Messina: Il Ponte della Frode

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Anna Lombroso
Fonte: il Simplicissimus
Url fonte: https://ilsimplicissimus2.wordpress.com/2015/10/01/il-ponte-della-frode/

 

 

 

 

di Anna Lombroso per il Simplicissimus 2 ottobre 2015

Ogni tiranno ha voluto lasciare la sua impronta, piramidi, archi di trionfo, castelli. Agli ultimi in ordine di tempo pare invece si addica il ponte, anche a quelli su scala territoriale minore: Cacciari è riuscito a realizzare il suo e forse l’esperienza dovrebbe persuadere il ministro Alfano, non sorprendente promotore del ripescaggio dell’opera, dell’inopportunità di  passare alla storia e forse alla cronaca giudiziaria con quella grande impresa. Alla fin fine meglio ripiegare sulle piramidi, come insegnano Cheope e Mitterrand, che tra l’altro garantiscono più occupazione di quella che piace al Jobs Act.

E dire che   nel 250 a.C. il console Lucio Cecilio Metello aveva avuto la stessa malsana idea: costruire un ponte che collegasse la Sicilia al continente per trasbordare 140 elefanti catturati ai cartaginesi. Per fortuna i suoi consiglieri, più avveduti della cerchia dei nostri politici cementificatori, lo sconsigliarono, nel timore che la faraonica struttura non reggesse il passaggio dei poderosi pachidermi.

Duemila anni dopo circa, un centinaio da quando intorno a quell’ipotesi si erano prodigati ingegneri paragonati a fantascienziati  e pensatori risorgimentali ansiosi di dare concretezza ulteriore all’unità, intorno al 1985,   a un leader altrettanto corpulento spesso paragonato a un cinghiale più che a un elefante, annuncia pubblicamente che il progetto di Lucio Cecilio Metello sarà  realizzato, affidando  alla Stretto di Messina spa l’atto di concessione e malgrado quel proposito  avesse suscitato le stesse perplessità di due millenni prima,  per via delle impervie condizioni ambientali dello stretto, dei fondali irregolari, delle impetuose correnti, delle violente raffiche di vento, dell’elevata sismicità.

Il passaggio dalla visione all’esecuzione si arenò nelle paludi di Tangentopoli, ma puntualmente qualche anno dopo il testimone viene raccolto da Berlusconi che passa dalle parole ai fatti: la societa’ Stretto di Messina predispone un progetto di massima, approvato con prescrizioni dal Consiglio superiore dei Lavori Pubblici, nell’ottobre del ’97, ma nel 2001 con la Legge Obiettivo che elimina i limiti che rendevano impossibile la concessione con autofinanziamento parziale, il Cavaliere e Tremonti diventano ufficialmente i padrini dell’opera.
Quello che sembrava un fantasma remoto prende corpo: un mostro da poco meno di 9 miliardi di euro lungo oltre 3,5 chilometri sospeso a quattro cavi d’acciaio con due piloni posti sulle sponde.  Nell’ottobre 2005, l’associazione temporanea di Imprese Eurolink S.C.p.A., capeggiata da Impregilo vince la gara d’appalto come contraente generale per la costruzione del ponte con un’offerta di 3,88 miliardi di euro. ma a pochi giorni dalla firma Prodi vince le elezioni e il progetto torna nel cassetto degli incubi, da dove al seguente giro di valzer lo estrae Berlusconi per riavviare l’iter, fino al nuovo stop apparentemente definitivo di Monti. Un fermo ai cantieri provvisorio però: dopo essere stato costretto nell’ottobre 2012 a stanziare  nella cosiddetta legge di stabilità  300 milioni per il pagamento delle penali per la non realizzazione del progetto, qualche giorno il governo Monti delibera di prorogare, per un periodo complessivo di circa due anni, i termini per l’approvazione del progetto definitivo del ponte sullo stretto di Messina al fine di verificarne la fattibilità tecnica e la sussistenza delle effettive condizioni di bancabilità.

Insomma si sancisce che bisogna uniformarsi a  quell’accordo opaco e segreto con il quale nel 2009 la società statale Stretto di Messina spa  garantiva ai costruttori del consorzio Eurolink (Impregilo, Condotte, Cmc) il pagamento della ormai leggendaria penale che il contratto originario escludeva. Perché, è facile intuirlo, alle cordate di imprese interessate l’ex commissario che si era “battuto” contro le lobby non poteva certo dire di no, perché è la regola dei paesi mal sviluppati proporre grandi opere propagandiste che trasmettano il messaggio di molti soldi, molto lavoro, molta crescita, perché ai famigli e amici dei governi che si sono succeduti importa più della realizzazione il brand della progettazione, dell’affidamento degli incarichi, delle sanzioni e delle penali, insomma è più profittevole in non fare del fare, che esistono soggetti che hanno diritto a vedersi risarcire per quello che non hanno realizzato.

Se ci eravamo illusi che esistesse un margine di buonsenso, se ci eravamo cullati che le voragini di bilancio dissuadessero dalla diabolica perseveranza che ha contraddistinto la prosecuzione di Tav, Mose, svincoli che crollano, varianti in corso, sottopassi fiorentini,  ipotesi di olimpiadi romane promosse entusiasticamente da Renzi e dal sindaco Marino, giubilei, 35 progetti autostradali, ci ha pensato Alfano a fare da testa di ariete, in nome e per conto del governo unico del partito unico e dei loro unici amici, come quel   car­tello di imprese cui fa capo  Vito Buonsignore  patron  dell’inutile auto­strada Orte Ravenna Mestre ed espo­nente del Ncd e cui il ministro Lupi aveva deciso di affi­dare 6 miliardi di euro, come il cartello della Metro C di Roma, come le inamovibili compagnie di giro che ruotano intorno al Mose, delle quali è dimostrata la disonestà combinata con la incompetenza: costi diminuiti di 30 milioni dopo gli arresti, ma incidenti che si susseguono attribuibili al sistema “tangentaro”.

“Non vedo ragioni per cui non si debba più par­lare del Ponte sullo Stretto” , aveva detto Ange­lino Alfano,  e dopo qualche sussulto ecco che il  sot­to­se­gre­ta­rio alle Infrastrutture Umberto Del Basso De Caro, Pd ovviamente, aggira le perplessità perfino di  Delrio proponendo una risoluzione con la quale il Governo si impe­gna a «valu­tare l’opportunità di una ricon­si­de­ra­zione del pro­getto del Ponte sullo Stretto come infra­strut­tura fer­ro­via­ria pre­via valu­ta­zione e ana­lisi rigo­rosa del rap­porto costi-benefici, come pos­si­bile ele­mento di una stra­te­gia di riam­ma­glia­tura del sistema infra­strut­tu­rale del mezzogiorno».

Quando sento la parola “riammagliare” rimpiango le tricoteuses e lo spettacolo cui assistevano sferruzzando, ma cosa possiamo aspettarci dagli amici di partito di Verdini, da un governo che parla di Sud alle 14 del giorno di ferragosto per ribadirne i ritardi attribuibili alla antropologica indolenza, che dimentica che  la rete infra­strut­tu­rale in Cala­bria è da quarto mondo, se dopo 49 anni, «il can­tiere più lungo di tutta Europa»,   la Salerno-Reggio, è ancora in fase di rea­liz­za­zione con ben   32 «lavori temporanei» e se da Cosenza in giù la segna­le­tica sull’asfalto è ine­si­stente e le gal­le­rie sono senza illuminazione, che neppure sa che le due regioni che verrebbero non solo simbolicamente collegate sono già unite da un destino di dissesti, abbandono del territorio, speculazione e da un susseguirsi di “accidenti” non accidentali: strade che crollano, ponti che si sbriciolano come fossero di cartapesta, frane mortali, fiumi che straripano.

Che poi è vero che  l’enorme massa di ricchezza privata prodotta dalle speculazioni finanziarie, che ha portato alla crisi globale di questi anni, ha la stringente necessità di trovare nuovi asset sui quali investire,  ma abbiamo sotto gli occhi quotidianamente il fallimento delle operazioni di virtuosa collaborazione tra Stato e privati a cominciare dalla BreBeMi, magnificata come illuminato esempio di Project financing , che secondo il marpione di Rignano avrebbe dovuto essere tutta a carico delle imprese, mentre abbiamo appreso recentemente e non sorprendentemente che costerà ai contribuenti non meno di 1,7 miliardi. E suona dunque ancora più risibile l’ipotesi di realizzare “solo” un ponte ferroviario, non soltanto a fronte delle condizioni attuali delle infrastrutture su ferro tra­sporto del tratto jonico, carat­te­riz­zate da un unico bina­rio non elet­tri­fi­cato, con corse ope­rate su base regio­nale, ma anche perché verrebbero meno gli unici cespiti plausibili, quelli dei pedaggi autostradali.

Il Ponte sullo Spettro nel 2012, quando vennero pubblicati pudicamente gli ultimi calcoli era già costato in  progetti, burocrazia e trivellazioni, insomma nel non fare, 300 milioni di euro. E’ pericoloso,   una provocatoria sfida ingegneristica  in una delle zone più sismiche del Mediterraneo; è un’infrastruttura inutile dal punto di vista della mobilità e della promozione dello sviluppo economico;  costituisce  una minaccia paesaggistica e ambientale, sia per l’impatto che avrà l’apertura di decine di cantieri sulle due rive dello Stretto, sia per la migrazione di milioni di uccelli (4,3 sono stati quelli censiti in volo in appena un mese e mezzo di controlli radar), il progetto   redatto dalla Stretto di Messina spa (concessionaria interamente pubblica) e da Eurolink (General contractor), un documento costato 66 milioni di euro di fondi pubblici, è tuttora incompleto e provvisorio e  “non può essere ritenuto definitivo” anche a detta dei promotori, e viste le tante lacune e approssimazioni. Qualcuno ha condito queste obiezioni piene di buonsenso con accorti paragoni:  “ il Ponte sullo Stretto”, ricordano Fai, Italia Nostra, Wwf, Legambiente e Man, “avrebbe una campata lunga 3,3 chilometri, mentre la più lunga esistente al mondo (Akashi Kaikyo, in Giappone) è di appena 1,9, km. Il ponte giapponese è però solo stradale, mentre quello tra Reggio e Messina dovrebbe essere sia stradale che ferroviario. Per costruire quest’ultimo, secondo i progettisti, sarebbero sufficienti appena 6 anni, mentre per Akashi Kaikyo ne sono occorsi ben 12. I cantieri per i lavori occuperebbero inoltre sul versante siciliano uno spazio pari a oltre tremila campi da calcio, mentre su quello calabrese ne sarebbero sufficienti “appena” la metà”.

Non so chi ci difenderà da questa insana manifestazione a un tempo di disonestà e megalomania. Non certo i Comuni strangolati da vincoli di bilancio che magari si accontenteranno delle briciole che dovrebbero coprire le cosiddette “opere compensative” e che non potranno superare il 2%del costo complessivo dell’opera per la realizzazione di interventi che vanno da bretelle a stazioni ferroviarie, sistemazioni viarie e così via. Non certo le Regioni, nelle mani di un ceto dirigente inadeguato.

Viene in mente quella canzone  col testo di Calvino, che ci echeggia in testa ogni 25 aprile “oltre il ponte  ch’è in mano nemica, vedevam l’altra riva, la vita”. Sarà bene cantarla anche gli altri giorni.

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