifornirlo di armi erano stati gli americani. Qualche arguto analista della Cia doveva aver deciso che lui era l’uomo su cui puntare nel complicato scacchiere afghano.
Io non sono mai stato una cima, ma rispetto agli analisti della Cia devo essere un gigante del pensiero, perché scrissi in fondo al mio reportage che gli americani avevano messo le loro fiches sul numero sbagliato, e avrebbero pagato a caro prezzo l’errore. Però c’è poco da vantarsene, perché ci sarebbe arrivato anche un bambino.
Mi porto dentro da sempre le molte cose orribili che vidi, ma anche la bellezza di un paesaggio in cui nel deserto l’ardesia brilla al tramonto con colori mai visti altrove, e le carovane dei beduini attraversavano le gole di montagna avanzando lente sui cammelli, come trecento anni fa.
Quel reportage vinse il premio “Ilaria Alpi”, e il compenso ammontava a cinque milioni di lire. La metà li misi in un fondo di deposito intestato a mia figlia, l’altra metà la inviai attraverso la Croce Rossa agli afghani che mi avevano aiutato a entrare nel Paese e a uscirne vivo. Uno di loro, un professore di cui ho dimenticato il nome, mi fece sapere che li avrebbe usati per fuggire dal Paese. Spero tanto che ci sia riuscito.
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