Fonte: La stampa
Michael Sandel: “Il mio sogno americano è un patriottismo di sinistra ostile alla globalizzazione”
Il professore di Harvard: “La guerra alla democrazia è nata insieme all’America e possiamo vincerla sanando il divario educativo, che batte quello di genere”
Michael J. Sandel, professore di Filosofia politica ad Harvard, autore per Feltrinelli di La democrazia stanca. Nuovi pericoli e possibili soluzioni per tempi difficili, è tutt’altro che un catastrofista, ma pensa che nel corso della sua vita – ha 71 anni – non ci sia mai stata una minaccia alla democrazia come quella attuale.
E pensa che, per molti versi, si sia arrivati a questo punto per colpa della sinistra. Del suo elitarismo, del suo distacco dai bisogni dei lavoratori, dal suo rifiuto di ascoltarne le istanze.
Professor Sandel, è passato quasi un mese dall’elezione di Donald Trump, ne mancano poco meno di due al 20 gennaio, il giorno in cui l’amministrazione del presidente americano eletto si insedierà. La democrazia fragile di cui ha tanto scritto è ora in pericolo?
«Non c’è dubbio che il secondo mandato di Trump getti un’ombra sulla democrazia, così come a minacciarla è il successo dell’estrema destra e di partiti populisti autoritari in altri Paesi. Ma il futuro della democrazia è aperto. Dipende da noi».
In che modo?
«È un momento di sfida per tutti coloro che rifiutano la politica ipernazionalista e autoritaria di Trump. Bisogna essere in grado di offrire un’alternativa più convincente di quella offerta dai democratici alle elezioni».
Dopo quel che i suoi sostenitori hanno detto sulle minoranze del Paese, dopo quel che lui stesso ha detto sui nemici interni da combattere con l’esercito, dopo il tentativo del 6 gennaio 2021 di sovvertire il voto con la forza, Trump può ancora essere considerato un leader democratico?
«Tutto questo pone seri dubbi sulla prospettiva democratica di una seconda amministrazione Trump, ma per rispondere a questa minaccia sarebbe importante che i progressisti e il Partito Democratico americano trovassero il modo di affrontare le legittime rimostranze che hanno portato Trump alla vittoria. Con questo non intendo dire che debbano adottare il discorso pubblico ipernazionalista, xenofobo, razzista e misogino di Trump. Ma penso che Trump abbia avuto successo perché è riuscito a rispondere a lamentele profondamente radicate, soprattutto tra i lavoratori, tra gli elettori senza titoli universitari che i democratici hanno trascurato».
Siamo ancora a popolo contro élite?
«Il Partito Democratico non è riuscito a connettersi con gli elettori della classe operaia che un tempo costituivano la sua base. Una volta gli elettori senza laurea e i lavoratori votavano per i democratici come partito del popolo contro i potenti, contro i privilegi. Nel 2016, quando Trump fu eletto per la prima volta, c’è stata un’inversione di rotta. Il Partito democratico aveva cominciato a difendere gli interessi, i valori e le prospettive delle classi agiate, istruite, delle élite. Si era associato alle élite».
E per questo è stato punito. Ma è possibile che i democratici non abbiano imparato quella lezione?
«Abbiamo sentito molti commentatori soffermarsi sul divario di genere: sì, è vero che le donne hanno sostenuto Harris e gli uomini hanno sostenuto in modo sproporzionato Trump. Ma ancor più grande del divario di genere è stato il divario educativo. Quello tra laureati e non laureati. Chi ha titoli di studio avanzati ha votato per Harris. Chi non ha titoli universitari quadriennali ha votato per Trump. È ora che il Partito Democratico riconosca che gli elettori della classe operaia, quelli senza laurea, hanno rimostranze legittime».
Quali sono?
«Per cinquant’anni la maggior parte dei lavoratori negli Stati Uniti ha dovuto far fronte alla stagnazione salariale in termini reali. Così ad approfondirsi è stato il divario tra vincitori e perdenti. I dem devono chiedersi in che modo hanno contribuito alle rimostranze e alla rabbia anti-élite che Trump ha sfruttato con successo».
Com’è possibile che nel mondo la sinistra non riesca più a connettersi con quella che definiamo working class? E che a vincere sia un messaggio di paura e rabbia, confuso con un senso di protezione e sicurezza?
«La sinistra non ha articolato un racconto convincente dei suoi valori, dei suoi principi e della filosofia che la governa. Perché non solo il Partito Democratico americano, ma anche i partiti socialdemocratici di molti Paesi europei negli ultimi quarant’anni hanno abbracciato la versione neoliberista della globalizzazione insieme ai principali partiti di centrodestra».
Lei fa risalire quella scelta all’amministrazione Clinton.
«Sì, ma potremmo tornare anche un po’ più indietro. Negli anni Ottanta, Ronald Reagan e Margaret Thatcher sostenevano che il problema fosse il governo e che i mercati fossero la soluzione. E sostenevano che i mercati sono l’arena della libertà. I partiti e i politici di centrosinistra che sono venuti dopo di loro, da Clinton negli Stati Uniti a Blair in Gran Bretagna a Schroeder in Germania, hanno ammorbidito gli spigoli della politica di mercato laissez-faire di Reagan e Thatcher, ma non hanno mai messo in discussione la premessa fondamentale: la fede nel mercato, la convinzione che i mercati e i loro meccanismi siano gli strumenti principali per raggiungere il bene pubblico. Hanno abbracciato una versione neoliberista della globalizzazione che ha portato all’esternalizzazione del lavoro verso Paesi a basso salario, alla deregolamentazione di Wall Street e dell’industria finanziaria, conducendo alla stagnazione salariale di cui parlavo e all’ampliamento delle disuguaglianze».
La famosa terza via è stata un fallimento?
«Una globalizzazione neoliberista che ha offerto grandi ricompense a chi sta al vertice, il 10-20 per cento più ricco della popolazione, ma molto poco alla metà più bassa nella scala dei redditi. I partiti di centrosinistra, insieme ai partiti di centrodestra, hanno abbracciato questa versione della globalizzazione neoliberista e della deregolamentazione finanziaria. E poi, quando è arrivata la crisi finanziaria nel 2008, hanno sostenuto il salvataggio delle banche e di Wall Street. Che non hanno reso conto di nulla, mentre i proprietari di case hanno dovuto pensare a salvarsi dalla rovina. Questo ha prodotto una rabbia comprensibile. Da lì sono nati il movimento Occupy Wall Street e poi, a sinistra, la candidatura di Bernie Sanders, che sfidò Hillary Clinton alle primarie dem del 2016. A destra invece la rabbia contro il piano di salvataggio ha prodotto il movimento Tea Party e la prima elezione di Trump».
E in Europa?
«Abbiamo assistito allo stesso capovolgimento in Gran Bretagna, dove i lavoratori arrabbiati contro le élite hanno votato per la Brexit, sostenuta in maggioranza da persone che non avevano titoli universitari».
E perché non si può considerare un merito portare avanti istanze sostenute dai cittadini più istruiti? Com’è possibile sia diventata una colpa?
«La colpa è non essere riusciti a ridefinirsi dando dignità al lavoro. Anche la sinistra ha enfatizzato l’idea meritocratica secondo cui la soluzione alla disuguaglianza è la mobilità individuale verso l’alto attraverso l’istruzione superiore, andando all’università. Ma è una risposta troppo debole davanti alle crescenti disuguaglianze».
Cosa dovrebbe fare?
«Serve un programma che si avvicini al popolo e che ne riconosca la legittima rabbia contro le élite che hanno fallito negli ultimi 40 anni esprimendo anche un senso di orgoglio nazionale, e di patriottismo».
Un patriottismo di sinistra?
«L’errore è stato consegnare l’idea di patria alla destra. Negli Stati Uniti, in Italia, in molti Paesi, c’è la tendenza della sinistra a dire che il patriottismo è affare dei politici di destra, xenofobi, intolleranti, ipernazionalisti. È invece necessaria una nuova versione di patriottismo: servizi pubblici più generosi con coloro che fanno fatica, il riconoscimento degli obblighi reciproci che abbiamo come cittadini gli uni verso gli altri. È il senso di solidarietà, che va coltivato. E non si può avere solidarietà in un Paese se non si fa appello all’orgoglio nazionale, al senso di ciò che condividiamo, al bene comune, a un’identità condivisa».
In passato ha criticato l’ossessione per il merito che avrebbe portato a un peggioramento delle disuguaglianze. L’idea, di origine protestante, che se non ce la fai è colpa tua. Se non eccelli sei un peso, la modernità non trova posto per te. Anche questo ha contribuito, secondo lei, alla crisi delle democrazie?
«Sì, penso abbia creato le condizioni per il successo di figure come Trump. Sempre negli ultimi 40 anni il divario tra vincitori e perdenti si è approfondito, avvelenando la nostra politica e separandoci. Questo ha in parte a che fare con la crescente disuguaglianza di reddito e ricchezza, ma anche con qualcosa di più profondo, con il cambiamento dell’atteggiamento nei confronti del successo. Chi è arrivato al vertice durante l’era della globalizzazione crede che il suo successo sia opera sua, quindi di meritare tutte le ricompense che il mercato gli concede. Nello stesso tempo, crede che chi è stato lasciato indietro meriti il suo destino. Il che porta alla sensazione, tra molti lavoratori, tra molte persone senza titolo universitario, che le élite li disprezzino, che non rispettino il contributo che danno all’economia o alle loro comunità o al bene comune».
Siamo davanti a un mondo attratto più dagli autoritarismi o dalle democrature come quella russa, o dalla via socialista al capitalismo cinese, che dalle democrazie?
«Credo sia una questione aperta e che l’esito non sia scontato. Il risultato dipende da noi. Dipenderà dalla capacità dei partiti politici e dei movimenti che hanno a cuore la democrazia di rispondere a questi modelli alternativi affrontando in modo convincente le preoccupazioni che hanno portato molti cittadini ad abbracciare soluzioni più autoritarie. Dalla capacità dei partiti socialdemocratici di riconnettersi con gli elettori della classe operaia che hanno alienato. Con un’agenda politica che parta dalla dignità del lavoro e cerchi di dare espressione concreta a ciò che ciò potrebbe significare nel mondo contemporaneo».
Ad esempio?
«Consentire ai lavoratori non solo di prosperare economicamente, ma anche di sentire che il resto della società, comprese le élite, rispetta il lavoro che svolgono e i contributi che danno, che abbiano una laurea oppure no. Avere un progetto volto a dare voce ai cittadini comuni che oggi sentono che le élite al governo non si preoccupano veramente di quello che pensano. Servono forme di politica più partecipative in modo che il cittadino comune possa sentire di avere voce in capitolo su come viene governato».
Non mi ha però detto se pensa che con Trump la democrazia possa finire.
«Anche questa è una questione aperta. Il malcontento per la democrazia risale alla fondazione dell’America, che nella sua lunga storia ha dovuto affrontare sfide esistenziali, soprattutto nel conflitto sulla schiavitù e nella guerra civile. Quindi non paragonerei questo momento a quel periodo. Ma direi che nella mia vita, questa è la sfida più grave che la democrazia abbia mai dovuto affrontare. Lo abbiamo visto quando abbiamo sentito Trump parlare dei suoi avversari politici come di nemici interni. E lo vediamo nel suo desiderio di vendetta, di fare in modo che la sua seconda amministrazione sia dedicata alla punizione contro tutti coloro che lo hanno attaccato, criticato o sfidato. Resta da vedere quanto efficacemente la Corte Suprema – ora squilibrata a vantaggio dei repubblicani – controllerà il suo potere. In queste elezioni il suo partito ha ottenuto il controllo di entrambe le camere del Congresso, anche se di misura. Hanno una maggioranza piccola e ristretta in entrambe le camere. Ma non tutti i repubblicani saranno d’accordo con Donald Trump sulle sue politiche più estreme. Quindi ci sono ancora elementi di controllo ed equilibrio. E poi c’è anche la stampa, c’è la società civile. Non sarei troppo pessimista. Un piccolo segnale incoraggiante è stato il passo indietro a cui è stato costretto su colui che aveva scelto come procuratore generale, che era a dir poco inqualificabile».
Lei insegna ad Harvard. Come hanno preso le elezioni i suoi studenti?
«Gli studenti di Harvard non sono politicamente rappresentativi del Paese. La stragrande maggioranza non era per Trump e alcuni erano molto turbati dalla sua elezione, soprattutto quelli che avevano lavorato duramente per sostenere la sua avversaria. Penso che alcuni si sentano demoralizzati. Alcuni si chiedono quanto possano essere efficaci in politica. Sono scoraggiati. Ma altri si sono impegnati a continuare a lavorare per i candidati politici in cui credono. Lo trovo rincuorante. Una delle grandi speranze di rinnovare il progetto democratico dipende dal fatto che la nuova generazione non si arrenda, ma sia pronta a partecipare, a premere per il cambiamento, compreso un cambiamento che ringiovanisce, ridefinisce e reinventa ciò che può essere la politica democratica. E così trovo, direi, tra i giovani in generale, una grande fonte di speranza per un tipo di politica migliore di quella di oggi»